A Roma si è tenuta una manifestazione in Campidoglio, si sono levate molte voci dalla società civile italiana ed europea, oltre a partiti e istituzioni a sostegno della Casa internazionale delle Donne, a rischio sfratto. Tra queste anche quella dell’Udi. Cosa sta accadendo?

Si sta provando a cancellare uno spazio che racconta, testimonia e rappresenta i risultati di battaglie importantissime portate avanti per decenni. L’Udi nazionale non fa parte del Consorzio delle associazioni che ha sede nel Palazzo del Buon Pastore, alla Lungara; tra le oltre 40 associazioni che lo compongono c’è l’Udi romana “La Goccia”, che ha il suo archivio, insieme a quello dell’ex Udi provinciale, ad Archivia. Archivia, insieme all’Archivio centrale dell’Udi, sempre al Buon Pastore, è il più grande polo archivistico d’Europa delle donne. Il luogo stesso è un simbolo e un punto di riferimento plurale oltre che una risorsa per la città di Roma.

Cosa rappresenta il Palazzo del Buon Pastore?

Il Buon Pastore è un complesso del Seicento ed è stato contemporaneamente un convento di clausura delle suore e una prigione per le donne di Roma, il primo carcere femminile dello stato papalino, vi furono rinchiuse anche donne accusate di reati contro la moralità e la fede. Ci sono voluti secoli perché il protagonismo politico delle donne, soprattutto negli anni 70, chiedesse di avere una struttura dove la soggettività politica delle donne si potesse esprimere. Quel luogo prima è stata la ex pretura, palazzo Nardini, un immobile del 400 a via del Governo Vecchio, dietro piazza Navona. L’edificio però era in pessime condizioni e così c’è stata la richiesta di trasferirsi. Venne affidata al Movimento neofemminista una parte del Buon Pastore, dopodiché le suore che l’avevano venduta al Comune nel 1946 tornarono ad avanzare delle pretese perché nello stabile c’era ancora una cappella non sconsacrata. Insomma le donne di Roma, per avere uno spazio adeguato lo dovettero occupare per diversi anni. Al loro fianco c’erano anche le donne dell’Udi che pure avevano una storia e una sede propria. Finalmente nel 2001, con la giunta Rutelli, si stipulò un contratto regolare con le donne del movimento. Che si impegnarono in una impresa pazzesca: rispondere di tutta la manutenzione ordinaria e straordinaria di un palazzo tanto antico. E al contempo promuovevano iniziative politiche, volontarie e gratuite, e costruivano servizi culturali, attività contro la violenza sulle donne, per esempio. Oggi la Casa internazionale delle Donne è la rappresentazione emblematica che Roma è la capitale politica delle donne, il cuore pulsante di un movimento che è stato tra i più grandi d’Europa, riconosciuto a livello internazionale.

Anche l’Udi ha una storia imponente.

Certo. E sceglieva di manifestare a Roma perché la città è la capitale del Paese. Fin dagli anni 50 e 60, fin dalle le campagne per il salario alle casalinghe, la riforma della scuola, gli asili nido, per la riforma del diritto di famiglia, il divorzio, manifestava a Roma sia perché, appunto, è la capitale italiana sia perché le donne romane durante la Resistenza hanno svolto un ruolo fondamentale nella lotta contro l’occupazione nazifascista e al contempo per il miglioramento della vita e della civiltà di tutti, donne e uomini.

Secondo il Comune di Roma, la Casa è in arretrato con l’affitto. È così?

L’affitto è sempre stato molto oneroso, anche Rutelli aveva a cuore la legalità e non voleva neppure mostrare favoritismi particolari. E tutte le giunte successive hanno tentato di mantenere lo stesso profilo, fino ad arrivare alle giunte di centrodestra. Il debito si è accumulato sia per il canone eccessivo sia perché è sempre stato gravoso e faticoso mantenere i servizi. Il Giardino per esempio, l’ex chiostro del Buon Pastore, va preservato dalle erbacce per poter ospitare spettacoli, mostre, rassegne. Ed è impossibile mantenerne intatta la qualità, oltre a fornire i servizi. Le entrate sono solo quelle delle volontarie e in più le donne che vi lavorano sono tutte regolarmente assunte. Esiste anche un Ostello, un servizio formidabile di ospitalità per le donne italiane ed europee. L’unico luogo dove una donna può andare senza rischiare nulla, senza essere molestata. Già da tempo si era aperta una discussione con le giunte precedenti la Raggi per scorporare almeno le spese vive di gestione, arrivare a un debito più sostenibile, che si voleva e si vuol pagare, e soprattutto un contratto di locazione sostenibile. C’è perfino chi sostiene che con la legge del Terzo settore si potrebbe arrivare a una concessione gratuita, ma le donne della Casa sono responsabili e stanno lavorando a una soluzione mediata. Anche l’Udi, pur avendo un diverso contratto col Comune di Roma, e che prima di trasferirsi al Buon Pastore, cioè quest’anno, ha sempre pagato regolarmente gli affitti, è ugualmente “sotto osservazione”. Insomma, la mozione presentata in Consiglio comunale sulla Casa è ferocemente insensibile, ci fa capire che forse il problema non è solo economico. 

Ci può spiegare meglio?

Forse si considera la Casa internazionale il simbolo del “femminismo ruggente”, quello dei collettivi di autocoscienza delle donne, delle lotte per il Servizio Sanitario Nazionale, dei consultori, dunque archeologia politica, un capitolo di storia da liquidare. Alle donne e agli uomini che hanno presentato e sostenuto quel documento in Aula consiliare manca la conoscenza e la consapevolezza di ciò che le donne hanno realizzato in città. Invece dovrebbe riconoscere l’esistenza di un grande credito, non solo di un debito, nei confronti dell’esperienza della Casa e arrivare a soluzioni condivise. Nel 70° della Costituzione, si dovrebbe essere grati alle donne per il lavoro compiuto durante la lotta di Liberazione e nell’Assemblea costituente e in tutti i decenni successivi. Quelle donne dovrebbero essere un punto di riferimento da far conoscere a tutta la società italiana, altro che farle passare per “parassite” di una città tutta in regola.

Come si possono contrastare in tutto il Paese, i casi di femminicidio, ripetutamente raccontati dalla cronaca?

Il femminicidio è una dimensione di cui si parla molto e anche a sproposito, penso al Movimento per la vita che la usa per contrastare la legge 194, cioè le “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. Il femminicidio e la violenza contro le donne, in tutte le sue forme, è una dimensione storica secolare e strutturale. La legge di iniziativa popolare era nata addirittura quando la sede della casa delle Donne era in via del Governo Vecchio grazie al Movimento di Liberazione delle Donne (Mld), al Movimento Femminista Romano (Mfr) e all’Udi all’indomani della strage del Circeo. C’è però voluto tantissimo tempo perché la società ne prendesse coscienza. Intanto le donne hanno continuato a lavorare, costruito proposte legislative per cambiare il Codice Rocco, proposto e realizzato strutture per aiutare le donne che subivano violenza in famiglia e fuori la famiglia. Non dobbiamo ricordare solo Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, in quegli anni altri omicidi attraversarono in modo feroce la cronaca politica italiana degli anni 70. E poi basti pensare alle nuove rivelazioni di Angelo Izzo. Oggi assistiamo a un salto ancora peggiore: femmiicidi e figlicidi, ragazze uccise dai padri, mariti, fidanzati: il caso Filippone, quello a Cisterna di Latina o negli ultimi 10 anni, rammento il caso di Federico Barakat, ucciso dal padre a soli 8 anni nel 2009 mentre si trovava in una stanza dei servizi sociali del Comune di San Donato Milanese. Abbiamo combattuto moltissimo per avere delle leggi. La stessa giunta Raggi dice di volere l’applicazione della Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne e per operare per contrastare i femminicidi e di realizzare delle strutture idonee. Ecco, i primi servizi in tutta Italia sono stati fatti a Roma, in assoluto il primo centro antiviolenza italiano – come assistenza legale alle donne vittime di violenza – è nato a Roma al governo Vecchio e poi al Buon Pastore. In seguito c’è stato il Tribunale 8 marzo dell’Udi da cui è nato Telefono Rosa. Il Lazio ha avuto la prima legge regionale che sosteneva i centri antiviolenza, in accordo con l’allora Comune di Roma, e si aprì il Centro provinciale Monteverde. Oggi, il Comune di Roma si dovrebbe preoccupare – argomento al centro del dibattito in Consiglio comunale – di conoscere e rafforzare la rete esistente, non crearne un’altra in contrapposizione o procedere a una sorta di commissariamento del Buon Pastore. Le associazioni che si occupano di violenza sulle donne sono tutte in connessione fra di loro e in connessione con la Casa internazionale. Il problema non è sovrapporsi o commissariare il Buon Pastore per rafforzare la rete, piuttosto il Comune e la giunta diano il contributo che in questi anni è mancato. La Casa è un fiore all’occhiello a cui guardano tante realtà di donne all’estero.

Manifestazione di gioia in Irlanda dopo l’esito del referendum sulla legalizzazione dell’aborto (da https://www.agi.it/estero/irlanda_referendum_ aborto_nuova_legge-3954444/news/2018-05-27/)

In Irlanda, ha vinto il sì alla depenalizzazione dell’aborto.

Una vittoria schiacciante nel referendum su un articolo inserito della loro Costituzione nel 1983. Le donne hanno espugnato una roccaforte del maschilismo e dell’ipocrisia. È una vittoria dell’autodeterminazione delle donne, sul loro corpo e la loro fertilità ed anche una vittoria contro l’ipocrisia. Le donne irlandesi erano costrette a recarsi all’estero per interrompere una gravidanza. L’interruzione volontaria era proibita per ragioni politiche e religiose. La decisione irlandese è una conquista per le donne e gli uomini di tutta Europa: la maternità come destino e non come scelta ha fatto il suo tempo. Ricordo l’Italia degli anni 70, il cuore della battaglia sul tema, quando la parola d’ordine dell’Udi era “contraccezione per non abortire e aborto legale per non morire”. E come donne non abbiamo mai potuto abbassare la vigilanza sul rispetto della legge 194, basti pensare che “i grandi difensori della vita” si guardano bene dal fare contraccezione, soprattutto quando sono obiettori nelle strutture ospedaliere. Ricordo che la Casa, solo una manciata di anni fa, è stata il cuore, insieme all’Udi e altri collettivi che hanno sede altrove, della lotta per bloccare la proposta di legge regionale Tarsia e Rauti, un progetto di federalismo eversivo: i consultori dovevano trasformarsi in luoghi di dissuasione per l’interruzione di gravidanza e divenire centri per la famiglia. Quale famiglia? Nella Casa ci sono centri che si occupano di diritto alla maternità e di asili nido; al contrario tutti coloro che parlano di vita solo in astratto e ostacolano il diritto di farsi una famiglia, quando si la vuole e come si la vuole.

Le nuove generazioni di donne frequentano la Casa?

Sono tantissime le ragazze che partecipano alle decine e decine di iniziative culturali promosse. E di cultura pedagogica, democratica, progressista e inclusiva c’è molto bisogno. Basti pensare agli attacchi violenti di questi giorni sui social contro il Presidente della Repubblica. Noi adulti, la scuola e i media che messaggio abbiamo veicolato? Abbiamo trasmesso un comportamento civile, rispettoso, curioso, attento e rispettoso dell’altro? L’Udi con Archivia conserva materiali e documenti di oltre 73 anni di storia delle donne e non solo: la nostra storia infatti comincia con i Gruppi di Difesa della Donna. E per esempio, lavorando sul Pioniere – si tratta del periodo dal ’52 al ’73 – è stato scoperto il progetto di Gianni Rodari, Giulia Mafai, Dina Rinaldi, tra gli altri, per una pedagogia inclusiva, democratica e progressista dedicata ai bambini delle elementari e dei ragazzi delle scuole medie: un tentativo osteggiato negli anni 50 perché ritenuto “eversivo” e “pedofilo”.

Avete altre iniziative culturali in cantiere?

Stiamo realizzando un lavoro complesso: la digitalizzazione dei manifesti dei Gruppi Difesa della Donna, del giornale Noi donne clandestino, e di tutti gli anni successivi fino ad oggi. Abbiamo completato la digitalizzazione di 700 manifesti, ne restano da proteggere altri 800. Inoltre stiamo per pubblicare un libro “Le madri della Costituente”, ricostruendo la vicenda antifascista di tutte e 21 le donne elette nel 1946, raccontando come arrivarono a partecipare ai lavori della Costituente. Erano donne appartenenti a diverse tradizioni politiche ed esperienze umane, democristiane, socialiste, comuniste, donne differenti l’una dall’altra ma tutte profondamente democratiche.