La notte andava cessando, ma il giorno ancora non schiariva a levante. Nel buio delle primissime ore del 9 settembre 1943 le navi della squadra da battaglia italiana, lasciati gli ormeggi della rada di La Spezia, sfilavano tra Lerici e la Palmaria. Due ore prima erano salpate le torpediniere Pegaso, Orsa, Orione e Impetuoso; ora dirigevano al largo i cacciatorpediniere Mitragliere, Fuciliere, Velite, Legionario, Artigliere, Oriani, Grecale; gli incrociatori Eugenio di Savoia, Montecuccoli, Duca d’Aosta; le navi da battaglia Roma, Italia, Vittorio Veneto. Le tre corazzate costituivano la 9ª divisione, al comando dell’ammiraglio Accorretti, imbarcato sulla Vittorio Veneto, mentre l’ammiraglio Bergamini, comandante dell’intera Forza Navale alzava l’insegna sulla Roma; i tre incrociatori componevano la 7ª divisione al comando dell’ammiraglio Oliva, sull’Eugenio, mentre le due squadriglie di cacciatorpediniere (12ª e 14ª) erano rispettivamente al comando del capitano di vascello Marini e del capitano di vascello Baldo; la Pegaso e il gruppo di torpediniere erano comandate dal capitano di fregata Imperiali.
Alle 6,30, fattosi ormai luminoso il mattino, si univano alla squadra le navi dell’8ª divisione, cioè gli incrociatori Duca degli Abruzzi, Giuseppe Garibaldi e Attilio Regolo, con aggregata la torpediniera Libra, provenienti da Genova al comando dell’ammiraglio Biancheri, imbarcato sul Duca degli Abruzzi. Alle 6,45 la Forza Navale, assunta formazione su cinque file con al centro le navi da battaglia e sulle ali le due squadriglie di cacciatorpediniere, procedeva verso sud, alla velocità di 22 nodi, a ponente della Corsica, diretta a La Maddalena.
La decisione di salpare da La Spezia – verso la quale già si avviavano minacciose, vanamente contrastate da breve e vana resistenza di reparti delle divisioni «Rovigo» e «Alpi Graie», le divisioni tedesche cui era state affidato, con il «piano Schwarz», il compito di occupare la piazzaforte e di impadronirsi della flotta – era stata sofferta. Inevitabilmente, anche la Marina militare si trovò coinvolta negli accadimenti confusi che contraddistinsero il momento dell’armistizio. I ritardi, le contraddizioni, l’alternanza di disposizioni, non potevano non rendere complesse e difficili le decisioni da assumere. Si pensi che nella mattinata del 7 settembre il Ministro e Capo di Stato Maggiore della Marina De Courten aveva incontrato a Roma l’ammiraglio Bergamini, comandante in capo della squadra da battaglia, e gli aveva chiesto notizie sullo spirito degli equipaggi, nella previsione di un’imminente azione contro previste operazioni di sbarco anglo-americane sulle coste dell’Italia meridionale; e ne aveva ricevuto risposta che si era consci della realtà cui si sarebbe andati incontro, ma che la fotta era pronta a uscire per combattere, nelle acque del basso Tirreno, quella che sarebbe forse stata la sua ultima battaglia. E la sera dell’8 settembre, non appena diffusa la notizia dell’armistizio, lo stesso De Courten aveva nuovamente contattato l’ammiraglio Bergamini, rientrato a La Spezia: quale era la condizione morale della squadra che, pronta a prendere il mare per andare a combattere, si trovava di punto in bianco nella prospettiva di doversi consegnare al nemico? Bergamini aveva risposto che ammiragli e comandanti erano orientati verso l’autoaffondamento delle navi: nessuno, né anglo-americani né tedeschi, se ne sarebbe impadronito. La decisione di adempiere alle condizioni dell’armistizio, compiendo un enorme sacrificio morale, venne assunta considerando che l’atteggiamento futuro degli Alleati nei confronti dell’Italia sarebbe dipeso anche dal comportamento delle Forze Armate, dal rispetto delle imposizioni armistiziali, dalla partecipazione all’ultima battaglia contro il nazismo e apprendendo che nessuna clausola prevedeva che le nostre navi dovessero ammainare la bandiera o essere cedute.
Insomma si fece strada la coscienza che in quel momento di difficoltà estrema, di sfascio, mentre tutto andava crollando e certamente si chiudeva un’epoca drammatica, si apriva una prospettiva nuova, certo confusa e non priva di incertezze, che però già profilava la via del riscatto.
Se ne fece interprete proprio l’ammiraglio Bergamini, rivolgendo dalla Roma agli equipaggi della Forza Navale un messaggio la cui nobiltà non può essere obliata nella rievocazione dell’oscura pagina dell’armistizio e che bene si inquadra nelle tradizioni della Marina Militare: «… ciò che conta nella storia dei popoli non sono i sogni e le speranze e le negazioni della realtà, ma la coscienza del dovere compiuto fino in fondo, costi quello che costi. Sottrarsi a questo dovere sarebbe facile, ma sarebbe gesto inglorioso e significherebbe fermare la nostra vita e quella dell’intera nazione e chiuderla in un cerchio senza riscatto, senza rinascita… Verrà il giorno in cui questa forza vivente della Marina sarà la pietra angolare sulla quale il popolo italiano potrà riedificare pazientemente la propria fortuna…».
Ancora oggi gli uomini di mare meditano e discutono sulla scelta compiuta. Ma una cosa è certa: il difficile cammino dell’Italia verso la libertà passò anche attraverso di essa.
Giunta poco dopo mezzogiorno all’altezza dell’Asinara, la Forza Navale, ora disposta in unica linea di fila con le torpediniere a prua e i cacciatorpediniere in scorta sui due lati, s’apprestava ad entrare da ponente nell’estuario de La Maddalena: ma circa due ore dopo giungeva sulla Roma un messaggio del Comando Supremo per avvertire che La Maddalena era stata occupata da truppe tedesche, e ordinare alla squadra di fare rotta verso Bona. Compiuta l’inversione di rotta, nuovamente dirigendo, in senso opposto, verso l’Asinara, la squadra si trovò bersaglio di un attacco aereo da parte di uno stormo di Junker tedeschi che, contrastati a fuoco, non riuscirono a colpire le navi.
Erano le 15,40.
Dieci minuti dopo un altro gruppo di bombardieri tedeschi rinnovò l’attacco con bombe a razzo indirizzate soprattutto contro le navi da battaglia e, purtroppo, ebbe successo: a pochi minuti di distanza l’una dall’altra due bombe centrarono la Roma. La prima, caduta in mare a un metro dalla murata di dritta scoppiò sotto lo scafo sbandandolo e arrestando le motrici poppiere; la seconda cadde sul lato sinistro tra il torrione di comando e la torre sopraelevata da 381, provocando terribili devastazioni: lo scoppio di tutti i depositi munizioni prodieri, l’allagamento del locale macchine di prora, l’accensione di vasti incendi, il repentino sbandamento sulla dritta.
Alle 16,12 la corazzata aveva il trincarino della coperta a poppa già in acqua: pochi attimi di arresto consentirono al tenente di vascello Incisa, il più anziano dei pochi ufficiali superstiti, gravemente ustionato, di ordinare l’abbandono della nave: poi questa si capovolse spezzandosi in due tronconi e scomparve tra i flutti. Portò con se 1.326 tra ufficiali, sottufficiali e marinai; tra di essi l’ammiraglio Bergamini comandante la squadra e tutti gli altri componenti il comando della Forza Navale, rinchiusi nel torrione di comando. Altre 26 vittime si dovettero contare tra i 622 naufraghi recuperati dalle altre navi della squadra e tra di essi il comandante della Roma, capitano di vascello Adone del Cima.
Il resto della squadra, salvo alcune unità costrette ad appoggiare in porti spagnoli, passata al comando dell’ammiraglio Oliva, attraverso una lunga serie di vicissitudini e alterne vicende raggiunse Malta, ove già erano alla fonda Duilio, Doria, Cadorna, Pompeo Magno, Da Recco, che vi erano giunte da Taranto: trasferimento anch’esso avversato da attacchi aerei tedeschi.
Il sacrificio della Roma fu tra i primi e più onerosi prezzi che la Marina italiana pagò per concorrere alla causa della libertà. Ma nella stessa giornata e nelle successive, numerosi altri furono gli scontri e i combattimenti sostenuti in mare da altre unità navali e nelle basi di terra in Italia e all’estero da reparti di Marina, tutti contrassegnati da gesti di grande valore e, purtroppo, anche da rilevanti perdite: numerose furono le navi perdute, molti i caduti.
Furono i giorni della scelta coraggiosa e del sacrificio. Giorni dolorosi cui ne sarebbero seguiti altri, quelli della guerra di liberazione, alla quale la Marina partecipò attivamente ed eroicamente, con i suoi mezzi, i suoi reparti, i suoi uomini coraggiosamente presenti anche nelle formazioni partigiane. Ma possiamo ben dire che, simbolicamente oltre che temporalmente, l’inizio sta là, nel sacrificio della Roma e nelle parole del messaggio dell’ammiraglio Bergamini.
(da Patria indipendente n. 14/15 del 1993)
Pubblicato mercoledì 18 Settembre 2019
Stampato il 13/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/longform/la-drammatica-fine-della-corazzata-roma/