Roberto Bracco nel 1900

A partire dal 1924 – l’anno dell’assassinio di Giacomo Matteotti – e sino alla morte, Roberto Bracco, il “re napoletano del teatro italiano”, ingaggia un lungo, estenuante duello con il fascismo. Subirà l’ostracismo dal regime mussoliniano (il «regno della parola» e della demagogia), pagando con la censura e l’isolamento il suo ripudio del conformismo imperante, quello – per dirlo con le sue parole – dei «ciarlatani», degli «arrivisti», degli «opportunisti», degli «imbroglioni», dei «mentitori», dei «falsari della storia», dei «pettegoli», dei «prezzolati», dei «vili» (1).

Nato a Napoli (1861), in via S. Gregorio Armeno 41, da Achille e da Rosa De Ruggero, Bracco – eccezionale autodidatta – comincia a lavorare giovanissimo nell’ambiente giornalistico, venendo a contatto con il fior fiore della stampa partenopea (da Martino Cafiero (2) a Matilde Serao, Rocco de Zerbi, Edoardo Scarfoglio, Federigo Verdinois). Nelle redazioni dei giornali si avvicina alla letteratura, scrivendo note di critica, articoli di varietà, nonché bozzetti, versi, novelle (3). Poeta dialettale, critico, novelliere, si affermerà soprattutto come autore teatrale, dispiegando la sua attività nell’arco di alcuni decenni tra Otto e Novecento. Riscuoterà un notevole successo, venendo apprezzato e rappresentato dappertutto, in Italia come all’estero (dall’Europa alle Americhe).

Il famoso drammaturgo norvegese Henrik Johan Ibsen

Alcuni anni dopo l’apparizione della sua prima pièce (Una donna), sulla scia del drammaturgo norvegese, Henrik Johan Ibsen, Bracco passa dall’osservazione puntuale della realtà – la sua vera grande ispiratrice – alla perlustrazione dei problemi di natura morale e sociale, all’analisi dell’animo umano, al tema della libertà intima e dei diritti conculcati. In più di un’opera, in particolare ne La piccola fonte (1906), Bracco stigmatizza il maschilismo familista e mette l’accento sullo stato di prostrazione della donna, attraverso indimenticabili personaggi che danno fondo a tutte le loro risorse pur di far valere il diritto ad una vita non più castigata dalla soggezione servile, non più rinchiusa nell’asfissiante recinto di una società e di una cultura sorde alla sensibilità e alle esigenze dell’universo femminile (4). Rivolgendo lo sguardo all’infelice condizione della donna, egli oltrepassa il rassicurante perimetro del teatro borghese, si distacca dal ritmo, dalla forma e dai contenuti delle pochades francesi. Nelle sue opere, recitate da attrici del calibro di Tina Di Lorenzo, Virginia Reiter, Irma ed Emma Gramatica, si è lontani dal familismo amorale come dal superomismo estetizzante. Inoltre, l’influenza positivistica-verista, palese nei primi “drammi sociali” e nelle novelle, lascerà progressivamente il posto alla messa a fuoco delle “tragedie dell’anima”. Se questa dimensione introspettiva già fa capolino in Don Pietro Caruso (1896), in cui Bracco denuncia con passione civile la connivenza della politica con la malavita camorristica, essa viene più sottilmente analizzata nelle storie di rivolta e di sconfitta del primo Novecento: Sperduti nel buio (1901), La piccola fonte (1906), Il piccolo santo (1912).

Una scena del film Sperduti nel buio (1914), primo esperimento cinematografico di Roberto Bracco

Bracco – si badi – assurge a protagonista della “scena” italiana e internazionale, muovendo dalla sua Napoli. Una città che, pur segnata dall’epidemia di colera del 1884, dall’affiorare di una preoccupante corruzione politica, documentata dall’Inchiesta Saredo, da una persistente condizione di sottosviluppo, nel passaggio tra Otto e Novecento si avvia ad assumere una connotazione industriale, ad est come ad ovest della sua cintura urbana, e diviene un vivace centro culturale, con i suoi café-chantant (su tutti il Gambrinus), con i suoi teatri e spettacoli di richiamo, sino a imporsi come la capitale della nascente industria del cinema (5). Dopo qualche perplessità verso la nuova forma di intrattenimento, che va già seducendo una parte del pubblico fino a quel momento assidua frequentatrice dei teatri, Bracco intuisce la peculiarità del linguaggio della “musa emergente”, che comincia proprio allora a diffondere i miti della modernità con le pellicole cinematografiche. Nel 1914 non solo invita i cineasti ad accantonare remore e pregiudizi nei confronti degli intellettuali (6), ma traspone per il grande schermo Sperduti nel buio (7), impegnandosi in prima persona ad adattare il collaudato dramma alle modalità espressive della “settima arte” (8).

Dall’iniziale produzione, che alterna drammi d’impianto verista a commedie brillanti sul modello francese molto in voga nell’ultimo quarto del secolo diciannovesimo, Bracco nel corso dei primi due decenni del Novecento si inoltra in sentieri nuovi, scrivendo opere che introducono temi e motivi riferibili alla psicologia del profondo, che anticipano le forme più avanzate poi assunte dal teatro europeo: il “teatro del silenzio” (9). È, quest’ultimo, un “teatro senza teatro”, in cui è cruciale il non detto, che finisce con l’avere maggiore valore e senso rispetto alle parole e al gesto. Con Il piccolo santo, Bracco per la prima volta porta in superficie la sfera problematica del subconscio, utilizzando la tecnica dell’inespresso che rinvia alle penombre, alle sfumature dell’interiorità. Si tratta del primo lavoro in Europa del “teatro senza teatro”, che sarà lanciato un quindicennio più tardi da Jean Jacques Bernard, Charles Vildrac e altri autori transalpini; che si configurerà come l’espressione più raffinata dello psicologismo teatrale.

Nel 1922 Bracco pubblica nel catalogo della Sandron il dramma I pazzi, che suscita un’eco molto forte – nel giro di poche settimane ha una seconda edizione e una tiratura di undicimila esemplari – e dà luogo ad un’accesa discussione, con numerosissimi articoli apparsi sulla stampa. L’opera viene stroncata sul Il Mondo dal filosofo e critico Adriano Tilgher (da non confondere con il pronipote, ndr), che accuserà Bracco di essersi rifatto senza alcuna originalità prima ad Ibsen, poi a Luigi Pirandello, stella polare del “teatro nuovo” italiano. A difendere Bracco, a perorarne il valore artistico e l’onestà intellettuale interviene lo scrittore, regista e produttore cinematografico, Lucio D’Ambra (10). A distanza di qualche anno, in una lettera del 17 settembre 1925 (11), Bracco ribadisce la sua nuova visione e il suo modo di intendere il teatro, esposti nel preambolo del suo capolavoro, concepito già nel 1909 e composto nel 1918, abbastanza prima de Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello.

Sintesi dell’inquietudine moderna, i quattro atti de I pazzi rientrano nel filone dell’”inespressione espressiva”, inserendosi, insieme con Il piccolo santo, tra le realizzazioni più compiute del teatro che rivela aspetti nascosti dell’animo umano. L’opera non costituisce, dunque, una concessione alla ‘moda’ dell’epoca, uno “spizzico di pirandellismo” sparso qua e là. Certo, vi è l’esplorazione del labile confine tra realtà e finzione, ma accanto ad altri motivi (la rigenerazione di Sonia, l’amore di Ulrico, il dubbio di Francesco), i quali rimandano piuttosto a drammi già rappresentati dell’autore napoletano, che non al dualismo pirandelliano tra la “vita nuda” e l’illusione. Se il drammaturgo siciliano imprime una curvatura filosofica a tale tematica, Bracco non si pone sul terreno delle querelles e disquisizioni speculative. In Pirandello risalta la contraddizione tra la maschera imposta dalle circostanze esteriori (convenzioni, abitudini, coercizioni della coscienza) e l’autentico volto del personaggio, ossia la perpetua dialettica tra forma e vita. In Bracco, invece, c’è sì il dramma del subcosciente, ma come urto fra passioni, come conflitto derivante dalla compresenza di molteplici anime nei personaggi. Attraverso la focalizzazione della natura della follia, della sottile linea di demarcazione tra pazzia e saggezza, affronta il grande tema della frantumazione dell’unità dell’io, magistralmente evidenziato dal padre della psicanalisi, Sigmund Freud.

Il testo di Bracco esce – si è detto – nel 1922, un anno fatidico per la storia d’Italia, quando, in un Paese e in un Continente dissanguati e depauperati dal primo conflitto mondiale e dall’epidemia influenzale della “spagnola”, il fascismo si insedia al governo, rimanendovi per oltre un ventennio e lasciando tracce durature nel corpo della società. La creatura politica di Benito Mussolini, che si era imposta con le armi dello squadrismo e con la complicità degli apparati repressivi dello Stato, penetra in gran parte del Mezzogiorno grazie al trasformismo del notabilato locale che, cambiando casacca, riesce a conservare i suoi antichi privilegi. Nel giro di due anni, durante i quali proseguono le intimidazioni e le aggressioni a giornali e avversari politici, il fascismo consolida il suo potere. Uno snodo importante è l’approvazione nel 1923 della legge Acerbo, che prevede un premio di maggioranza dei due terzi alla lista che riceve almeno il 25% dei voti.

In un clima contraddistinto dalle violenze e uccisioni della milizia del Pnf (12), il “listone” fascista, che imbarca anche esponenti del mondo liberale e conservatore quali Vittorio Emanuele Orlando e Antonio Salandra, trionfa alle elezioni del 6 aprile 1924 con oltre il 60% dei suffragi (13). Il 30 maggio Giacomo Matteotti denuncia alla Camera i brogli e le irregolarità della campagna elettorale. Non passano che dieci giorni e il trentanovenne segretario del Partito socialista unitario viene rapito e ammazzato da un commando che agisce su mandato di Mussolini e di Emilio De Bono. Un fremito di indignazione percorre tutto il Paese. Si apre, così, una crisi gravissima, al termine della quale il fascismo assesta una serie di colpi mortali al già traballante Stato liberale e rinsalda la sua alleanza con i ceti dominanti.

Proprio nel 1924 Bracco palesa senza mezzi termini la sua ostilità verso la cosiddetta rivoluzione fascista, verso la «goffa ed antipatica sovversione piccolo-borghese», di cui coglie lucidamente le motivazioni psicologiche. Lui, che si proclama «un ardente antifascista del marciapiede» e sarà condannato dal regime mussoliniano alla “morte artistica”, è nettamente avverso al conformismo gregario e al truce nazionalismo dei seguaci del «tribuno di Predappio». Più che sessantenne si impegna strenuamente nel campo antifascista, dandosi alla politica attiva. Accetta la proposta di presentarsi nella lista dell’Opposizione Costituzionale di Giovanni Amendola, che annuncia ufficialmente la sua candidatura su Il Mondo, l’8 marzo 1924. Questo neofita della politica – come lui stesso si definisce – viene eletto in Campania insieme con il grande esponente liberale, con Raffaele De Caro e Roberto Bencivenga.

Complessivamente il raggruppamento di Amendola ottiene, grazie ai suffragi delle province meridionali, sette deputati, tra cui in Sardegna Mario Berlinguer, padre di Enrico, futuro segretario del Pci. A Napoli la pattuglia amendoliana contribuisce al buon risultato delle formazioni antifasciste, che rastrellano non pochi voti, nonostante il clima di intimidazione in cui si svolge la campagna elettorale e «l’ondata anticomunista» del 1923, con l’incarcerazione sul piano nazionale di centinaia di militanti e dirigenti, tra i quali Amadeo Bordiga, uno dei principali fondatori del Partito comunista d’Italia.

Il 20 maggio 1924 Bracco partecipa, nel capoluogo partenopeo, alla costituzione dell’Unione Democratica Meridionale, primo e più importante nucleo del futuro partito d’ispirazione liberal-democratica, che conoscerà in pochi mesi una significativa diffusione su scala nazionale. Ad essa prendono parte anche Enrico Presutti, Raffaele De Caro, Emilio Scaglione, Guido De Ruggiero e Vincenzo Arangio-Ruiz. Bracco, a cui è affidato il compito di raccogliere adesioni tra gli artisti e gli scrittori, non indietreggia di fronte al surriscaldarsi della conflittualità politica, al ripetersi di tafferugli che lasciano, all’indomani del delitto Matteotti, una scia di sangue nelle strade di Napoli. Particolarmente cruento è il bilancio degli scontri che si verificano nella giornata del 17 agosto: tre morti tra gli antifascisti, alcuni feriti gravi e una decina di feriti leggeri (14). Il 4 novembre – val la pena di ricordarlo – Bracco tiene un comizio antifascista nell’ambito di un’iniziativa combattentistica appoggiata da tutte le opposizioni. La città è attraversata da un folto corteo, in migliaia – al grido di «Italia libera! A Roma! A Roma!» – esortano Amendola ad incalzare il fascismo (15).

È ora il caso di rammentare che intellettuali e artisti finiranno con lo schierarsi su sponde opposte, nell’incerta e travagliata fase politica che vede il tramonto dello Stato liberale in Italia. Se il ‘pontefice massimo’ del neoidealismo, Benedetto Croce, ancora il 24 giugno 1924 vota la fiducia al governo Mussolini (di lì a poco abbandonerà però l’illusione, coltivata pure da tanti altri liberali, che il fascismo si potesse “costituzionalizzare”), Luigi Pirandello decide di ufficializzare clamorosamente il suo sostegno a Mussolini, quale «umile e obbediente gregario», con un telegramma del 17 settembre dello stesso anno, apparso su L’Impero due giorni dopo. Il grande drammaturgo, che riceverà dal duce una sovvenzione di 250.000 lire, sottoscrive nel 1925 il Manifesto degli intellettuali fascisti, redatto dal “filosofo in camicia nera”, Giovanni Gentile, che il 31 marzo 1924 aveva pronunciato al Teatro Massimo di Palermo un discorso in cui elogiava «la pedagogia del manganello» (16).

Insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1934, Pirandello, la cui personalità ed arte comunque mal si adattano alle direttive e allo spirito del regime mussoliniano, non rinnegherà mai il suo appoggio al fascismo, dettato da molteplici e complesse motivazioni, che aveva enunciato sin dal 28 ottobre 1923 su L’Idea Nazionale, in occasione del primo anniversario della Marcia su Roma: l’avversione per il socialismo di fine Ottocento, che aveva criticato nel romanzo I vecchi e i giovani; il disprezzo per la democrazia; l’identificazione del fascismo come movimento aperto, cioè come la «vita che si contrapponeva alla forma» della società italiana degli anni Venti; il desiderio di risiedere in un Paese ordinato, senza scioperi e turbolenze politiche; la convinzione di aver trovato nel fascismo l’incarnazione degli ideali patriottici e risorgimentali assimilati in famiglia, anzi di avervi scorto un’idea originale, destinata a rappresentare la «forma» nuova dell’Italia ed un modello per l’Europa (17).

Per tornare a Bracco, va rilevato come la sua ferma opposizione al fascismo, che si ritiene l’erede dell’Italia di Vittorio Veneto, tragga alimento anche dal suo ripudio del militarismo, che lo aveva indotto a firmare, nel giugno 1919, la Déclaration d’Indépendance de l’Esprit di Romain Rolland, insieme – tra gli altri – con Henri Barbusse, Stefan Zweig, Heinrich Mann, Herman Hesse, Albert Einstein, Bertrand Russell, Jane Addams, Charles Vildrac, Henry Van de Velde e Benedetto Croce (18). Bracco è da includersi tra quei pochi che, negli anni della Grande guerra, non si aggregano al «coro degli intellettuali in armi»; invano Romain Rolland – una delle voci isolate del pacifismo in Europa – aveva invitato, in un famoso articolo del settembre 1914, a tenersi «al di sopra della mischia» («au dessus de la mélée»), a non farsi stordire dal fanatismo dilagante. Prevarrà, al contrario, l’ubriacatura patriottica, la spinta a benedire la causa del proprio Paese. Si spiega, così, l’”appello dei 93”, stilato nell’ottobre del 1914 dai più alti rappresentanti della cultura tedesca e sottoscritto da oltre 4.000 professori universitari. In una temperie intossicata dai veleni del nazionalismo si giunge, in Germania, ad esaltare la Kriegsideologie, la guerra come la situazione-limite in virtù della quale è possibile vivere la dimensione autentica dell’esistenza (19).

Attraverso un gigantesco bagno di sangue l’Italia e l’Europa scivoleranno dal periodo della Belle Époque e della competizione imperialistica verso l’età di ferro e di fuoco dei due conflitti mondiali, della crisi economica globale, dell’eclissi della democrazia parlamentare e dell’affermarsi dei totalitarismi (20). In Italia, nel clima di crescente tensione che precede l’ingresso in guerra nel maggio 1915, gli interventisti scaldano gli animi, agitano le piazze; in particolare si distingue, per il suo attivismo guerrafondaio, peraltro ben remunerato, Gabriele D’Annunzio, il poeta-vate. Essi si fanno interpreti degli umori di una gioventù piccolo e medio borghese, frustrata dal grigiore dell’Italietta giolittiana e anelante all’azione per l’azione, alla «bella morte». Già nel 1909 Filippo Tommaso Marinetti, nel Manifesto del futurismo, aveva elogiato la «guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna» (21).

Dei drammatici effetti delle parole d’odio, delle menzognere e strumentali motivazioni ideologiche con cui si aizzano i combattenti che vengono gettati allo sbaraglio sui campi d’Europa, è ben consapevole Roberto Bracco, che – sgomento – annota in una lettera del 31 maggio 1915: (E già si muore! Già si muore molto!). Sonnino, Salandra, D’Annunzio e tutti i sublimi patrioti, che hanno voluto la guerra per fare una grandissima Italia, dormono ogni notte i loro sonni migliori. Io no, non dormo, e penso ai giovani che si battono e muoiono, e penso alle loro madri, alle loro mogli, alle loro amanti…Quella gente lì palpita, al più al più (di giorno) per la propria ambizione. Io palpito di giorno e di notte per la vita altrui (22).

Ed orrore per gli innumerevoli caduti prova Mignon Floris, la protagonista de L’Internazionale, il dramma di Bracco apparso sulla Lettura, il 1° gennaio del 1915, e rappresentato per la prima volta, nello stesso anno, a Torino, con Tina di Lorenzo nella parte della cantante. […] da quando si è scatenato questo flagello io sono in ansia, io sono in un’angoscia, in un’angoscia che non so dire. Erano tutti giovani. Alcuni giovanissimi. Tutti così gentili! Così leali! Così allegri! E tutti che pareva dovessero vivere cento anni! Che vita, che gioia in quegli occhi e in quelle bocche. E ora penso che sono tutti lì, a morire, a morire; penso che sono lì ad uccidersi tra loro […] È una cosa mostruosa (23)!

Mussolini passa in rassegna le squadracce in camicia nera

In un lasso di tempo, tutto sommato breve quanto turbinoso, Bracco passa dall’amara disapprovazione delle micidiali conseguenze dell’isteria nazionalistica e militaristica alla difesa della libertà minacciata da una nuova forma di dispotismo. Come tanti italiani, egli assaggerà la durezza di un movimento e di un regime che ha nella violenza la sua principale risorsa politica e il suo tratto distintivo. Prima dell’omicidio di Giacomo Matteotti, 3.000 militanti e simpatizzanti socialisti e comunisti vengono eliminati fisicamente dagli squadristi. Stessa terribile sorte tocca, il 23 agosto 1923, a don Minzoni, parroco di Argenta nel ferrarese; ai liberali Piero Gobetti e Giovanni Amendola, morti nel 1926 in seguito alle percosse ricevute; ai fratelli Carlo e Nello Rosselli, trucidati il 9 giugno 1937, a Bagnoles-de-l’orne, dai cagoulards (24) per conto del governo Mussolini. Nel corso del Ventennio migliaia di antifascisti (uomini, donne, lavoratori, intellettuali, militanti e dirigenti di partito) sono costretti ad andare in esilio; oltre 5.000 vengono incarcerati (25); 12.330 sono inviati al confino (177 dei quali muoiono durante il periodo di isolamento); infine 160.000 persone, sospettate di essere dei dissidenti, vengono “ammonite” o sono sottoposte a “vigilanza speciale” (26).

Per la sua discesa in campo, Bracco subisce le provocazioni e gli attacchi dell’oltranzismo fascista. Il 5 marzo 1924, viene definito «un grande salice piangente» dal direttore de L’Impero, Emilio Settimelli. Poi è insultato da un fiancheggiatore del fascismo che riconosce al movimento di Mussolini il merito di aver sventato il pericolo bolscevico. «Poco On. le Roberto Bracco – scrive su una cartolina un certo Angelo Cattaneo il 1° giugno 1924 – mi fa meraviglia che un miserabile qual voi siete osi parlare in quel modo del fascismo. Non sono fascista, ma chi ha osato fermare in Italia la bestiale ondata bolscevica? Leggeste i fatti di Empoli, cretino o in mala fede? Tutto quello fu fatto perché credevano di andare contro ai fascisti! Se era per voi idioti ed incoscienti a quest’ora chi sa dove saremmo». Il livore che avete contro il fascio è incomprensibile…Mi fate profondamente schifo e ribrezzo. Miserabile-incosciente. Spero vedervi personalmente. Per sputarvi addosso. Carogna putrida (27).

Questo protervo simpatizzante del fascismo, la cui presa di posizione rispecchia lo stato d’animo prevalente nella piccola e media borghesia, fa riferimento a quanto era accaduto a Empoli il 1° marzo 1921, quando membri del Pcd’I e “guardie rosse” avevano ucciso nove marinai che avevano avuto l’incarico di riattivare le linee ferroviarie interrotte dagli scioperi di quei giorni. Omette, o forse volutamente dimentica, quanto sangue fosse stato versato sino allora per colpa del fascismo.

Telesio Interlandi, giornalista fedelissimo a Mussolini, diresse la Difesa della razza dal 1938. Nel luglio 1924 il duello con Bracco

Nonostante l’età avanzata, Bracco arriverà a duellare (secondo un costume allora molto diffuso), il 28 luglio 1924, con Telesio Interlandi, direttore del Tevere e, dal 1938, de La difesa della razza, che lo aveva bollato come «un precursore del rollandismo smidollato pavido e presuntuoso». Una seconda volta, Bracco si batte nel dicembre 1925 con Oreste Ricciardi, sol perché aveva ricordato a questo barone napoletano – entusiasta sostenitore del Mussolini che «rivaluta» la guerra degli italiani – di essersi «rincantucciato» a Torre Annunziata durante il primo conflitto mondiale. Nello stesso anno Bracco, oltre a sottoscrivere il Manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Croce, riceve un minaccioso biglietto postale, in cui 37 fascisti «giurano» di uccidere Amendola e di riservare a lui «mazzate» e ad Arnaldo Lucci «beffe, sfottò», mentre sottolineano di aver già provveduto alla casa di Arturo Labriola (28). In seguito all’attentato del quindicenne Anteo Zamboni al duce, il 31 ottobre 1926, egli – al pari di Croce e di Arturo Labriola – si ritrova devastata l’abitazione (allora in via Santa Teresella degli Spagnoli) nonché la vasta biblioteca, con una sua opera inedita, La verità, data alle fiamme; opera che rinuncerà a riscrivere. Nel decennio successivo sarà oggetto di un’altra incursione e di pesanti intimidazioni, benché il fascismo possa vantare ormai di avere una salda presa sulla società italiana.

La vicenda di Bracco si incrocia, dunque, con l’ascesa e il consolidamento al potere in Italia di un “partito-milizia” d’estrema destra. Dirompente novità nel panorama politico europeo, l’organizzazione fondata da Benito Mussolini distrugge in maniera cruenta il tessuto organizzativo del proletariato agricolo e industriale, abolisce le libertà collettive e individuali e instaura un sistema di potere poliziesco, macchiatosi in Libia, in Etiopia e nei Balcani di crimini contro l’umanità. Ad onta di un infondato luogo comune e di un certo revisionismo storiografico, il fascismo non si configura come una dittatura paternalistica, ma come un regime basato sulla forza, in grado di costruirsi un esteso consenso, frutto del patto con la borghesia nelle sue varie articolazioni.

Il fascismo si oppose alla candidatura di Bracco al Premio Nobel per la Letteratura, che fu invece assegnato a Grazia Deledda, scrittrice molto ben voluta da Mussolini

Privato con le “leggi fascistissime” del suo mandato parlamentare (novembre 1926), Bracco, che avrebbe voluto lasciare subito il suo Paese, rimane un “emigrato interno”, a cui è negato il passaporto. È troppo conosciuto all’estero perché gli si possa concedere di espatriare. Egli non vedrà mai allentarsi la sorveglianza sulla sua persona e sulle sue dimore. Tacciandolo di essere un “anti-italiano” in quanto irriducibile antifascista, nel 1926 – “l’anno della potenza” e della rivalutazione della lira a Quota novanta – il governo Mussolini non perora la proposta avanzata da un gruppo di intellettuali scandinavi di candidare Bracco al Premio Nobel. Sbalordito, Koren Wiberg informa il drammaturgo napoletano della vergognosa «combinazione artistico-politica» perpetrata ai suoi danni (29). È la prima volta che la massima autorità politica di un Paese si sforza non di favorire, ma di impedire a un suo concittadino la partecipazione al prestigioso riconoscimento internazionale (30). E così, anziché a Bracco, il Nobel per la letteratura 1926 è assegnato alla scrittrice sarda Grazia Deledda, benemerita agli occhi del duce e legata, lei e la sua famiglia, da rapporti d’amicizia con il capo delle camicie nere, che pretestuosamente sempre più tende ad identificare il fascismo con la nazione.

Nel 1929 è sancita la definitiva emarginazione di Bracco, con il veto posto alla messa in scena della sua ultima opera, I pazzi. Dopo un triennio di divieti, la rappresentazione del 18 giugno 1929 al Teatro Fiorentini di Napoli ottiene un notevole successo, ma quella del successivo 9 luglio al Teatro Eliseo di Roma è bruscamente interrotta dall’irruzione violenta di un manipolo di fascisti; cosa che consente alla censura di mettere al bando le pièces di Bracco (31). Tuttavia, il drammaturgo partenopeo si rifà in qualche modo all’estero, con la trionfale affermazione de I pazzi a Buenos Aires, il 15 marzo 1931.

Comunque, per tutti gli anni Trenta, e sino a quando il regime mussoliniano non sprofonda con la guerra, permane la proibizione di portare in scena testi di Bracco, di ospitarne novelle e articoli su giornali e riviste. Recidendone i contatti con il pubblico, si cerca di oscurarne la fama, di cancellarne persino la memoria. Del suo isolamento, della sua condanna ad un anonimato coatto, Bracco è ben conscio, ma – come sottolinea con orgoglio in una lettera a Pellicani del marzo 1934 – «questa solitudine [gli] piace tanto». Essa «è l’aiuto della [sua] vecchiaia»; anzi è per lui «un titolo d’onore» «essere stato cacciato dall’Italia intellettuale di oggi» (32).

La scure della rimozione decretata dall’alto incomberà sull’ultimo segmento del percorso esistenziale di Bracco. Eppure, ancora nel 1932, data la sua notorietà come giornalista, scrittore e commediografo, gli viene richiesto un parere sul fordismo e sul gandhismo, sull’alternativa tra benessere materiale e benessere spirituale. Sebbene si sia negli anni in cui la crisi economica mondiale si abbatte su un’Italia in gran parte povera e arretrata, si potrebbe dire che egli intuisce – nella sua risposta – la distorsione che poi produrrà la “civiltà dei consumi”, ossia la sollecitazione e la soddisfazione di nuovi, crescenti bisogni e desideri.

«A me sembra assiomatico che il benessere spirituale sia più necessario del benessere materiale. Ammetto che lo stesso benessere materiale, realizzato, possa produrre il benessere spirituale, ma, più veramente, quella specie di benessere spirituale che è egoismo soddisfatto. Intanto, è certo che, generalmente, il culto del benessere materiale dà una febbre di sempre maggiori desideri e bisogni, la quale non rinvigorisce né allieta lo spirito, bensì lo turba e lo strugge. La vita d’oggi mette il suo famoso dinamismo nel culto del benessere materiale! Sono convinto che oggi una statistica del benessere spirituale, non limitato nei confini odiosi dell’egoismo soddisfatto, riuscirebbe desolante (33)».

L’attrice Emma Gramatica, una delle maggiori interpreti dei testi di Bracco

Dal canto suo non persegue, né mai si farà attrarre dalla ricerca ad ogni costo di facili guadagni e onori. Disdegna gli allettamenti dell’Accademia d’Italia, non entrandone a far parte, così come non accetta la cospicua offerta governativa di 10.000 lire pervenutagli attraverso Emma Gramatica, la sua maggiore interprete. In quest’ultimo caso lo fa con la consueta fermezza e dignità, inviando, il 12 novembre 1936, una lettera al ministro della Propaganda, Dino Alfieri, in cui dichiara di non volere alcun indennizzo economico, ma soltanto che venga permessa la messa in scena delle sue opere. Si comprende bene, perciò, perché Bracco sia sarcastico verso i tanti uomini di cultura che non sanno resistere alle lusinghe e ai richiami del potere, come Libero Bovio, divenuto – a suo avviso – il «gerarca illustre, capo e guida degli scrittori residenti a Napoli» (34). Essi sono i rappresentanti di un’Italia intellettuale infeudata al fascismo, che se ne assicura l’obbedienza, dispensando raccomandazioni, favori, avanzamenti di carriera e prebende. Nell’ambiente teatrale attecchisce la pratica di elargire sovvenzioni, contributi e provvidenze a chi si mostra accondiscendente verso il regime, che non infastidisce quanti hanno l’accortezza di non avversarlo apertamente.  Bracco, invece, autore di opere di grande successo in Italia e all’estero, morirà pressoché in miseria, non potendo più da tempo giovarsi del ricavato dalla sua produzione artistica ed essendo stato estromesso dal circuito delle rappresentazioni delle filodrammatiche.

Lontanissimo dalle liturgie del regime mussoliniano, il drammaturgo napoletano è un esempio palmare del dissenso carsico che attraversa il fascismo. Un dissenso che viene ingabbiato da una capillare rete di controllo, dal servilismo nella pubblica amministrazione, nella scuola, nell’università, nei media e dalla sostanziale apatia di ampi strati della società coinvolti nella mobilitazione dall’alto secondo forme e modalità puramente esteriori.

A Napoli, negli anni del “regime reazionario di massa” e del “consenso”, gli antifascisti si limitano, in genere, a incontrarsi in alcuni “caffè” o in librerie come quelle di Detken e Rocholl a Piazza del Plebiscito e Guida a Port’Alba o nella libreria del Novecento, aperta nei pressi di Piazza del Gesù dai bordighisti Ugo Arcuno e Salvo Mastellone. Il fascismo, pur avendo rastrellato in città, al plebiscito del 25 marzo 1934, 204.609 sì contro 92 no, pur avendo fiaccato l’antifascismo con l’operato dell’Ovra e le pressioni sul lavoro, sorveglia attentamente questi spazi con i suoi apparati repressivi, arrivando a sigillare il Gambrinus, in quanto il “caffè” – da decenni centro di discussione – continua ad essere luogo di ritrovo di quanti sono sospettati di appartenere agli ambienti dell’antifascismo.

Gran parte della borghesia liberale partenopea, che in un primo momento aveva visto nel fascismo, oltre che un fenomeno generazionale, la necessaria risposta alla minaccia bolscevica, si ritrae in un «onorevole silenzio». Tuttavia, Croce nel suo “salotto” mantiene vivi gli ideali del liberalismo, esercitando una forte influenza sull’antifascismo intellettuale, anche se il suo attesismo delude giovani come Giorgio Amendola, Mario Palermo, Eugenio Reale, Manlio Rossi-Doria, Emilio Sereni, Enzo Tagliacozzo, che invece vogliono rendersi protagonisti di un impegno concreto, senza remore e pause.

Simbolo del Partito Comunista d’Italia

In città soltanto il Pcd’I, dopo l’introduzione delle “Leggi eccezionali”, è in grado di svolgere un’attività clandestina. Esso concentra le sue energie sugli operai e i giovani, puntando a trasformare i propri adepti in disciplinati «rivoluzionari di professione», pronti a sacrificarsi nell’interesse supremo del Partito. Il reclutamento avviene tra pochi intellettuali e nei nuclei più combattivi del proletariato di fabbrica, chiuso in un angolo dal padronato e dai sindacati fascisti, che comprimono ulteriormente i pochi margini di manovra rimasti a disposizione degli operai. Anche la creazione, il 1° gennaio 1927, della grande Napoli con l’accorpamento di ben otto Comuni risponde a precisi obiettivi politici, come il controllo delle questure su un territorio più ampio, specialmente sui sobborghi a ridosso dei più grossi centri urbani, dove spesso si trovano i più antichi e robusti insediamenti della sinistra.

Messo in ginocchio dall’arresto nel giugno del 1928 di Eugenio Mancini e Ugo Girone, due membri della vecchia guardia, il Pcd’I a Napoli rinasce in virtù dell’incontro tra alcuni militanti operai della Precisa e delle Officine ferroviarie meridionali (Gennaro Rippa, Franco Panico, Salvatore Cetara, Giuseppe De Sanctis), il tipografo Salvatore Castaldi e due giovani studiosi dell’Istituto di Agraria di Portici, convertitisi al marxismo, Emilio Sereni e Manlio Rossi Doria, che peraltro conducono un’inchiesta di tipo sociologico sui contadini campani. La costituzione di una dozzina di cellule (all’Ilva, alla Precisa, alla Miani e Silvestri e alla Centrale elettrica Capuano, ai Bacini e Scali, al Porto, tra gli artigiani) rappresenterà il principale, se non l’unico, canale e tramite fra il Pcd’I e i lavoratori partenopei.

Numerose incarcerazioni colpiscono il Pcd’I tra il 1930 e il 1931, mentre si fanno sentire sulle spalle della classe operaia le ripercussioni della grande crisi, con l’aumento della disoccupazione e il taglio dei salari. Di ciò tenta di approfittare il Pcd’I, per ritessere le fila della sua struttura organizzativa, che è guidata, dopo il nuovo arresto di Ciro Picardi nel 1935, da Eugenio Reale. “Il Comandante”, come viene ribattezzato Reale, ripristina i legami con i compagni del 1930-31 e in pochi mesi coagula attorno al Partito comunista 200 militanti e altrettanti simpatizzanti, la cui azione però non suscita che una tiepida risposta, nei lavoratori, alla propaganda contro la guerra d’Etiopia. Sarà questo gruppo ad assicurare, pur tra incarcerazioni, provvedimenti di confino, di ammonizione e diffida, una presenza quasi ininterrotta fino al 1943 (35).

Nell’ambito dell’antifascismo d’ispirazione democratica si deve a Pasquale Schiano e Rocco D’Ambra la costituzione nel 1935 di un clandestino Centro meridionale, che in contatto con i fratelli Rosselli mette insieme liberali di sinistra, repubblicani, socialisti di vario orientamento, ed ha l’ambizione di operare in tutto il Sud. Alla fine del 1942 questo gruppo, fiancheggiato da Adolfo Omodeo, dalla figlia di Croce, Elena, e da suo marito Raimondo Craveri, si aggancia al neonato Partito d’Azione, erede politico di Giustizia e Libertà. “Don Benedetto”, intanto, persevera nell’esercizio del suo magistero etico e culturale, anche se tra quanti ruotano attorno a lui si fanno largo posizioni che tendono a travalicare le frontiere del suo liberalismo (36).

A grandi linee, questo è il quadro dell’antifascismo napoletano, dentro cui va inserito a pieno titolo Roberto Bracco, la cui casa viene frequentata da Benedetto Croce, Mario Palermo, Paolo Ricci, Vincenzo La Rocca, l’avvocato comunista nolano, che pubblica, in barba alla censura, analisi in chiave marxista sulla crisi economica mondiale degli anni Trenta (37). Con questi ed altri antifascisti Bracco è in contatto epistolare, come prova la sua corrispondenza custodita nell’Archivio dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, dell’Antifascismo e dell’Età Contemporanea “Vera Lombardi” (38). In una appassionata commemorazione del 1945 Vincenzo La Rocca ricorderà che: “Nelle conversazioni, che riempivano i pomeriggi e le sere in casa Bracco, due motivi tornavano sempre, due temi, essenzialmente, dominavano: l’arte e la politica; l’arte e la politica di cui il Maestro, in epoche diverse, aveva fatto a sé stesso lampada e rogo. […] nello scrittoio di via Crispi e di via Tasso, in quell’officina di un’assidua fatica, le discussioni, per un verso o per un altro, giravano intorno a un asse: la nostra situazione politica e la necessità, nel senso fatale, nel senso ferreo della parola, di nettare il paese dalla lebbra fascista (39)”.

L’ultimo appuntamento dell’antifascismo con Bracco sarà in occasione dei suoi funerali, nell’aprile del 1943, a cui partecipano – tra gli altri – Gennaro Fermariello, Emilio Scaglione, Lelio Porzio, Pasquale Schiano, Vincenzo Ingangi, Claudio Ferri, Vincenzo La Rocca, Renato Caccioppoli, Paolo Ricci e Raffaele Viviani. Il corteo funebre, spiato dalla squadra dell’ufficio politico della polizia, si trasforma – qualche mese prima della defenestrazione di Mussolini – in una silenziosa manifestazione di dissenso, di cui di fatto non si fa menzione sulla stampa.

Il filosofo Benedetto Croce (a sinistra nella foto) scrisse un ricordo del drammaturgo napoletano a un anno dalla morte

A un anno dalla morte, la figura di Bracco viene rievocata su un numero speciale de L’Italia liberata (40) del Partito d’Azione e sul Risorgimento di Napoli da due scritti di Floriano del Secolo (41) e di Benedetto Croce (42). Alla Camera dei Deputati, Vincenzo La Rocca tiene un’orazione su Bracco nel febbraio del 1947. È lo stesso mese in cui il dramma I pazzi viene rappresentato a Milano da Evi Maltagliati, Memo Benassi e Tino Carraro: è la prima opera dell’autore napoletano ad essere riportata in scena nell’Italia postbellica. Ma, da quel momento in poi, Bracco è destinato a finire nel dimenticatoio, ad essere di nuovo avvolto da un “assordante silenzio”. Un silenzio che si traduce in colpevole rimozione, in oblio non solo verso un autore acclamato sia in patria che all’estero, nel quarantennio a cavallo tra Otto e Novecento, ma verso un antifascista non piegatosi mai alla «macchina di oppressione» e di corruzione del fascismo. Ricordarlo, nel Paese uscito dall’esperienza del Ventennio, sarebbe risultato imbarazzante, perché la sua era stata una scelta in controtendenza rispetto ai compromessi e agli accomodamenti a cui avevano ceduto molti intellettuali, oltre novecento dei quali erano stati sul libro-paga del duce (43). In più coloro che, nel mondo della critica teatrale e della censura (Leopoldo Zurlo, Nicola De Pirro, Silvio D’Amico), avevano denigrato e/o ostacolato Bracco saranno ben presto reinsediati nei loro posti e nelle proprie funzioni. Viene, così, a delinearsi un duplice caso Bracco, artistico e politico.

Bisognerà attendere il quarantesimo anniversario della sua scomparsa (1983), perché a Sorrento (44) se ne rammenti e valorizzi la battaglia antifascista da parte di un esponente politico della statura di Francesco De Martino, bandiera del socialismo napoletano e nazionale (45). Ma la ripresa d’attenzione su Bracco va ascritta soprattutto all’Istituto Campano per la Storia della Resistenza (ICSR), promotore di non poche iniziative e pubblicazioni sul drammaturgo, a partire dal fondamentale volume di Pasquale Iaccio, L’intellettuale intransigente. Roberto Bracco e il fascismo (1992). Né va dimenticato l’eccezionale impegno profuso da sua nipote, Aurelia Del Vecchio, che nel 2006-2007 versa all’ICSR una ricchissima documentazione attinente alla poliedrica personalità dello zio.

In campo teatrale occorre ribadire che nel secondo dopoguerra sono alquanto sporadiche le rappresentazioni delle opere del «re napoletano» della scena, castigato dal lungo oscuramento e isolamento inflittogli dal fascismo. Né le cose vanno meglio in Tv. Anzi, solo una volta la Rai trasmette, il 2 luglio 1965, i due atti unici Gli occhi consacrati e Il perfetto amore. Dopo una lunga assenza, i testi di Bracco si riaffacciano occasionalmente in teatro fra la prima e la seconda decade del secolo XXI.

Le Quattro Giornate di Napoli. Ogni anno la città celebra l’evento. L’edizione del 2017 venne dedicata a Roberto Bracco

Va segnalato, tuttavia, che nel 2017 le manifestazioni per il 74° anniversario delle Quattro Giornate di Napoli vengono dedicate a Roberto Bracco e che per il 75° anniversario della sua morte, il 20 aprile 2018, la fondazione Premio Napoli organizza una giornata in ricordo di Roberto Bracco, nel corso della quale il sindaco Luigi De Magistris scopre una targa in via San Gregorio Armeno, nella casa natale del commediografo. Inoltre, la sera del 28 gennaio 2020, Rai Storia manda in onda il documentario, Bracco e le sorelle Gramatica, curato da Simona Fasulo.

Va detto – in sede di considerazioni finali – che quello di Bracco è un percorso esemplare ed istruttivo, che obbliga a riandare al mancato, serio esame del Ventennio da parte degli italiani. Mostratisi restii o incapaci, finora, di fare sino in fondo i conti con un capitolo cruciale e, per tanti versi, rivelatore della loro storia, oggetto da tempo di reiterati tentativi di riabilitazione, di rivisitazioni distorte e mistificatrici, di un inaccettabile uso politico del passato, funzionale alla creazione di un nuovo senso comune al fine di favorire l’attuazione del disegno di rimodellare in senso autoritario e antiegualitario le istituzioni e la società italiane.

Francesco Soverina, storico

NOTE

[1] Lettera a Pellicani 13 marzo 1934, in Archivio dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, dell’Antifascismo e dell’Età Contemporanea “Vera Lombardi” (d’ora in poi AICSR), Fondo Bracco-Del Vecchio, b.1 f. 1.
[2] Entra nella redazione del Corriere del Mattino, uno dei giornali più in vista dell’epoca, diretto da Martino Cafiero, che ha avuto una parte di primo piano nella sua formazione.
[3] Bracco arriverà a collaborare con prestigiosi giornali stranieri come La Nación di Buenos Aires, lo «Zeit» di Vienna e il New York Times.
[4] Su questo punto si veda L. Donadio, Nel mondo della donna. Conversazioni femministe, Orientale editrice, Napoli 2002.
[5] Cfr. F. Barbagallo, Napoli Belle Époque. 1885-1915, Laterza, Roma-Bari 2015.
[6] Se la conversione di Bracco mette a rumore gli ambienti della «alta cultura», suscita altrettanto clamore il coinvolgimento di Gabriele D’Annunzio nel kolossal di Pastrone, Cabiria.
[7] Da quest’opera è tratto nel 1914 l’omonimo film diretto da Nino Martoglio, che è stato considerato un precursore del neorealismo.
[8] Cfr. P. Iaccio, Roberto Bracco e la musa emergente del cinematografo, in Idem (a cura di), Napoli e il cinema (1896-2000) «Nord e Sud», nuova serie, a. XLVII, luglio-agosto 2000, pp. 28-45; più o meno sullo stesso tema si legga sempre di P. Iaccio, Letteratura, teatro e cinema nella parabola politica di Roberto Bracco, in Napoli, una città nel cinema, Edizione aggiornata e integrata a cura di C. Masiello, A. Muti, Libreria Dante & Descartes, Napoli 2009, pp. 89-97.
[9] Sulla produzione teatrale di Bracco rimane ancor oggi un imprescindibile punto di riferimento il libro di A. E. Stauble, Tra Ottocento e Novecento. Il teatro di Roberto Bracco, Ilte, Torino 1959. Si tengano presenti anche i saggi di A. Rotondi, Roberto Bracco e gli «- ismi» del suo tempo. Dal Wagnerismo all’Intimismo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2010; e di M. Prisco, L’Alfiere della scena, Ed. Oèdipus, Salerno/Milano 2011.
[10] Dopo il primo intervento di Adriano Tilgher, l’8 giugno 1922, seguono, tra il 13 e il 22 giugno, tre articoli per parte. La storia letteraria è piena di polemiche sul «vecchio» e sul «nuovo»; quella tra Tilgher e D’Ambra rispecchia il mutamento radicale del gusto che si va registrando proprio in quel periodo, con l’orientarsi verso un teatro di problemi di natura filosofica. Anche altri critici prendono parte all’animato dibattito, ma i contributi significativi rimangono quelli di Tilgher e D’Ambra, apparsi rispettivamente sul Mondo e su Epoca.
[11] L. Personé, Lettere inedite di Roberto Bracco, in L’Osservatore politico letterario, a. III, 1957, n. 8, p. 65.
[12] È l’acronimo del Partito Nazionale Fascista.
[13] I fascisti ottengono 356 deputati, poi ridotti a 355 per la morte di Giuseppe de Nava, non sostituito, e 19 nelle liste collegate. Alle opposizioni vanno 161 parlamentari.
[14] Ne dà notizia Il Mondo del 19 agosto 1924.
[15] F. Soverina, Il «caso Bracco». Una ferita non sanata, Alessandro Polidoro Editore, Napoli 2017, p. 81.
[16] M. Franzinelli, Il filosofo in camicia nera. Giovanni Gentile e gli intellettuali di Mussolini, Mondadori, Milano 2021, pp. 53-59.
[17] Cfr. G. F. Venè, Capitale e letteratura. Dall’illuminismo a “Pirandello fascista”, Garzanti, Milano 1974; nonché F. Soverina, Roberto Bracco tra fascismo e antifascismo, in G. Buffardi (a cura di), Omaggio a Roberto Bracco “Meridione. Sud e Nord nel mondo”, a. XIII, n. 4, ottobre-dicembre 2013.
[18] Cfr. la copia autografa della Déclaration in AICSR, Fondo Bracco-Del Vecchio, b. 6 f. 35.
[19] F. Soverina, L’«autodistruzione dell’Europa». Gli intellettuali e la mobilitazione degli animi, in Idem (a cura di) Leggere il tempo negli spazi. Napoli, Campania, Mediterraneo nella prima guerra mondiale, «Meridione. Sud e Nord nel Mondo», a. XVI, n. 1, gennaio-marzo 2016, pp. 142-162.
[20] F. Soverina, L’Europa e L’Italia nella «seconda guerra dei trent’anni», in idem et alii (a cura di) «Tracce» di Novecento. Storia, letteratura e cinema, ESI, Napoli 2017, pp. 3-20.
[21] Le Figaro, 20 febbraio 1909.
[22] Lettere alla famiglia Gervasi, in AICSR, Fondo Bracco-Del Vecchio b. 1 f. 1.
[23] L’Internazionale, scena V, in Il teatro di Roberto Bracco, opere I (a cura di M. Prisco), Editoria & Spettacolo, Spoleto 2012, pp. 206-207.
[24] Erano così chiamati i membri della Cagoule, un’organizzazione dell’estrema destra francese.
[25] Cfr. G. Taurasi, Le nostre prigioni. Storie di dissidenti nelle carceri fasciste, pubblicato per conto dell’ANPPIA da Mimesis, Milano-Udine 2021.
[26] Informazioni e dati tratti da G. De Luna, Tribunale speciale per la difesa dello stato, e da M. Franzinelli, Confino di polizia, in Dizionario del fascismo, a cura di V. de Grazia-S. Luzzatto, Einaudi, Torino 2003.
[27] AICSR, Fondo Bracco-Del Vecchio, b. 6, f. 40.
[28] Lettera anonima di minacce a Bracco da parte di “37 fascisti” in AICSR, Fondo Bracco-Del Vecchio, b. 6, f. 40.  
[29] Lettera di Christian Koren Wiberg a Bracco, 17 novembre 1926, in AICSR, Fondo Bracco-Del Vecchio, b. 6 f. 42.
[30] Sulla mancata candidatura di Bracco al Nobel cfr. P. Iaccio, Uno scomodo testimone. Roberto Bracco tra arte e politica, in «Giornale di storia contemporanea», a. XIV, n. 2, dicembre 2011; nonché la sua monografia L’intellettuale intransigente. Roberto Bracco ed il fascismo, Guida, Napoli 1992.
[31] P. Iaccio, Roberto Bracco e la censura teatrale fascista. Il caso dei “Pazzi”, in «Ariel», a. VIII, nn. 2-3, maggio-dicembre 1993, pp. 229-258.
[32] Lettera a Pellicani 13 marzo 1934, in AICSR, Fondo Bracco-Del Vecchio, b.1 f.1.
[33] Riflessione sul fordismo, in AICSR, Fondo Bracco-Del Vecchio, b.1 f. 1.
[34] Lettera a Libero Bovio in occasione della morte di Ernesto Murolo, in AICSR, Fondo Bracco-Del Vecchio, b. 1, f. 1.
[35] Su questi ambienti antifascisti si rinvia ad A. Ghirelli, Storia di Napoli. Nuova Edizione, Einaudi, Torino 1992, pp. 483-485. Sull’antifascismo popolare in città, dalle cui file usciranno molti combattenti delle Quattro Giornate, si legga di G. Aragno, Le Quattro Giornate di Napoli. Storie di antifascisti, Intra Moenia, Napoli 2017.
[36] F. Soverina, L’autunno del fascismo a Napoli. Dalle leggi razziali alla dissoluzione del fronte interno, in Idem (a cura di), Leggere il tempo negli spazi. Il 1943 a Napoli, in Campania, nel Mezzogiorno, numero monografico di Meridione, Sud e Nord nel Mondo, a. XV, n. 2-3, aprile – settembre 2015, p. 187.
[37] Si veda di A. Höbel, Vincenzo La Rocca nel “comunismo napoletano”, in Resist-oria. Bollettino dell’Istituto Campano per la storia della Resistenza, nuova serie, n. 1, 2002.
[38] Si tratta di un ‘giacimento’ documentario, dal quale viene fuori uno spaccato del mondo teatrale e culturale dell’epoca, e grazie al quale è possibile avere ulteriori notizie su taluni aspetti e momenti della lotta antifascista.
[39] V. La Rocca, Elogio commemorativo per Roberto Bracco, in Appendice a Omaggio a Roberto Bracco, a cura di G. Buffardi, cit., p. 214 e p. 224. Sullo stesso numero di «Meridione» cfr. l’articolo di G. D’Agostino, L’amico e il maestro nell’elogio commemorativo di Vincenzo La Rocca (1945), pp. 26-30.
[40] A Roberto Bracco, aprile 1944.
[41] L’amico, Risorgimento, 30 aprile 1944.
[42] L’esempio, Risorgimento, 30 aprile 1944.
[43] G. Sedita, Gli intellettuali di Mussolini. La cultura finanziata dal fascismo, Le Lettere, Firenze 2010.
[44] In questa cittadina, dove si era rifugiato per sottrarsi alla morsa dei bombardamenti che tartassavano Napoli, Bracco è morto il 20 aprile 1943.
[45] Si consulti AICSR, Fondo Bracco-Del Vecchio, b. 14, f. 105.