La professoressa Marta Verginella
La professoressa Marta Verginella

Nell’intervista che segue torniamo a parlare con la professoressa Marta Verginella (Università di Lubiana) dei temi e dei quesiti suscitati dalla relazione con cui ha introdotto il seminario recentemente promosso dall’ANPI “La drammatica vicenda dei confini orientali” (Milano, 16 gennaio).

Queste, le questioni centrali: la necessità di andare oltre la dimensione nazionale ed etnocentrica, tuttora prevalente nella storiografia di confine, anche  per il profilo  terminologico (così da indurci a preferire, per il futuro, l’espressione “frontiera italo-slovena” a quelle che, come “confine orientale” assumono comunque un punto di vista nazionalmente determinato) in direzione di una ricostruzione storica che assuma in pieno la dimensione della complessità di una zona plurietnica e plurilinguistica come l’area alto adriatica; l’intento di scongiurare il rischio che un’ipertrofia della dimensione memoriale, offuscando l’aspetto documentale della ricerca, possa perpetrare rimozioni e lacune nella ricostruzione storica della guerra, della Resistenza e del dopoguerra in quell’area, rivelatesi, il più delle volte, funzionali a determinate opzioni politiche, da parte sia italiana che slovena;  l’avvio o la prosecuzione di ricerche che indaghino sulle vittime e sui carnefici delle foibe, restituendo lo spessore storico di episodi efferati, che affondano le loro radici nell’occupazione ed annessione italiana a conclusione della prima guerra mondiale e nelle politiche di snazionalizzazione del fascismo, oltre a rappresentare uno dei tragici effetti del processo di trasformazione del movimento di liberazione sloveno in regime; e infine, l’istanza di verità che si esprime in ogni ricerca che sia intenzionata realmente a fare i conti con il passato, senza le dimenticanze e le reticenze di cui si alimenta una ricostruzione parziale e fuorviante di vicende storiche di eccezionale complessità. 

Nella relazione generale che ha introdotto il Seminario promosso dall’ANPI il 16 gennaio scorso, lei ha affermato che “nel fare storia in molti casi a prevalere è la concezione storiografica dello Stato-nazione, tipica per il mondo occidentale, così poco adatta alla storia delle aree multietniche”. Come si è manifestata, sia nella storiografia italiana sia nella storiografia slovena, questa visione nazionale, con riferimento in particolare alla vicenda delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata?

L’ottica di leggere gli eventi del passato attraverso la lente nazionale si è imposta nella seconda metà dell’Ottocento ed è rimasta dominante fino ai giorni nostri. La storiografia di confine, sia da parte italiana che da parte slovena e croata, si è concentrata sulla storia della propria comunità nazionale, ha ripercorso le tappe dell’ascesa nazionale, le opposizioni ad essa e è concentrata sulla persecuzione subita e le tragiche conseguenze di essa. La storia degli altri, della comunità nazionale limitrofa, è rimasta a lungo estranea a questo canone, e l’impostazione prevalente ha preferito una visione etnocentrica. Le tensioni, i conflitti, i morti, le vendette avvenuti in questo territorio di frontiera nel corso del Novecento non possono venire spiegate solo con l’amore per la patria ma innanzitutto con le logiche di dominio perseguite dapprima dal fascismo, poi da tutte le forze coinvolte nella guerra e in seguito anche dai poteri popolari jugoslavi. Se non si riesce a leggere la storia del confine italo-sloveno nella sua complessità si produce una narrazione parziale, monca e soprattutto vittimistica, edificante però da un punto di vista nazionale. Mettere in luce solo le vicende delle foibe e dell’esodo significa far calare un velo di silenzio su più di due decenni di violenze fasciste subite dalla popolazione slovena e croata e dagli antifascisti in generale, tacere sull’occupazione nazista e il collaborazionismo ecc. Nelle ex repubbliche jugoslave e più in generale nell’area balcanica, dove i confini delle nazioni non corrispondono con quelli degli Stati, la Commissione europea si è spesa molto dagli anni Novanta in poi per far riscrivere la storia in modo inclusivo. Conoscere la storia dei vicini della porta accanto significa assumere una visione più completa ed oggettiva anche della propria.

La filosofa Hanna Harendt (da http://www.vieusseux.it/uploads/images/eventi/hannah_arendt.jpg)
La filosofa Hanna Harendt (da http://www.vieusseux.it/uploads/images/eventi/hannah_arendt.jpg)

Sembra che nei primi anni del secolo, nella ricostruzione degli eventi compresi tra il 1943 e il 1945 e del dopoguerra, sia prevalsa, come lei scrive, una tendenza a privilegiare un piano memoriale che “preferisce le emozioni rispetto al ragionamento degli storici, amplifica la testimonianza a scapito delle ricostruzioni storiografiche, ricerca la passione e ha difficoltà ad accettare le prove documentarie” con la conseguente imposizione del paradigma vittimario che ha innescato la competizione tra le vittime. A suo parere, sussistono oggi le condizioni per un’inversione di tendenza, che ripristini un rapporto più equilibrato tra pratiche memoriali e ricerca storica? In quali direzioni dovrebbe muoversi la ricerca storica per perseguire questo obiettivo?

Si tratta di una tendenza più generale che riscontriamo in varie parti dell’Europa, a Ovest e ad Est. Nell’uso pubblico della storia attuale il testimone sta sostituendo spesso lo storico e il piano memoriale l’analisi storiografica. La memoria è un ingrediente fondamentale della storia. Tuttavia la sua amplificazione dimostra fra l’altro come si sta imponendo in questi ultimi anni nella società un rapporto sempre più emotivo con il recente passato. Dopo decenni in cui hanno trovato spazio pubblico gli eroi antifascisti e partigiani della seconda guerra mondiale ora sembra che ci sia spazio solo per le vittime, deportati, internati, vittime della violenza comunista nell’Est. L’inversione nelle pratiche di memorie ha messo in luce vuoti storiografici, mancanti storicizzazioni, ma anche la tensione che si attua tra passato e presente e soprattutto tra necessità politiche e adesioni storiografiche. Hannah Arendt riflettendo sul rapporto tra la politica e la verità ha messo bene in luce il bisogno che i politici hanno di radicarsi nel passato per crearsi una nuova genealogia servendosi della storia. Di fronte ai bisogni che la politica ha di riscrivere la storia, la risposta della storiografia deve essere la ricerca a tutto campo, capace di ricostruire la complessità del passato e la diversità degli attori storici.

Un’immagine dal campo d’internamento italiano per civili sloveni e croati ad Arbe, caratterizzato dall’altissimo tasso di mortalità fra gli internati (wikipedia)

Sempre nella relazione generale, lei ha fatto riferimento al testo della Commissione storica italo-slovena del 1993, che propone, tra l’altro, un giudizio articolato sulle cause e sulle motivazioni soggettive delle azioni di repressione condotte dal movimento di liberazione sloveno al termine della guerra. Sul tema delle foibe, nella relazione di Roberto Spazzali si è sottolineata in particolare l’esigenza di evitare fuorvianti generalizzazioni e si è raccomandato di concentrare l’attenzione sulle biografie delle vittime e dei carnefici. Può essere questo un tema di approfondimento valido, anche al fine di un superamento della logica della “competizione tra le vittime”?

Concordo con Roberto Spazzali, anche perché da tanto tempo sostengo che la storiografia che indaga il fenomeno delle foibe dovrebbe estendere l’analisi al contesto, all’origine della violenza e ai suoi protagonisti. La mancanza di fonti, la scarsa disponibilità di fondi archivisti riguardanti gli eccidi hanno ostacolato questo tipo di ricostruzione. Tuttavia non si tratta solo di scarsità dei dati, ma di un’indagine che non è stata fatta a tutto campo. Gli eccidi, le violenze sommarie vanno inquadrate e studiate nel contesto della guerra e della sua fine, tenendo conto delle scelte ideologiche, logiche di classe, percorsi biografici, dinamiche comunitarie e parentali dei protagonisti, carnefici e vittime. Spiegare i morti infoibati soltanto con l’odio nazionale o come pulizia etnica è il più delle volte fuorviante, anche se oggi come in passato può risultare politicamente efficace. Intraprendere un percorso di ricerca sulle fonti scritte e orali è un’operazione ben più difficile e politicamente assai meno proficua. Lo è anche in Slovenia dove sono stati raccolti i dati nominativi delle migliaia e migliaia di vittime del dopoguerra, ma dove ben poco si sa sul contesto del collaborazionismo sloveno e sulla pratiche di violenza attuate durante la guerra e proseguite anche dopo la sua fine.

Resto del CarlinoNella introduzione alla tavola rotonda, Marcello Flores ha richiamato l’esperienza della Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione, come esempio di una pratica storiografica e politica “virtuosa”, basata sul principio che nessuna convenienza politica debba contrapporsi alla ricerca della verità, tema ripreso anche dal presidente dell’ANPI, Carlo Smuraglia, nelle sue considerazioni conclusive. Rileggendo in quest’ottica la sua relazione, si può affermare che per una storiografia orientata in questa direzione occorre superare il punto di vista nazionale e muoversi verso un approccio “transfrontaliero” che coinvolga storici italiani, sloveni, croati ed austriaci in una dimensione di ricerca comune? Quali iniziative possono essere intraprese in tal senso?

È interessante notare come un esempio positivo come quello della Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione ha avuto così poca eco in Europa e soprattutto in quella dell’Est durante la sua transizione democratica, quando maggiore era la necessità di fare i conti con il proprio passato. In Slovenia dove le vicende della Seconda guerra mondiale continuano ad essere al centro di un forte uso politico della storia la proposta fatta da una ricercatrice slovena sul quotidiano Dnevnik di costituire una Commissione simile a quella sudafricana è passata in completo silenzio. Politicamente più allettante è lo spauracchio della lustracija, di un processo politico con l’obiettivo di escludere dalla vita politica di tutti coloro che hanno collaborato con il regime passato. Processo che viene annunciato ma mai realizzato, perché i suoi stessi promotori non hanno passati limpidi. Mantenere aperte le ferite di un recente passato fa comodo alla politica che specula sul passato, ma che soprattutto non è capace di uscire da una posizione di estrema debolezza.

Ndr: vedi sull’argomento anche http://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/servizi/la-giornata-del-ricordo-e-la-tormentata-storia-di-un-confine/