È stata intensa e partecipata oltre ogni aspettativa la commemorazione del rastrellamento del 1944 che si è tenuta il 12 settembre scorso al Pian del Cansiglio. In una splendida domenica mattina, alla presenza di molti sindaci del territorio, delle autorità militari e di centinaia di cittadini, circondato dai gonfaloni dei Comuni della zona e dai medaglieri di tutte le Anpi provinciali della regione Veneto e delle associazioni della Resistenza, è intervenuto anche il presidente nazionale Anpi Gianfranco Pagliarulo. In tanti ci hanno chiesto di pubblicare il suo discorso e siamo dunque molto lieti di proporlo ai lettori.

 

Il presidente nazionale Anpi, Gianfranco Pagliarulo, durante il suo discorso

Ringrazio tutti i partecipanti, le istituzioni, le autorità civili e militari, ringrazio l’Anpi territoriale per avermi invitato a questa bellissima iniziativa che ha davvero un valore e un carattere nazionale. Vi ringrazio, perché credo che le cose avvenute questa mattina ci abbiano donato una emozione. Tutte: il corteo a cui abbiamo partecipato, le voci dello splendido coro, le interpretazioni della banda musicale, la deposizione della corona alla lapide da parte di tre partigiani della Divisione Nannetti, le note del Silenzio, le parole che ho ascoltato negli interventi precedenti. Mi sono chiesto: qual è la radice di questa emozione comune? Ho trovato una risposta. E la risposta è che oggi noi stiamo compiendo qualcosa di laicamente sacro, perché riguarda l’epica di un popolo, il popolo italiano in quegli anni. Ho detto “sacro” perché quelle vicende ci parlano dei temi della morte e della vita, la morte di 480 partigiani, e la vita, la vita che anche grazie al loro sacrificio poté riprendere in un Paese che finalmente era riuscito a riconquistare la sua Patria.

È bene perciò ricordare oggi le terribili, ma assieme gloriose, vicende del rastrellamento di Pian del Cansiglio. Quella generazione di donne e di uomini, le persone della Resistenza, sta scomparendo. Ma ci ha trasmesso il testimone della sua memoria, affinché non vada smarrita un’eredità di sofferenze e di valori che è alla base dell’unica Italia che la mia generazione e le generazioni successive hanno conosciuto. Noi abbiamo conosciuto un Paese in cui siamo liberi di dire e di fare ciò che riteniamo giusto, siamo liberi di essere liberi, un Paese che dalle macerie del più grande conflitto della storia dell’umanità ha ricostruito se stesso, ha ritrovato la sua bellezza unica al mondo.

Noi quindi – parlo delle persone della mia età e della generazione successiva, quelli che hanno conosciuto gli uomini del 1944, i combattenti di Pian del Cansiglio, o hanno sentito il racconto o hanno letto delle loro imprese – ci troviamo nella condizione di essere i portatori della memoria di seconda generazione.

Umberto Lorenzoni, il comandante “Eros”

Tre anni fa è scomparso il comandante Eros, Umberto Lorenzoni, ma ci ha donato un lascito: i suoi ricordi, le tante conversazioni, la forza della memoria. E da parte nostra non può che esserci un obbligo, una sorta di giuramento di fedeltà a quelle preziosissime eredità di testimonianze di vita vissuta, a quel portafoglio di valori che abbiamo chiamato con un nome che potrebbe essere quello di una bellissima ragazza: il nome Resistenza. Quando leggo nello statuto dell’Anpi, che data dai tempi della sua fondazione, che uno degli scopi dell’associazione è quello di tutelare l’onore e il nome partigiano contro ogni forma di vilipendio o di speculazione, penso proprio a questo nostro obbligo morale, e cioè di essere i custodi, divulgatori e i sostenitori di quella irripetibile esperienza storica che è alla base della Repubblica e della Costituzione.

La Resistenza fu ovviamente un fatto concreto nella storia concreta: vi furono contraddizioni, limiti ed errori, come sempre e ovunque in tutte le guerre e più in generale in ogni attività umana; così avvenne in tutte le resistenze europee, per esempio, in Francia e in Jugoslavia, ma contraddizioni, limiti ed errori non cambiano di una virgola il giudizio storico e morale su quello straordinario movimento di popolo armato e non armato, su quelle donne e quegli uomini che in tanti casi sacrificarono la loro vita, sull’evento che cambiò il Paese e che restituì agli italiani una Patria comune e unita, dopo 20 mesi in cui lo Stivale era stato diviso in tre: a sud il Regno d’Italia, con le truppe alleate; al centro-nord la repubblica di Salò, Stato fantoccio del Terzo Reich; al nord-est i territori direttamente occupati e amministrati dal Terzo Reich, e cioè la Zona d’operazioni del litorale adriatico e la Zona d’operazioni delle Prealpi. E ci troviamo qui, proprio qui in questa valle, in una terra di connessione fra la repubblica di Salò e la Zona d’operazioni del litorale.

L’Italia risorse unita, dopo il 25 aprile, come unita sorse il 17 marzo 1861, dopo gli anni del Risorgimento.

Ho letto che tutto iniziò sui monti bellunesi e presso la foresta del Cansiglio con la formazione di due piccoli gruppi partigiani il 7 novembre 1943. Da quei nuclei originari, come per moltiplicazioni successive, nacque nel luglio 1944 la Divisione Nino Nannetti che ha segnato la storia partigiana, la storia di questa terra, e contribuì a segnare la storia di questo Paese. Da quel 7 novembre si dipanò una matassa di azioni di combattimento e di civiltà, che portò fra l’altro alla formazione, sia pur parziale, provvisoria, effimera, della “Zona libera”, un territorio autogestito sotto il controllo partigiano. Ed è storia di scontri e di battaglie contro due nemici: da un lato le forze del Terzo Reich, dall’altro – non va mai dimenticato – le Brigate Nere, in particolare quelle di Treviso. E si avviò una drammatica sequenza di ritorsioni, di rappresaglie, di roghi di case e di borghi interi, a conferma doppia della ferocia dei seguaci di Hitler e di Mussolini e del legame fra quel popolo, quello dei comuni e dei borghi, e i suoi figli, i ragazzi che combattevano in montagna.

La divisione Nannetti (Archivio fotografico Anpi nazionale)

Nell’estate del 1944 arriva alle forze garibaldine, e quindi anche alla Divisione Nannetti, un messaggio del quartier generale alleato, in cui il capo, il generale Alexander osserva “con ammirazione e simpatia la lotta dei partigiani”, chiede un contatto più stretto con loro, si impegna a un aiuto in rapporto alle necessità strategiche. Ebbene quel messaggio fu in realtà disatteso, perché gli alleati intervennero sì, ma l’anno successivo. Ma quel messaggio conteneva un riconoscimento storico, una legittimazione civile, perché riconosceva nel movimento partigiano non un gruppo disperato di ribelli ma una forza volontaria e organizzata che operava con altissime motivazioni ideali per la liberazione del Paese.

Messa a campo della divisione Nannetti sul Cansiglio (Archivio fotografico Anpi nazionale)

L’orizzonte dei partigiani, liberati i comuni, era quello di provvedere all’insediamento di organismi democratici di governo. Questo piano del comando della Nannetti non si realizzò mai per la terribile offensiva tedesca. Questa terra non fece in tempo a divenire repubblica partigiana. Eppure la prospettiva della Nannetti rivelava i semi di futuro di quella lotta, perché era dal 1926, con le leggi fascistissime, che erano stati soppressi gli organi di autogoverno dei Comuni e sostituiti da una figura nominata dal governo, il podestà. E nel progetto del comando della Nannetti, come nelle straordinarie per quanto brevi esperienze di repubbliche partigiane costituitesi nel pieno dell’occupazione tedesca, come nella Carnia o nell’Ossola, c’era un’anticipazione di libertà e di autodeterminazione, il seme della Repubblica, conquistata l’anno successivo alla Liberazione, attraverso il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, ed il seme della Costituzione, che restituiva al popolo la sovranità della Repubblica attraverso i meccanismi elettivi e di partecipazione previsti proprio dalla Costituzione.

Un’immagine dalla manifestazione del 12 settembre

Questi semi non fiorirono subito. Ci furono ancora devastazioni e lutti per lunghissimi mesi. Ho letto di tanti paesi successivamente ancora letteralmente dati alle fiamme e dell’ininterrotto terrorismo delle formazioni nazifasciste. L’attacco massiccio iniziò il 31 agosto e continuò nella prima settimana di settembre con una sorta di battaglia continua. L’8 e il 9 settembre 1944 il Comando di Divisione, ordinò di ritirarsi da Cansiglio. Nelle settimane successive continuarono ancora rastrellamenti e rappresaglie.

I rappresentanti delle forze armate presenti all’evento

Aveva vinto una macchina bellica incredibilmente soverchiante per uomini e armamenti, e le forze partigiane erano state costrette alla ritirata, riuscendo però a mettere in salvo la stragrande maggioranza dei combattenti che raggiunsero i paesi e la pianura grazi alla scelta di evitare la battaglia campale, lo scontro frontale. È bello ricordare, pur nella drammatica concitazione di quei mesi e di quei giorni, la dimensione unitaria della lotta partigiana e il rapporto col popolo, con i civili, come si suol dire. Penso alle tante donne che aiutarono quei partigiani. Penso ancora per esempio da un lato a figure come i comandanti Francesco Pesce e Amerigo Clocchiatti, dall’altro a don Galera, don Faè, che trasformò il campanile della chiesa di Montaner in un deposito di armi a disposizione dei partigiani e organizzò gli aiuti agli ex prigionieri di guerra e ai soldati italiani sbandati dopo l’8 settembre. Tradito da due spie, fu arrestato e incarcerato.

Sono passati 77 anni da quei giorni di ferro e di fuoco, ma anche di speranze e di tensione ideale, e penso a quei ragazzi che avevano 20, 18 anni, come il comandante Eros, penso a quelli che combattevano a Pian del Cansiglio. Ebbene, quelli erano i ragazzi della radio. Quelli di oggi sono i ragazzi dei social, del web.

Com’è cambiato il mondo in questi anni! Eppure i ragazzi del 2021 potrebbero apprendere tante cose dai ragazzi del 1944. Uguale era la voglia di vivere, uguali i desideri di amore, i sogni di un futuro migliore, i desideri di sfidare il mondo che accomunano i ragazzi di tutte le generazioni, la voglia di capire il senso della vita.  Quei ragazzi, quelli del 43-45, capirono presto il senso della vita, e intesero bene che il fez, la camicia nera, la gerarchia, la guerra, il sangue, la discriminazione razziale non esprimevano il senso della vita, ma il senso della morte. E capirono bene che c’era più dignità nella scarpe rotte che in tutti i talloni di ferro degli stivali della Wermacht e delle brigate nere. Capirono che la libertà, la giustizia sociale, la pace non si potevano prendere, ma si dovevano conquistare. L’enorme differenza è tutta in questa parola, che indica acquisire qualcosa con sacrifici, lotte, superamento di difficoltà e ostacoli. E capirono anche che da solo nessuno ce l’avrebbe mai fatta. Occorreva stare insieme, essere comunità, essere oggetto e soggetto di solidarietà.

Il corteo preceduto dalla banda durante la celebrazione del 77° anniversario

Vedete, viviamo un tempo in cui domina la parola individuo, come se tutto si risolvesse nella competizione contro l’altro, come se ciascuno fosse separato da tutti gli altri. L’individuo è la solitudine sociale. La Costituzione nel suo articolo tre non parla di individui, ma di persone, e le persone sono per definizione donne e uomini che entrano in rapporto con altre persone. Viviamo un tempo dove siamo considerati principalmente consumatori, una società organizzata per consumare, dove tutto ruota attorno al valore delle merci e non della vita umana; ma la Costituzione non parla di consumatori, parla di cittadini. Viviamo un tempo in cui chi lavora viene definito capitale umano, come se fosse una merce, un conto in banca, un appartamento. Ma la Costituzione non parla di capitale umano. Parla di lavoratori. Non solo: la Costituzione conferisce alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

La Repubblica dunque non predica un’astratta libertà, un’astratta uguaglianza, un’astratta partecipazione, ma si impegna a rimuovere gli ostacoli che impediscano libertà, uguaglianza, partecipazione. Ecco, in queste sei parole – persona, cittadino, lavoratore, e libertà, uguaglianza, partecipazione – c’è l’anima della Costituzione, i cui germi nacquero proprio qui, nella foresta, o sulle montagne della Carnia, o in Valsesia, o in Val d’Ossola, o nelle pianure di Arrigo Boldrini o nelle città dei gappisti, ovunque un gruppo di uomini e donne iniziò a organizzarsi per essere liberi e liberati, si fece comunità fra uguali per respingere l’onda nera che voleva dominare il mondo, operò la scelta uscendo dalla zona grigia per opporsi alla società del lager e dell’odio.

E vinsero. Vinsero come i partigiani del Risorgimento, quel volgo disperso che nome non ha, quel volgo disperso che repente si desta di cui si parla nell’Adelchi del Manzoni. Ecco, quel volgo divenne popolo e ritrovò la Patria liberandola. Se si scorrono le lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana troverete in tantissimi casi poche parole, muoio per l’Italia, muoio per la Patria, assieme a altre parole, pace, libertà, giustizia sociale, amore. E forse in quelle parole e in quelle lettere c’è la vera, definitiva ed inappellabile condanna del fascismo che fu l’incarnazione dell’esatto contrario di quelle ultime testimonianze: guerra, oppressione, gerarchia, razzismo, odio.

L’8 settembre è l’inizio della rivolta che portò a riunificare l’Italia. Il 25 aprile 1945 fu la vittoria di quella rivolta. Il 2 giugno 1946 fu l’effetto di quella rivolta con la conquista della Repubblica. Il 1° gennaio 1948 fu il frutto, il dono di quella rivolta: la Costituzione. Ebbene, è proprio la Costituzione che ci restituisce integra la dimensione di quella Patria che era stata umiliata, offesa e sottomessa dallo Stato fascista e dai suoi provvedimenti. Quella Patria che aveva subito l’onta delle leggi razziali e lo sfregio di tante guerre d’aggressione: la Libia, l’Etiopia, la Spagna, l’Albania, la Francia, la Grecia, la Jugoslavia e, infine, l’Unione Sovietica con le sue catastrofiche conseguenze.

E la Patria della Costituzione si ritrova in ogni sua parola, in ogni suo articolo, in ogni suo valore. Ma a ben vedere si incarna laddove la Costituzione parla dell’Italia, e ciò avviene due sole volte, due sole: l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro; l’Italia ripudia la guerra. Ecco, in questi due articoli, l’art. 1 e l’art. 11, c’è l’essenziale, il fondamento, il senso della comunità, di territorio, di lingua, di cultura, di tradizioni, di volontà che riempie di contenuto la stessa parola Patria: il lavoro e la pace. E ci fa intendere che i confini della patria non sono le trincee oltre le quali si nasconde il nemico, ma sono i ponti che collegano il nostro popolo e la nostra patria ad altri popoli e altre patrie, come ci ha ricordato il messaggio della nostra organizzazione sorella slovena che è stato letto poco fa, e che nel piccolo mondo in cui viviamo siamo tutti umani, affratellati dalle sfide del tempo amaro che viviamo, come quella della pandemia e del riscaldamento globale. Concetti che ho ritrovato nell’enciclica “Fratelli tutti” e nella vocazione internazionalista della Resistenza.

Ho parlato dell’articolo 3 della Costituzione che ci consegna un Paese dove la Repubblica, per esempio, si impegna affinché si realizzi davvero l’eguaglianza. Dobbiamo prendere atto che oggi non è così. Ancora: si pensava che il 25 aprile 1945 sarebbe stato la rottura definitiva con la tragica esperienza nazifascista. Dobbiamo ancora prendere atto che oggi non è così. Nella drammatica situazione del Paese vediamo ripetersi, nelle forme più diverse, tentativi crescenti di riabilitazione e legittimazione del fascismo e di demonizzazione della Resistenza.

Crescono delle malepiante: il nazionalismo, il razzismo, più semplicemente l’odio verso l’altro, in un momento drammatico della vita del Paese quando stiamo fra Scilla della pandemia e Cariddi della crisi economica e quando tutto, persino la protesta contro i vaccini, viene infiltrato da avanzi di galera neofascisti che tentano di mettersi alla testa di questi movimenti. Proprio perché il momento è grave, occorre aprire una nuova fase della lotta democratica e antifascista dando vita a una grande offensiva sociale, politica, istituzionale, culturale, ideale che ci veda uniti per cambiare l’Italia. Un’offensiva che abbia come obiettivo l’integrale applicazione della Costituzione e la costruzione di un larghissimo fronte democratico unitario per sradicare la gramigna fascista, razzista e nazionalista, e perché libertà, uguaglianza, partecipazione, antifascismo diventino la grammatica della vita quotidiana e la pratica dei provvedimenti di chi ci governa. Ma ancora una volta, come i partigiani, noi non possiamo prendere, dobbiamo e vogliamo conquistare.

Così come nei 20 mesi dall’8 settembre al 25 aprile tante forze e culture differenti si unirono per sconfiggere il fascismo, così oggi c’è assoluto bisogno che tante forze e culture differenti, donne e uomini, giovani e anziani, meridionali e settentrionali, laici e religiosi, si uniscano per contrastare qualsiasi pericolo di degrado o peggio di collasso della democrazia. Democrazia: una parola che dobbiamo leggere non come un termine abusato e retorico, non come una stanca abitudine, ma come uno scrigno ricco di contenuti: nella democrazia c’è la libertà, l’uguaglianza, il lavoro, la solidarietà, la pace. Quello scrigno non è stato ancora del tutto aperto perché è esplosa la diseguaglianza, ci sono troppi disoccupati, troppi ragazzi emigrano, come gli italiani all’inizio del 900, è diffusa la povertà, è carente la solidarietà e abbiamo visto, e, ahimè, partecipato in questi decenni a troppe guerre. È ora di riaprire il manuale di istruzioni della democrazia e metterlo in pratica, quel manuale di 139 articoli che si chiama Costituzione della Repubblica.

Quell’8 settembre del 1943 – e finisco – fu l’inizio di un cammino terribile, pieno di dolore, durato 20 mesi. Il rastrellamento del Cansiglio fu un passo di quel cammino. Ma da quella gestazione, da quella nascita, da quel passo, da quei semi nacque l’Italia della pace e del lavoro.

Vedete, quando diciamo queste cose noi esercitiamo la memoria, perché parliamo di qualcosa che ci è stata raccontata o che abbiamo vissuto, che riguarda il passato. Ma se l’oggetto della memoria è sempre il passato, il soggetto della memoria – coloro che ricordano, noi qui ed ora, per esempio – è sempre al presente. Quella memoria del passato ci serve sempre per il presente, per capire e per agire nella nostra vita, nella vita vivente, e per avere una visione di futuro. Chi ignora, rimuove o stravolge il passato, vive un presente cieco. Ecco perché la memoria, anche questa memoria di Pian del Cansiglio, è un’arma formidabile per affrontare meglio quello che ho chiamato il tempo amaro che viviamo.

Oggi, 12 settembre 2021, nella fatica grave di questo tempo, raccogliamo il testimone degli eventi di 77 anni fa e diciamo a tutti che l’Italia rinascerà. Rinascerà se cambia, lasciando le fallimentari strade economico-sociali del passato, per essere giusta, uguale, pacifica, partecipata. Rinascerà, se davvero la Repubblica promuoverà le condizione che rendono effettivo il diritto al lavoro, come recita l’art. 4 della Costituzione. Rinascerà, se torneremo alle belle parole dell’articolo 3 della Costituzione: persona, cittadino, lavoratore. Rinascerà, se butteremo finalmente nella pattumiera della storia la mela avvelenata del fascismo e del suo caravanserraglio di protesi come il razzismo, il nazionalismo, l’odio verso l’altro, specie se è povero. Rinascerà, se conserveremo la memoria della lotta partigiana e dei suoi martiri, come i 480 della Divisione Nannetti che onoriamo oggi, come Giovanni Girardini, comandante partigiano, 22 anni, impiccato dei nazifascisti a Camin di Oderzo – pensate – proprio oggi, il 12 settembre di tanti anni fa. Rinascerà se conserveremo la memoria dei militari Martiri di Cefalonia e delle tante Cefalonia spesso poco conosciute di quel tragico tempo, e con loro il sacrificio dei 600mila internati militari italiani – gli Imi – che si rifiutarono in massima parte di servire la repubblica di Salò, e con loro ancora le migliaia di carabinieri deportati. Rinascerà se conserveremo la memoria degli antifascisti assassinati, perseguitati, arrestati o confinati nel ventennio, come quelli di Ventotene. Rinascerà se continueremo ad assumere questa memoria come fondamento storico, civile e morale dell’essere italiani ed europei.

Rinascerà, in due parole, se saremo popolo unito.

Viva la Resistenza, viva le partigiane e i partigiani, viva l’Italia!

Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale Anpi