UNA LAPIDE INSOLITA
La lapide che ricorda la “battaglia del Lago Santo” – in alta Valparma – del 18-19 marzo 1944 è insolita: perché non ricorda Caduti, ma combattenti per la libertà, in quel caso vittoriosi. Il loro capo era Dante Castellucci “Facio”, calabrese. Con lui c’erano otto partigiani: Luigi Casula, Luciano Gianello, Giorgio Giuffredi, Pietro Gnecchi, Giuseppe Marini, Terenzio Mori, Lino Veroni e Pietro Zuccarelli. Tutti provenienti – salvo il sardo Casula – dalla Lunigiana, dal Parmense, dallo Spezzino. Appartenevano al battaglione garibaldino Picelli, al comando di Fermo Ognibene “Alberto”, e operavano in Lunigiana. Attaccati da forze fasciste e naziste soverchianti, resistettero oltre venti ore e riuscirono a fuggire, senza avere vittime.
NASCE IL MITO
L’episodio si prestava a diventare leggenda, rinnovando gli antichi miti «legati alla resistenza delle popolazioni montanare contro tutte le invasioni succedutesi nel corso dei secoli»[1]. Così fu: di bocca in bocca la leggenda nacque quasi subito, e si rafforzò nel dopoguerra.
La «Gazzetta di Parma», il 5 maggio 1945, ospitò la testimonianza di uno dei nove, Terenzio Mori, “Flavio”:
«La sera del 18 marzo 1944 in otto al comando di Facio ci trovavamo alloggiati nel rifugio del Lago Santo. Si era lontani dal pensiero che la nostra presenza colà potesse essere stata segnalata ai comandi militari di Parma: comunque l’allarme datoci da un compagno che stava dinnanzi alla casa spaccando legna non ci sconcertò. I fucili e le pistole erano sempre sottomano e così le bombe: il comandante, energico e deciso, sapeva guidarci con coraggio senza temerarietà; del resto se ci avessero presi sarebbe stata finita per noi. Meglio dunque morire combattendo. E la risposta che demmo a chi si accostò alla porta per intimarci di consegnarci senza combattere fu un colpo di pistola che lo freddò. Quel colpo fu l’inizio della lotta che, interrotta la tarda sera del 18, doveva riprendere più accanita all’alba del giorno successivo, 19 marzo. Fu una lotta disperata che si protrasse per tutta la giornata. Riuscirono i nazifascisti a penetrare in tre delle cinque stanze della casa; ma nelle altre due ci trincerammo disposti a tutto. Il fumo, la polvere, le detonazioni ci incitavano alla lotta; le ferite, e tutti più o meno ne avevamo, non dolevano; ogni sgabello, ogni rottame ci serviva da riparo. E resistemmo al fuoco di varie mitragliatrici, fucili mitragliatori, moschetti e bombe a mano e al furore di oltre 150 fra tedeschi e fascisti fino a tarda sera, quando gli attaccanti cessarono il fuoco, con l’intenzione forse di riprendere la lotta il giorno successivo per vendicare i morti della giornata. Infatti noi, che durante la notte ci eravamo portati, tutti feriti, ma tutti vivi sul monte Orsaro e di lì sul Tavola, il mattino seguente vedemmo la colonna portarsi ancora sul posto. Facio ci propose di attaccarla alle spalle. Nel primo entusiasmo aderimmo tutti alla proposta; ma le ferite, la stanchezza e la scarsità di munizioni ci dissuasero» [2].
La modestia di Mori e il carattere del giornale che ospitava la sua testimonianza – una sorta di “organo” della borghesia parmense – limitarono i toni epici, a volte quasi favolistici, che non mancarono invece nell’«Eco del Lavoro», giornale della Federazione comunista di Parma.
“FACIO”, EROE IMPRENDIBILE
Il 28 dicembre 1945 “Rodolfo”, nome di battaglia di Franco Saccani del Comando Piazza, scrisse su l’«Eco del Lavoro»:
«Facio era imprendibile: dopo tre giorni di assedio, di fame e di eroismi, con una tipica beffa calabrese, seppe condurre il resto del Picelli fuori dal cerchio» [3].
Sul giornale comunista l’8 febbraio 1946 “Marco”, nome di battaglia di Flaminio Musa, il primo commissario politico della XII Brigata Garibaldi, riportò la relazione di “Facio” sulla “battaglia”, un documento che non è conservato negli archivi della Brigata e che conosciamo solo grazie a questo articolo di “Marco”:
«Notammo che ogni volta che un repubblichino veniva ferito, quello a gran voce chiamava il dottore, che ogni tanto veniva chiamato tenente. Ricorremmo ad uno stratagemma: a turno chiamammo il dottore e il tenente fingendo di essere qualcuno di loro feriti; […] appena si mostravano un ben assestato colpo toglieva loro per sempre la velleità di combattere i partigiani. […] decidemmo l’ultimo tentativo. Feci andare gli uomini verso una finestra e aperta la porta lanciando grida d’attacco scagliai contro di loro diverse bombe a mano. Corsi dagli uomini alla finestra, con loro da questa uscii dal rifugio rompendo la cerchia ormai divenuta debole con una fitta sparatoria per impedire la nostra sortita e senza quasi più colpi ci dileguammo nei boschi» [4].
Questa versione dei fatti da parte di “Facio” non si ritrova nelle altre testimonianze, e non possiamo sapere se sia stata o no effettivamente scritta da lui. Certo è che il suo ruolo decisivo nella “battaglia” fu da tutti riconosciuto. Sia nelle narrazioni più celebrative, come quella di Alfonso Mugerli del 20 marzo 1946 [5], che si avvalse di testimonianze di alcuni dei protagonisti allora in vita e che è comunque una ricostruzione molto utile perché ricca di notizie, sia nelle testimonianze rese successivamente, che ci mostrano un’immagine più ricca e fruttuosa delle diverse soggettività dei partigiani.
GLI “EROI NORMALI”
La testimonianza di Pietro Zuccarelli resa a Cesare Cattani nel 2008 – il testo è inedito – è tra le più significative:
«Poi li ributtava fuori Facio. […] Facio tentò tre volte di uscire. Tre volte. Ma quando abbiam tentato per scappare, che ci hanno sparato. Tre volte ha provato, anche tre o quattro! […] gli sparavano. Allora tornava indietro. E non l’han mai preso. Han sparato ma non l’han mai preso. Sempre sparato. Ha tentato. Tre volte! Tre. Anche quattro volte! […] A 18 anni, ma cosa sai? […] Noi ci siam puntati il fucile due o tre volte per ammazzarci! Eh! “Ma siete matti!” diceva Facio. “Aspettiamo. Ci ammazzeranno loro se è il caso”. Eh! Quello da dire è che ci ha salvato la vita a noi tutti senz’altro. […] Oltre a Casula era Facio che aveva fatto il militare. I più altri eravamo tutti ragazzotti. […] [Casula] s’ era infilato sul camino […] Ben, quello lì sarà stato dalla paura. […] Sarei andato anch’io se potevo! […] Quando buttavano dentro le bombe a mano, sempre dalla porta, e lui le ributtava … prendeva e le ributtava indietro. Ma quella lì è anche … non so … lo spirito. Perché lui, lo spirito, non gli mancava davvero a Facio. Non aveva mica paura. Anche se vedeva uno che gli puntava la pistola o che, non batteva neanche gli occhi. Quello te lo dico io che era coraggioso davvero. Non ho mai visto una persona così! Col sangue freddo così. Eh! […] No, lì ci ha salvato la vita a tutti! Quello da dire è da dire! […] [abbiamo] anche pianto parecchio noi altri piccoli, eh! Si piangeva anche, eh. Dalla disperazione, eh. E lui ci ha sempre, diciamo così, fatto coraggio» [6].
“Facio” è l’eroe, è il capo che guida e protegge i «piccoli». Gli altri sono persone comuni. Che combattono ma anche si nascondono, o piangono, o vogliono suicidarsi.
Una testimonianza di segno analogo è quella resa a chi scrive da Pietro Gnecchi nel 2014:
«Era una tomba, non c’era salvezza, non ci conoscevamo più in faccia l’un con l’altro, tanto eravamo sporchi, feriti dalle schegge, sfiniti. È stato Facio che ci ha aiutato a non ammazzarci, parecchie volte ci siamo puntati le armi per ammazzarci noi, piuttosto che farci ammazzare dai tedeschi. Io mi ero provato la rivoltella in bocca per vedere come fare, ma Facio ci urlava: “Coraggio ragazzi, saremo gli eroi per la libertà della patria”. Ci ha sempre salvati lui a noi, altro che balle» [7].
Già nel 1989 Giorgio Giuffredi aveva rivelato a Luigi Rastelli:
«Due dei nostri bravi partigiani – che non vorrei neanche nominarli – ecco, erano in crisi. Uno era spaccato alla spalla da una pallottola [Veroni, n. d. a.] e l’altro, mi pare fosse Terenzio [Mori, n.d.a.], in crisi proprio tremenda. Erano andati fuori di sé, pazzi. E Facio, giù, li teneva a bada» [8].
Viene in mente la lettera di Nuto Revelli ad Alessandro Galante Garrone:
«Questo era il nostro partigianato: un’esperienza meravigliosa perché vissuta da gente diversa – mille tipi con mille idee – da gente diversa che s’era ritrovata proprio nel partigianato, nella lotta. Gente comune, con pregi e difetti, non un esercito di santi» [9].
E neppure di eroi, potremmo aggiungere. Semmai di “eroi normali”. “Facio” emerge invece come una personalità fuori dall’ordinario: «era una sorta di Che Guevara, dopo la liberazione non si sarebbe fermato e sarebbe andato dovunque nel mondo a combattere per la libertà» [10].
DALLA CELEBRAZIONE ALLA RIFLESSIONE STORICA
Il primo passo in direzione dell’attenzione verso la complessità storica fu il libro del 1978 di Giulivo Ricci Storia della Brigata Matteotti-Picelli, base fondamentale di tutti gli studi successivi sul Picelli [11]. Ricci, rispetto alla “tradizione” dei 150 assedianti e dei 16 morti e oltre 30 feriti nel campo nazifascista, propende per numeri minori e comunque per la tesi che il numero più alto degli assalitori sia da attribuire alla seconda venuta dei nazifascisti, quando i partigiani erano già fuggiti. La testimonianza citata di Mori sui partigiani che dal monte Tavola videro la colonna nazifascista risalire al Lago Santo spiega probabilmente il numero dei 150 nemici. Resta in ogni caso il fatto che «i ribelli, pur essendo in inferiorità numerica, riuscirono a difendere il rifugio e persino a respingere i nemici che erano riusciti a entrarvi» [12].
L’articolo di Guido Pisi e Luigi Rastelli del 1989 ebbe il merito di pubblicare i Notiziari della GNR del 21 marzo e del 22 marzo 1944, provenienti dall’archivio della Fondazione Luigi Micheletti di Brescia. Nel primo era scritto:
«Forze operanti in località Lago Santo, verso il confine di Apuania, composte da 80 legionari della GNR e da 30 tedeschi con una sezione di artiglieria, hanno testé circondato un rifugio, ove si era asserragliata una banda ribelle di forza imprecisata, che è in via di annientamento. Finora le perdite nostre sono: due morti (un legionario e un soldato tedesco) e un legionario gravemente ferito» [13].
La GNR, il giorno successivo, scriveva che «i legionari hanno finora avuto 5 morti e 5 feriti» [14].
L’articolo di Pisi e Rastelli ospitava inoltre le testimonianze del capo operaio dell’azienda forestale dello Stato Lino Magnoni e del medico Giorgio Campanini, costretti dai nazifascisti a salire al rifugio nella notte tra il 18 e il 19 marzo, dopo i primi Caduti e feriti. Soprattutto la prima testimonianza è preziosa perché convergente con quella dei ribelli, pur stando – forzatamente – dall’altra parte del campo.
Già Ricci aveva citato una testimonianza scritta di Umberto Capiferri, medico partigiano, che confermava la voce popolare secondo la quale un capitano delle SS tedesche aveva chiamato eroi i partigiani del Lago Santo:
«Capiferri udì l’ufficiale tedesco parlare ammirato di quei combattenti nel marzo 1944 dentro i locali del Ba-Caffè degli Svizzeri in Pontremoli» [15].
Una testimonianza convergente fu rilasciata dal partigiano Giovanni Vassallo a Paolo Tomasi nel 1988» [16].
PERCHÈ IL PICELLI SI SPOSTO’ AL LAGO SANTO?
Su alcune questioni la riflessione storica va ancora approfondita.
La prima riguarda il perché dello spostamento del Picelli al Lago Santo. Vittorino Marini, partigiano del Picelli, in tre scritti di data diversa, ha sempre sostenuto che l’ordine di spostarsi giunse da Parma: o dal CLN [17] o dal Comando della XII Brigata Garibaldi «ricevuto per mezzo della staffetta “Carla” Tosini Angela» [18] o dal «commissario Alceste» [19] [Bertoli, n.d.a.]. L’obiettivo era unirsi all’altro distaccamento della Brigata, il Griffith, e organizzare, con Fermo Ognibene comandante e “Facio” vice, la guerriglia tra Valparma e Val Baganza. La testimonianza di Zuccarelli resa a Cattani conferma questa tesi:
«Eravamo diretti al Lago Santo perché il nostro battaglione, il battaglione di Fermo Ognibene, doveva spostarsi in Emilia. Aveva l’ordine di spostarsi in Emilia» [20].
Di quest’ordine non c’è traccia documentaria negli archivi della Brigata. Secondo Ricci la decisione di abbandonare il Pontremolese «può ritenersi plausibile» e l’ordine «logico» [21], dato che il Picelli era una formazione parmense.
Ma va presa in considerazione anche la tesi della necessità di abbandonare la zona a causa dei rastrellamenti nazifascisti decisi dopo l’assalto al treno alla stazione di Valmozzola [22]e anche a seguito alle azioni condotte in quei giorni dal Picelli, in particolare l’attacco al presidio repubblichino della stazione di Grondola-Guinadi, sempre il 12 marzo. Lo stesso Marini scrisse del «pericolo di un attacco della XMas chiamata in zona dal segretario repubblichino fascista di Pontremoli Parisio Antonio per rastrellamento» [23].
Ricci suggerisce l’ipotesi che «la decisione di “sganciarsi” fosse stata divisata da Ognibene, senza precise direttive parmensi» [ 24]. Va tenuto presente che al Lago Santo il gruppo di “Facio” non solo non trovò il grosso del Picelli, al comando di Ognibene, perché bloccato a Succisa dal rastrellamento della XMas, ma nemmeno il Griffith, che era stato al Lago Santo fino a pochi giorni prima [25] e poi si era spostato verso Monchio: come se al Griffith non fosse arrivato un ordine analogo a quello che secondo Marini e Zuccarelli arrivò al Picelli.
Il rastrellamento fu in ogni caso parte decisiva del contesto.
Il 13 marzo Franz Turchi, prefetto della Spezia, scrisse al ministero dell’Interno informando che:
«seguito assalto treno da parte ribelli in provincia Parma et uccisione alcuni ufficiali et militari sono stati inviati 300 uomini Decima Flottmas in detta Provincia et in quella di Apuania at seguito sollecitazione ricevuta» [26].
Franco Morini, in Parma nella Repubblica Sociale, aggiunge che la XMas operò d’intesa con i fascisti parmensi:
«La XMas di La Spezia e la GNR di Parma concordarono un primo metodico rastrellamento che coinvolse l’intero Appennino ligure-emiliano e che, a Succisa di Pontremoli, costò la vita al capo del distaccamento Picelli, Fermo Ognibene» [27].
Non solo: anche i tedeschi si mobilitarono. Lutz Klinkhammer cita documenti tedeschi che dimostrano che, a seguito dell’azione di Valmozzola, i partigiani furono ricercati anche nella zona a sud di Villaminozzo, dove si pensava si fossero rifugiati. Contro quella zona furono inviate truppe della corazzata Hermann Goring [28].
In ogni modo, il Picelli si suddivise nella serata del 13 marzo in due pattuglie. Uccisi a Succisa Ognibene e due suoi uomini il 15 marzo ad opera della XMas, il gruppo più consistente sbandò e si disperse in varie direzioni. Il gruppo guidato da “Facio”, dopo aver fallito due azioni, raggiunse il Lago Santo. La prima azione mirava a «giustiziare due spie fasciste a Vignola di Pontremoli, un certo Galli e Riccò, perché risultava che i due avevano fatto venire la XMas che aveva ucciso tre giovani» [29].
Nella testimonianza del 1988 Marini precisò, riferendosi al periodo successivo alla morte di Ognibene:
«Erano stati presi i giovani, poi fucilati a Valmozzola, e si temeva il peggio. Circolavano infatti voci secondo cui potevano essere gli uomini di Facio» [30].
Appare evidente come dopo il 12 marzo l’attività del Picelli, indipendentemente dall’ordine ricevuto o meno da Parma, sia stata fortemente condizionata dai rastrellamenti nel Parmense e in Apuania, frutto di un’azione nazifascista concordata [31].
UNA SPIA A CORNIGLIO?
Terenzio Mori, in una testimonianza del 1986, raccontò che cosa successe dopo l’arrivo dei nove al Lago Santo:
«Scendemmo a Corniglio, ricordo che mentre stavamo avvicinandoci all’abitato intorno alla fontana posta all’ingresso del paese c’erano alcune donne; appena ci videro fuggirono spaventate; era la prima volta che vedevano i partigiani. Entrammo poi nell’albergo dove fummo accolti cordialmente, ci offrirono anche da bere; accettammo un bicchierino, nonostante fossero assolutamente per noi proibiti il vino e gli alcoolici. […] La sera stessa, invece dei nostri compagni, arrivarono i tedeschi e i fascisti» [32].
Una spia era già stata la causa dell’agguato della XMas al gruppo di Ognibene [33].
Anche Zuccarelli evidenziò il nesso tra la discesa a Bosco di Corniglio dei partigiani e la salita al rifugio dei nazifascisti:
«E sono andati giù a Bosco. A Bosco han saputo che c’è questi partigiani. Il giorno dopo. Oggi sono andati a Bosco, loro e il giorno dopo, al pomeriggio [in realtà il pomeriggio dello stesso giorno, n. d. a.], sono arrivati i tedeschi. Hai capito? E ci hanno attaccati» [34].
La delazione è molto probabile:
«La loro presenza [dei ribelli] venne segnalata alla milizia fascista cornigliese dopo che alcuni di loro si erano presentati a Bosco di Corniglio nella mattinata del 18 marzo ad acquistare delle derrate alimentari di cui erano sprovvisti. Due corriere di militi fascisti (circa 80 uomini) salirono nel pomeriggio a Lagdei; una corriera di 30 tedeschi salì nella nottata, come ha testimoniato il forestale Lino Magnoni (poi partigiano) prelevato forzosamente da casa per accompagnarli» [35].
Probabilmente i rastrellatori cercavano i partigiani del Griffith, che erano stati nella zona. “Facio” fu incosciente? Forse sì. Ma si doveva pur mangiare, «in quanto la scorta di viveri era conservata da Alberto» [36].
Ho incontrato Nando Donnini, studioso della storia cornigliese, e le sue considerazioni mi sono sembrate convincenti:
«La guerra civile è passata anche da noi. Al Lago Santo si insediò un primo gruppo partigiano, anche con persone del posto, già subito dopo l’8 settembre. Si sapeva dunque chi erano i partigiani. Ma nel marzo 1944 avevano meno consenso e incutevano meno paura rispetto a quanto sarebbe accaduto qualche mese dopo. Qualche cornigliese può aver parlato. Quinto Ghirardini, proprietario dell’albergo in cui si recarono i partigiani, era stato podestà, era uno dei personaggi più importanti di Corniglio. Nelle ampie famiglie patriarcali di allora c’erano sensibilità diverse, fasciste e antifasciste. Il figlio di Ghirardini era socialista: alla fine della sua vita si interrogò sul perché nessuno della famiglia, per loro fortuna, ebbe ripercussioni cruente dopo l’eccidio nazifascista del 17 ottobre 1944. Eppure le vittime, i dirigenti del Comando Unico partigiano parmense, erano ospiti dell’albergo Ghirardini» [37].
ALTRE QUESTIONI APERTE
Resta da interrogarsi sul perché i nazifascisti si ritirarono la sera del 18 marzo. Si può convenire con il ragionamento di Pisi e Rastelli:
«Probabilmente un insieme di fattori determinò la ritirata degli assedianti: la tenace resistenza incontrata e le pesanti perdite subite, il mancato arrivo dei rinforzi e dei rifornimenti chiesti a Parma, il sopraggiungere di una seconda notte col timore di essere a loro volta accerchiati dalle forze partigiane della zona che potevano aver sentito i rumori del combattimento» [38].
Scarsamente indagata, infine, è stata la dura marcia dei nove per Pracchiola – dove furono curati dal medico Carlo Uggeri e da altri dopo la fuga – passando per il paese di Cirone, dove furono per breve tempo ospitati dalla gente di montagna, che li accompagnò sulle slitte che portano il concime. Purtroppo non è stato fatto un lavoro di ricerca delle testimonianze degli abitanti della zona. Mentre i ricordi dei partigiani non sono precisi. Raccontò Giuffredi:
«Abbiamo finito, che poi io non so come, mi sono trovato dentro ad una capanna, dove ci hanno curato, il professor Uggeri e altri ci hanno curato» [39].
La domanda chiave l’ha formulata Cattani a Zuccarelli:
«Ma voi ve n’ eravate resi conto di avere vinto una battaglia?». Questa la risposta:
«Quando eravamo lassù? Ma no che non ci siamo resi conto. Noi quando siam … che abbiam tentato di uscire, che siam scappati, non si sapeva micca di avere vinto perché il bello veniva poi!» [40].
LA TRAGEDIA
Poi certamente venne il bello: mesi di azioni eclatanti del Picelli. Ma anche la tragedia: l’uccisione di “Facio”, il 22 luglio 1944, da parte di altri partigiani, componenti il gruppo dirigente comunista spezzino ai monti. Simbolo di una più generale difficoltà a capirsi tra partigiani e dirigenti comunisti. I dirigenti comunisti furono decisivi nella Resistenza, ma il loro dogmatismo combinò spesso disastri. Alla Spezia fu molto peggio. L’ispettore Ferrarini, che si trovava da alcuni giorni nella XII Brigata Garibaldi parmense, in una relazione al Comando Nord Emilia scrisse:
«Hanno ucciso Facio, il più valoroso e generoso comandante di patrioti (Brigata Picelli). È un delitto oscuro e tragico che potrà avere strascichi gravi e di cui dovreste interessare il centro» [41].
Anche Antonio Borgatti, segretario della Federazione comunista spezzina, fu duro:
«È stato fucilato Facio. Motivo la solita indisciplina. Noi non ci vediamo chiaro. Abbiamo chiesto un rapporto attraverso i nuclei. Il comando di divisione è costituito da un branco di piccolo borghesi, compresi i nostri compagni che non godono troppo la nostra stima. Malgrado le nostre proteste fanno mensa separata e tengono un contegno tale che la democrazia nelle formazioni è una chimera» [42].
Ma quel gruppo dirigente ai monti non aveva alternative. In fondo la vicenda è anche il simbolo che «gli uomini sono uomini» [43]. Generosi o cinici, disinteressati o arrivisti, buoni o cattivi.
La storia della Resistenza va raccontata tutta, senza reticenze. Fu una grande avventura umana, nella quale l’umanità prevalse sulla spietatezza. Ma “Facio” non ce la fece. Con lui la Resistenza sarebbe stata certamente migliore, e quindi ancora più forte.
IL MITO CONTINUA
La morte di “Facio” ha dato vita a un’altra leggenda, che si è intrecciata con quella della “battaglia del Lago Santo”. Le leggende non muoiono mai. “Facio” vive, con i ragazzi del Lago Santo, i suoi assassini no. Il 19 marzo eravamo in tanti, sul lago. Tullio Carnerini, dell’Istituto Storico della Resistenza di Parma, ha ricordato come la “battaglia” sia stata «un segnale potente per tutti che era possibile lottare, anche militarmente, e che la forza della ragione, delle idee e della speranza di una nuova Italia poteva prevalere». Abbiamo portato nove gerbere rosse. Un gruppo di ragazzi ha posato nove garofani.
Il mito continua. Giovanna Gianello, nipote di Luciano, mi ha donato una copia di Ferro, un romanzo storico di Piermichele Pollutri il cui protagonista è Luciano, con “Facio”. Appresa la morte di Ognibene, andarono a rendere omaggio alle sue spoglie:
«Luciano e Facio, benché malconci, salutano il loro comandante promettendogli quello che per loro è già scontato. Silenzio nella breve marcia, mentre la pioggia inzuppa la terra e gonfia la neve. Il calabrese, poeta, filosofo e sognatore avanti e il luogotenente friulano, bello, giovane e nervoso dietro. Lasciano da parte le parole, parlano gli occhi e gli sguardi, loro si intendono così. Pugni chiusi al cielo, un fiore e la promessa di spazzare dall’Italia intera la vergogna nazifascista» [44].
Luciano morì ventenne nel novembre 1945 ad Aulla, mentre tentava di far brillare una mina fascista. Nel 2012 Giovanna trovò in cantina le armi nascoste da Luciano. Nei fucili si leggevano ancora le scritte «morte ai fascisti» e «amo solo te».
Il mito continua. La figlia, il genero, le nipoti e i pronipoti di Pietro Gnecchi mi hanno donato una copia del libro di Daniele Aristarco Una bella Resistenza, un viaggio per l’Italia con le storie partigiane più belle. La storia del Lago Santo non poteva mancare. La storia è quella che Pietro raccontava alla nipote bambina: in quella versione i partigiani fuggono attraversando a piedi il lago ghiacciato. È straordinario che, nell’intreccio tra realtà e favola, Pietro ormai raccontasse la storia in questo modo anche agli storici che lo intervistavano. Io, sbagliando, non riportai il passo nel testo poi pubblicato. Cesare Cattani lo riporta in un testo inedito:
«“Cosa facciamo ragazzi?” Ha detto [Facio]: “[…] si doveva attraversare il Lago Santo e dopo si arrivava dove c’era questo, questo, ‘sta vallata. Sto coso che andava su lì. Se si poteva arrivare fino a lì allora…” [45]».
È una storia da ricordare quando il dubbio ti assale:
«Solo oggi mi pare di capire che la cosa più difficile che hanno dovuto sconfiggere mio nonno e i suoi compagni non sono stati i nemici o la stessa paura, il dolore o la fatica. Hanno dovuto credere, fino in fondo, senza mai dubitare» [46].
Giorgio Pagano, storico, sindaco della Spezia dal ’97 al 2007, copresidente del Comitato provinciale Unitario della Resistenza della Spezia in rappresentanza dell’Anpi
Note:
[1] Massimo Salsi, Il pezzo mancante, Albatros, Roma 2022, p. 54;
[2] c. b., Lago Santo, «La Gazzetta di Parma», 5 maggio 1945;
[3] Rodolfo, I comunisti parmensi nella cospirazione, «Eco del Lavoro», 28 dicembre 1945;
[4] Marco, I comunisti parmensi nella cospirazione, «Eco del Lavoro», 8 febbraio 1946;
[5] Alfonso Mugerli, 19 marzo 1944. La battaglia del Lago Santo, Tipografia Artigianelli, Pontremoli (MS) 1946;
[6] Conversazione di Cesare Cattani con Pietro Zuccarelli “Pietro”, 2008, in archivio Cesare Cattani;
[7] Pietro Gnecchi “Bedonia” e “Garibaldi”, in Giorgio Pagano, La leggenda del Lago Santo, «Città della Spezia», 23 marzo 2014, in Id. Eppur bisogna ardir. La Spezia partigiana 1943-1945, Edizioni Cinque Terre, La Spezia 2015, p. 290;
[8] Giorgio Giuffredi “Giorgio”, in Guido Pisi – Luigi Rastelli, Il combattimento del Lago Santo (18-19 marzo 1944), in «Storia e Documenti», anno I, n. 1, gennaio-giugno 1989, p. 154;
[9] La lettera, scritta nel decennale della Resistenza, è in Archivio Istoreto, fondo Alessandro Galante Garrone, Corrispondenza. Lettere a Alessandro Galante Garrone, vol. I. Il documento è citato da Santo Peli in La necessità, il caso, l’utopia, BFS, Pisa 2022, p. 125;
[10] Nello Quartieri “Italiano”, in Giorgio Pagano, Il comandante Italiano e il segreto della felicità, «Città della Spezia», 22 aprile 2012, in Id., Eppur bisogna ardir. La Spezia partigiana 1943-1945, cit., p. 105;
[11] Giulivo Ricci, Storia del Battaglione Matteotti-Picelli, Istituto Storico della Resistenza “Pietro Mario Beghi”, La Spezia 1978. Condivido il giudizio di Piermichele Pollutri, secondo cui Ricci «ricostruisce la storia del Picelli con dovizia di particolari, ma soprattutto senza dimenticarsi mai delle persone, degli occhi, dei sentimenti, dei gesti, delle paure» (Ferro. Vita ribelle di Luciano “Mirko” Gianello, partigiano, Redstarpress, Roma 2023, p. 71);
[12] Maurizio Fiorillo, Uomini alla macchia. Bande partigiane e guerra civile. Lunigiana 1943-1945, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 71;
[13] Guido Pisi – Luigi Rastelli, Il combattimento del Lago Santo (18-19 marzo 1944), cit., p. 151;
[14] Ibidem;
[15] Giulivo Ricci, Storia del Battaglione Matteotti-Picelli, cit., p. 153;
[16] Caso Facio. Testimonianza di Giovanni Vassallo (raccolta e trascritta in forma di relazione dal giornalista Paolo Tomasi) sui principali episodi dell’azione di guerriglia condotta dal battaglione “Guido Picelli” nel mese di marzo 1944, sottoscritta a Parma il 15 dicembre 1988 da Paolo Tomasi e Giovanni Vassallo, in AISRPR. Secondo Pino Ippolito Armino «l’episodio […] sembra innanzitutto indicare che tra gli assedianti al lago non ci fossero tedeschi» (Indagine sulla morte di un partigiano. La verità sul comandante Facio, Bollati Boringhieri, Torino 2023, p. 47). In realtà la presenza dei tedeschi è confermata dai ribelli, dai cornigliesi costretti a recarsi al rifugio e dai Notiziari della GNR;
[17] Vittorino Marini, Storia del Battaglione Picelli, s.d., in AISRPR;
[18] Vittorino Marini, Relazione sull’attività del distaccamento “Picelli”, s. d. ma successiva al testo già citato, che «integra e rettifica», in AISRPR;
[19] Caso Facio. Testimonianza di Vittorio Marini (raccolta e trascritta in forma di relazione dal giornalista Paolo Tomasi) sui principali episodi dell’azione di guerriglia condotta dal battaglione “Guido Picelli” nel mese di marzo 1944, 15 dicembre 1988, in AISRPR;
[20] Conversazione di Cesare Cattani con Pietro Zuccarelli “Pietro”, cit;
[21] Giulivo Ricci, Storia del Battaglione Matteotti-Picelli, cit., p. 67;
[22] Cfr. Giorgio Pagano, L’assalto al treno in Valmozzola, pietra miliare della Resistenza, «Patria Indipendente», 14 marzo 2024;
[23] Vittorino Marini, Storia del Battaglione Picelli, cit;
[24] Giulivo Ricci, Storia del Battaglione Matteotti-Picelli, cit., p. 68;
[25] Giorgio Giuffredi racconta: «Come siamo al Lago Santo, nella casa si vedeva che c’era rimasto delle rimanenze del distaccamento partigiano che c’era prima, dei partigiani parmigiani che avevano lasciato». Nella nota gli autori dell’articolo, Guido Pisi e Luigi Rastelli, spiegano: «Si tratta del distaccamento Griffith, guidato dal comandante Gino Burialdi “Duilio” e dal commissario Ario Comelli “Walter”». Successivamente Giuffredi dice: «C’era una stufa, che l’avete lasciata voi nell’andare via». La nota precisa: «Il testimone si riferisce ad uno dei due intervistatori, Luigi Rastelli “Annibale”, che con la formazione partigiana Griffith aveva occupato il rifugio fino a due giorni prima». Si vedano nel citato articolo di Guido Pisi e Luigi Rastelli, Il combattimento del Lago Santo (18-19 marzo 1944) le pagine 153 e 167 e le pagine 154 e 167;
[26] Telegramma e fonogramma del Capo della Provincia al Ministero dell’Interno, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, b. 100, ASSP;
[27] Franco Morini, Parma nella Repubblica Sociale, Edizioni La Sfinge, Parma 1978, p. 75.
[28] Lutz Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia. 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 578;
[29] Vittorino Marini, Storia del Battaglione Picelli, cit. Il 13 marzo elementi della XMas arrestarono molti civili e li condussero, come ostaggi, nella piazzetta di Casa Corvi. Tre persone furono uccise;
[30] Caso Facio. Testimonianza di Vittorio Marini (raccolta e trascritta in forma di relazione dal giornalista Paolo Tomasi) sui principali episodi dell’azione di guerriglia condotta dal battaglione “Guido Picelli” nel mese di marzo 1944, cit;
[31] Questa tesi è sostenuta da Maurizio Fiorillo nel suo libro citato. Circa gli altri autori che si sono soffermati sul Picelli negli ultimi anni, va detto che Spartaco Capogreco (Il piombo e l’argento. La vera storia del partigiano Facio, Donzelli, Roma 2007) condivide i dubbi di Ricci sulla tesi di Marini, mentre Luca Madrignani (Il caso Facio. Eroi e traditori della Resistenza, Il Mulino, Bologna 2014) e Salsi e Armino nei loro libri citati si limitano a riportare, facendola propria, la tesi di Marini;
[32] Terenzio Mori, Questa gente e la Resistenza, Comune di Viadana, 1986, p. 202.
[33] Vittorino Marini, Storia del Battaglione Picelli, cit;
[34] Conversazione di Cesare Cattani con Pietro Zuccarelli “Pietro”, cit;
[35] Gianni Cugini, La battaglia del Lago Santo 75 anni dopo, «La Gazzetta di Parma», 6 aprile 2019:
[36] Caso Facio. Testimonianza di Vittorio Marini (raccolta e trascritta in forma di relazione dal giornalista Paolo Tomasi) sui principali episodi dell’azione di guerriglia condotta dal battaglione “Guido Picelli” nel mese di marzo 1944, cit;
[37] Nando Donnini all’autore, 27 marzo 2024;
[38] Guido Pisi – Luigi Rastelli, Il combattimento del Lago Santo (18-19 marzo 1944), cit., p. 149;
[39] Giorgio Giuffredi “Giorgio”, in Guido Pisi – Luigi Rastelli, Il combattimento del Lago Santo (18-19 marzo 1944), cit., p. 155;
[40] Conversazione di Cesare Cattani con Pietro Zuccarelli “Pietro”, cit;
[41] Ferrarini [Enzo Costa, n. d. a.] Relazione della XIIa Brigata Garibaldi al Comando Nord Emilia, Fondazione Gramsci, Brigate Garibaldi Emilia Romagna, 2, Miscellanea, b. 5;
[42] Federazione comunista di La Spezia. Rapporto giugno-luglio 44, datato l’8 agosto 1944 e firmato Sil [Antonio Borgatti “Silvio”, n. d. a.], Fondazione Gramsci, Archivi del Partito comunista italiano, Direzione Nord, La Spezia, 16 gennaio 1944-13 dicembre 1944, b. 25:
[43] Emanuele Artom, Diari di un partigiano ebreo. Gennaio 1940-febbraio 1944, a cura di Guri Schwarz, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 61;
[44] Piermichele Pollutri, Ferro. Vita ribelle di Luciano “Mirko” Gianello, partigiano, cit., p. 89;
[45] Conversazione di Cesare Cattani con Pietro Gnecchi “Bedonia” e “Garibaldi”, 2004, in archivio Cesare Cattani;
[46] Daniele Aristarco, Una bella Resistenza, Mondadori, Milano 2023, p. 99.
Pubblicato venerdì 29 Marzo 2024
Stampato il 07/10/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/anniversari/la-battaglia-del-lago-santo-tra-storia-e-leggenda/