«Se Batista ha preso il potere con la forza, questo dev’essergli tolto con la forza». Il giovane Fidel Castro si convince che esiste solo un modo per rovesciare l’usurpatore cubano. Già nel 1947, ancora studente, il futuro Lider Maximo aveva preso parte a una spedizione destinata a liberare Santo Domingo dalla feroce dittatura di José Trujillo. La piccola armada, composta da tre vascelli, viene però intercettata dalla Marina e i congiurati sono costretti a rientrare a Cuba. Riporta la biografia di Volker Skierka che «in un attimo di disattenzione Fidel Castro, presidente del Comitato Universitario per la Democrazia nella Repubblica Dominicana, si gettò fuori bordo e nuotò per quasi dieci miglia marine – in acque, a quanto si dice, infestate di squali – verso Saentia nella Baia di Nipe, a lui nota».
Dopo il colpo di Stato di Batista del 10 marzo 1952, rivendicato dal colonnello come una “rivoluzione”, la denuncia di Castro non si fa attendere: «Non si tratta di rivoluzione, ma di restaurazione, non parliamo di progresso, ma d’imbarbarimento e brutale violenza. […] Senza un nuovo progetto di Stato, di società e d’ordine giuridico che si basi su chiari principi storici e spirituali non ci può essere una rivoluzione che crei un nuovo diritto». Quasi quarant’anni dopo, nella lunga intervista rilasciata a Gianni Minà, dichiarerà che «ancora prima del colpo di Stato di Batista, io ero arrivato alla conclusione che per risolvere i problemi ci voleva un cambiamento radicale: insomma una rivoluzione».
A questo punto Castro si concentra nella costruzione del suo movimento rivoluzionario, e in poche settimane mette «assieme i primi combattenti e le prime cellule. Installammo alcune stazioni radio segrete e distribuimmo un giornale in ciclostile. […] Diventammo dei veri cospiratori. […] Organizzammo il movimento in circa 14 mesi. Arrivammo a poter contare su 1.200 membri. […] Attraverso le riunioni con i futuri combattenti, durante le quali io davo loro idee e indicazioni, mettemmo in piedi una salda organizzazione che si reggeva su di una ferrea disciplina». Il nocciolo duro del movimento viene reclutato fra le ali riformiste e radicali del Partito Ortodosso, evitando di far entrare i comunisti del Partito socialista popular, di cui Castro non si fida.
Fidel Castro, insieme allo stato maggiore del Movimiento, inizia a progettare l’attacco a una caserma a Santiago, in Oriente, per ragioni tattiche e perché la caserma Moncada ospita appena un migliaio di soldati. Il piano comincia a prendere forma. L’idea è di attaccare e di impadronirsi simultaneamente del cuartel Moncada e del cuartelito di Bayamo, con lo scopo di impossessarsi di un nuovo arsenale e quindi armare il Movimiento in vista delle future rappresaglie, ma al contempo rappresentare il primo atto simbolico della (auspicata) sollevazione popolare.
Il grosso delle forze, 134 uomini, avrebbe attaccato a Santiago e 28 ribelli a Bayamo, sarebbero entrati di forza sfruttando la sorpresa, catturato la caserma e distribuito armi agli altri volontari che, si supponeva, a quel punto sarebbero accorsi in massa per appoggiarli. Gli armamenti a disposizione di Castro erano limitati a tre fucili dell’esercito degli Stati Uniti, sei vecchi Winchester, un vecchio mitragliatore e un gran numero di fucili da caccia, oltre a revolver e una certa quantità di munizioni.
L’occupazione del cuartel Moncada li avrebbe resi padroni di Santiago, cioè di una città molto più ostile alla dittatura di quanto non lo fosse l’Avana. E per tagliare i ponti senza essere battuti in velocità dal reggimento di Batista di stanza a Holguín, sarebbe stato necessario impadronirsi contemporaneamente di Bayamo.
Resta da stabilire la data dell’attacco. Castro sceglie il 26 luglio. Ogni anno per tre giorni, 25, 26 e 27 luglio, Santiago si abbandona al carnevale. Da tutti gli angoli dell’isola i cubani affluiscono in città e le vie traboccano di stranieri. Se manca dove alloggiare, dormono per le strade, talvolta nelle amache tra gli alberi dei giardini pubblici. Questa festa offre a Castro un insperato alibi per spostare il gruppo di ribelli dall’Avana a Santiago senza destare l’attenzione, e tra l’altro anche l’esercito prende parte alla festa. L’obiettivo dichiarato dei ribelli del 26 luglio è sempre stato la restituzione della Costituzione del 1940, e porre limiti alle rivendicazioni nordamericane su Cuba.
Tutto è dunque deciso, l’ora, il giorno, il luogo. Ogni più piccolo dettaglio del piano tende a prendere di sorpresa il nemico. Castro ha preso straordinarie precauzioni, a tutti i livelli, per mantenere il segreto, e per impedire che un’indiscrezione all’ultimo momento faccia fallire l’operazione militare. La grande maggioranza dei giovani viene messa a conoscenza della destinazione solo ventiquattr’ore prima. All’arrivo a Santiago, ancora non ne sanno di più. Il responsabile di ogni gruppo ha avuto un recapito nella città, dove deve presentarsi coi propri compagni e attendere ordini. Tra di loro anche due donne, Haydée Santamaría e Melba Hernández.
Castro arriva verso le dieci di sera e dà l’ordine di preparare le armi e di indossare le uniformi. L’atmosfera è tesa e insieme allegra. C’è, dirà poi Raúl Castro, «molta calma, ma anche tensione in ciascuno di noi».
Fidel Castro richiama tutti e annuncia: «Attacchiamo il cuartel Moncada». Tutti sanno a Cuba che Moncada è la seconda fortezza dell’isola, si eleva con le sue mura piene di feritoie nel centro stesso della città, e ospita un reggimento. Nel cuartel tutto era stato concepito per permettere il rapido concentramento di tutti i soldati, in caso di attacco, nel vasto cortile che si estende davanti all’edificio. «Sarà un attacco a sorpresa, non deve durare più di dieci minuti», rassicura Fidel Castro.
Il plotone di centoventi uomini inizia a muoversi con le autovetture. Contemporaneamente un secondo gruppo, una ventina di uomini, si sarebbe impadronito dell’ospedale civile, le cui finestre affacciano esattamente sul cortile posteriore della caserma. Da quelle finestre i “fidelisti” avrebbe tenuto sotto controllo i soldati costretti a evacuare gli edifici. Un terzo gruppo, di sei uomini, avrebbe occupato il Palazzo di Giustizia, il cui terrazzo sovrasta quello dello caserma, per neutralizzare le mitragliatrici installate. Dei tre gruppi che avrebbero preso parte all’azione armata, Fidel Castro ha deciso di dirigere il più importante, e il più esposto: quello diretto alla caserma Moncada. Raúl, invece, alla testa del gruppo che si sarebbe impadronito del Palazzo di Giustizia, e Abel Santamaría è al comando di quello diretto all’ospedale civile. Abel è il numero due del Movimiento, è animato da uno straordinario entusiasmo e si è dato anima e corpo alla causa, e di tutti i militanti Fidel lo considera il più capace di riprendere e guidare la lotta se lui stesso dovesse morire.
La partenza si avvicina e Fidel pronuncia qualche parola. Il momento è solenne: «Compañeros, noi andremo là dando tutto in cambio di niente. Oggi stesso sapremo se saremo vincitori o vinti. Se vinceremo avremo realizzato le aspirazioni di Martí, se saremo vinti la nostra azione servirà d’esempio al popolo di Cuba, e sarà ripresa da altri. In qualsiasi caso, il Movimento trionferà». La maggior parte dei componenti del gruppo ha appena vent’anni e tutti hanno coscienza di essere gli unici a Cuba a rischiare la vita per liberare il Paese dalla dittatura batistiana.
26 luglio 1953
Alle 5.15 del mattino del 26 luglio 1953 inizia l’operazione, ma, come racconterà lo stesso Castro, «a causa di un malaugurato errore metà delle nostre forze – e per di più la metà meglio armata – si smarrì all’entrata della città e non poté aiutarci nel momento decisivo». Castro, che è in prima linea, si lancia senza nessuna copertura in una sparatoria con i soldati rimanendo incredibilmente illeso, mentre attorno a lui cadono alcuni dei suoi uomini. Le altre due fasi in cui si articola l’attacco a Santiago sono riuscite: Raúl Castro si impadronisce del palazzo di giustizia, quasi sguarnito, e Abel Santamaría dell’ospedale civile, senza alcuna perdita né nelle loro file né in quelle militari. Ma ormai l’effetto sorpresa al Moncada è venuto meno e Castro, dopo circa un’ora, dà l’ordine di ritirata. Fallisce anche l’attacco a Bayamo, dove l’allarme viene dato dai cavalli innervositi e i ribelli sono costretti a fuggire. Nell’assalto alla caserma Moncada muoiono diciannove soldati e ventisette rimangono feriti: fra le truppe di Castro si contano otto morti.
Batista rientra frettolosamente dalle spiagge di Varadero, scatena su tutta l’isola una repressione sproporzionata e sospende le garanzie costituzionali. Gli ordini del dittatore sono chiari: per ogni Caduto dei suoi uomini, devono essere giustiziati dieci prigionieri. La maggior parte dei ribelli sopravvissuti che vengono catturati nei primi due giorni viene assassinata a sangue freddo o muoiono a seguito delle torture.
Dopo qualche giorno anche Fidel viene catturato insieme ai suoi uomini nella Sierra Maestra, a e quel punto il fratello Raúl decide di consegnarsi.
L’assalto armato al Moncada è una sconfitta. Ma questa prima battaglia, il capitolo iniziale della rivoluzione, non è del tutto un fallimento, perché gli insorti hanno conquistato l’attenzione popolare. Fidel Castro e il movimento del 26 luglio sono ormai noti.
“La storia mi assolverà”
Da adesso il terreno di battaglia diventa l’aula del tribunale dove si svolge il processo agli insorti. Proprio qui Fidel da detenuto si trasforma in accusatore e proclama la sua sfida al tiranno. Il 21 settembre, nel palazzo del tribunale di Santiago, vengono tradotti in giudizio centoventidue detenuti, e fra loro molte persone che sono estranei all’assalto al Moncada. Fino al 16 ottobre si tengono udienze del processo senza Fidel Castro. Dopo settantasei giorni di completo isolamento, ottiene finalmente la possibilità di prendere la parola in proprio difesa, e parla per cinque ore. Il suo discorso è un inno alla lotta per le libertà. Il suo appello diventa il programma politico del nuovo movimento rivoluzionario cubano: la lotta da e per i settori popolari. L’appello rivendica il diritto alla ribellione e proclama la giusta difesa contro l’illegalità e la corruzione del governo golpista: «Il futuro del Paese e la soluzione dei suoi problemi non possono continuare a dipendere dagli egoistici interessi di una dozzina di finanzieri, né dal freddo calcolo dei profitti che dieci o dodici magnati combinano nei loro uffici con aria condizionata. Il Paese non può continuare a elemosinare in ginocchio chiedendo miracoli a pochi vitelli d’oro […] I problemi della repubblica possono essere risolti soltanto se ci impegniamo noi stessi a combattere per questa repubblica con la stessa energia, onestà e patriottismo che avevano i liberatori quando la crearono».
E conclude sferrando un ultimo attacco a Batista: «[…] È giusto che un uomo onesto debba essere ucciso e incarcerato in questa repubblica, dove il presidente è un criminale e un ladro […] Io so bene che la prigionia sarà per me dura come mai lo è stata per alcuno, piena di vili minacce e di orribili torture. Ma io non temo la prigione, come non temo la furia del miserabile tiranno che ha spento la vita di settanta miei fratelli. Condannatemi, non m’importa. La storia mi assolverà».
Castro viene condannato a sedici anni di reclusione, Raúl a tredici e gli altri imputati a pene minori. Per sette mesi il líder viene tenuto in isolamento. Poi, ottenuta l’autorizzazione, organizza una scuola per i compagni prigionieri che chiama Accademia Abel Santamaría, in onore del suo amico. Viene lanciata una campagna per l’amnistia generale a tutti i prigionieri e esiliati politici che viene approvata dal Congresso, e il 15 maggio Fidel Castro e tutti i suoi compagni riacquistano la libertà.
Impossibilitato a organizzare un movimento politico di opposizione a Cuba, decide di trasferirsi in Messico per organizzare l’opposizione in forme diverse, e così a metà luglio fonda il “Movimiento 26 de Julio” (noto come M-26-7). Il 19 marzo 1956 nel giornale “Bohemia” Fidel Castro lo presenta come «l’organizzazione rivoluzionaria di tutti gli uomini umili e che agiscono in favore degli umili. […] Il Movimento 26 luglio rappresenta l’avvenire migliore e più giusto per la patria, e questo impegno d’onore, solennemente preso di fronte al popolo, sarà mantenuto».
L’insurrezione armata era fallita, ma la rivoluzione è alle porte.
Andrea Mulas, storico Fondazione Basso
Pubblicato mercoledì 26 Luglio 2023
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