Si è spento nella sua casa di Correggio, all’età di 100 anni, Germano Nicolini, il comandante partigiano “Diavolo”. Tra i protagonisti della resistenza reggiana, era stato accusato ingiustamente dell’omicidio di don Umberto Pessina, avvenuto a S. Martino di Correggio nel 1946, e condannato a 22 anni di carcere, scontandone 10 effettivi.
Nicolini era nato a Fabbrico da una famiglia contadina; di formazione cattolica, conseguì il diploma in ragioneria e divenne ufficiale dell’Esercito italiano. Fatto prigioniero l’8 settembre 1943 dai tedeschi nei pressi di Tivoli, riuscì a darsi alla fuga e a rientrare in Emilia, dove aderì alla Resistenza diventando comandante di battaglione. Durante questo periodo fu soprannominato “Diavolo” perché, protagonista di una rocambolesca fuga dai tedeschi, una donna che aveva assistito alla scena disse: “col lè l’e’ un dievel”.
Durante la Resistenza partecipò a diversi scontri a fuoco e alle due storiche battaglie in campo aperto contro i nazifascisti a Fabbrico e a Fosdondo, riportando ferite in due occasioni. Dopo la Liberazione venne nominato comandante della piazza di Correggio, ove si distinse per l’equilibrio dimostrato anche con la difesa di prigionieri fascisti, impedendo tentativi di giustizia sommaria.
Segretario dell’Anpi di Correggio nel primo dopoguerra, aprì la mensa del reduce sia ai partigiani sia agli ex fascisti che non si erano macchiati di crimini. Alle elezioni amministrative del marzo 1946 fu eletto in Consiglio comunale con la lista del Pci e nel dicembre venne eletto sindaco, ricevendo anche i voti di tre consiglieri dell’opposizione democristiana, nonostante il periodo di grandi tensioni politiche. Fondendo gli ideali comunisti con quelli cattolici, si impegnò principalmente per la popolazione più bisognosa e per il reinserimento degli ex combattenti.
L’assassinio di Umberto Pessina
Il 18 giugno 1946 nei pressi della chiesa di San Martino Piccolo, una frazione di Correggio, venne ucciso con due colpi di pistola don Umberto Pessina. Dopo due arresti, poi revocati, vennero accusati del delitto tre partigiani, Germano Nicolini, Ello Ferretti e Antonio Prodi, arrestati nel 1947. I sospetti si concentrarono su Nicolini a seguito della testimonianza di una donna, spinta dal parroco di Correggio con la promessa di una ricompensa.
I veri responsabili erano, invece, Cesarino Catellani, Ero Righi e William Gaiti, anch’essi partigiani. Catellani e Righi, nel gennaio 1948, dopo essere fuggiti in Jugoslavia confessarono spontaneamente il crimine commesso per errore, avendo ricevuto il mandato solo di sorvegliare la canonica e di riferire quanto accadeva. Non furono però creduti, la loro testimonianza fu considerata come un tentativo di salvare il sindaco di Correggio, e vennero condannati per autocalunnia.
Il testimone chiave dell’accusa, Antenore Valla, ribadì anche al processo la colpevolezza di Prodi e Ferretti e del mandante Nicolini. Successivamente ammise che le proprie dichiarazioni gli erano state estorte dai carabinieri sotto tortura: il capitano dei carabinieri Pasquale Vesce, incaricato delle indagini, era ispirato dal fervore anticomunista e antipartigiano del vescovo Socche, al punto da ottenere un’onorificenza, la Commenda Pontificia, ed essere successivamente promosso Generale.
Non venne dato alcun valore a quanti testimoniarono che Nicolini, nelle ore del delitto, giocava a bocce in paese e tanto meno alle sue argomentate dichiarazioni di innocenza. Il 27 febbraio 1949 la Corte d’assise di Perugia lo condannò, come mandante di omicidio volontario premeditato, a 22 anni di carcere e alla perdita di ogni diritto civile e militare: ne scontò effettivamente dieci. Inutilmente Nicolini cercò negli anni successivi di dimostrare la sua innocenza.
Nel 1990 il caso venne riaperto a seguito di un convegno del Psi e di alcune interviste contenenti diverse rivelazioni. La più nota fu rilasciata dall’onorevole comunista Otello Montanari, “chi sa parli”, con cui invitava chiunque avesse informazioni sui delitti avvenuti nell’immediato dopoguerra a rompere il silenzio che da oltre 50 anni gravava su quelle vicende.
Un testimone già più volte citato all’epoca del delitto, William Gaiti, nel settembre 1991, confessò di aver preso parte all’omicidio insieme a Catellani e Righi. Ferretti, Prodi e Nicolini, l’8 giugno 1994, furono definitivamente “assolti per non aver commesso il fatto” nel processo di revisione tenuto dalla Corte d’appello di Perugia. I responsabili dell’omicidio rimasero liberi e furono prosciolti in applicazione dell’amnistia emanata dal governo Pella nel 1953 per i reati politici commessi nel dopoguerra italiano fino al giugno del 1948.
Il processo
Il primo processo si svolse a Perugia nel 1947, spostato dalla sua sede naturale, Reggio Emilia, per legittima suspicione dopo le pressioni del vescovo di Reggio. Varie e mutevoli furono le versioni di accusa. Nicolini venne accusato di essere dapprima esecutore materiale del delitto, e poi il mandante. Diverse anomalie caratterizzarono il procedimento: interferenze esterne sui magistrati; scomparsa di verbali; palesi contraddizioni; falsità; tante amnesie e reticenze di alcuni testimoni dell’accusa come pure l’insabbiamento di prove fondamentali. Tutti questi fatti influenzarono fortemente la sentenza.
Le diverse anomalie che caratterizzarono il processo furono, in gran parte, pubblicate nel memoriale di Nicolini del 1993, significativamente intitolato Nessuno vuole la verità. Nel memoriale furono evidenziate le pesanti influenze del vescovo Socche e la proposta del Partito comunista di espatriare clandestinamente in Cecoslovacchia. Nicolini rifiutò sdegnosamente: ciò lo portò in carcere e, scontata la pena, il restare ai margini dell’attività politica. Una situazione che lui stesso durante la revisione del processo, nel 1994 presso la Corte d’appello di Perugia, definì “lo stalinismo aberrante del Pci”.
Il verdetto dei giudici ribaltò le precedenti sentenze di condanna con queste motivazioni: «la Corte ritiene, in conformità a quanto sostenuto dalla difesa del Nicolini, che una serie di fattori – indagini di polizia giudiziaria condotte con metodi non del tutto ortodossi, le lacune e insufficienze istruttorie, una sorta di “ragion di Stato di partito” che ebbe ad ispirare il comportamento di alcuni uomini del Pci, una pressante quanto legittima domanda di giustizia da parte del clero locale estrinsecatasi però in iniziative al limite dell’interferenza, interventi di autorità non istituzionali e comunque processualmente non competenti – abbiano fatto sì che la legittima esigenza di individuare e punire gli autori del grave quanto gratuito fatto di sangue si risolvesse, oggettivamente, in una sorta di ricerca del colpevole a tutti i costi, dando luogo ad un grave errore giudiziario, al quale la Corte ha ritenuto ora di dove porre riparo assolvendo ampiamente gli imputati e restituendoli alla loro dignità di innocenti». Una diversa verità venne così affermata anche nelle aule giudiziarie.
Nel marzo 1997 venne accettata la proposta avanzata nel primissimo dopoguerra di conferire a Germano Nicolini la Medaglia d’Argento al Valore Militare per l’attività partigiana, ed inoltre egli ottenne, nuovamente, i gradi di capitano dell’esercito che gli erano stati revocati dopo la condanna del 1949.
Tra le ultime sue uscite pubbliche vi è quella del 25 aprile 2017, aveva 97 anni, nella quale partecipò a Carpi alla cerimonia del 72º anniversario della Liberazione, con un appassionato intervento dal palco del teatro comunale alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Il memoriale
Nicolini scrisse il suo memoriale per rivendicare, di fronte al mondo intero, la propria dignità ed il proprio onore personale dopo quasi un quarantennio nel quale aveva cercato in tutti i modi, ma invano, di richiamare l’attenzione sul dramma vissuto. In quel memoriale ribadiva che aveva scontato dieci anni di carcere per un delitto non commesso; che i nomi dei veri responsabili erano sulla bocca di tutti i correggesi, della polizia e dei magistrati, ma tutti facevano finta di non sapere e di non sentire. Nicolini non si arrese.
Era stato accusato di un delitto infamante e un innocente non può rinunciare a battersi solo perché sono trascorsi tanti anni dai i fatti. Egli affermava in ogni occasione di tenere al suo onore di comunista “pulito” dalla fede cristallinamente democratica.
La ragione del memoriale era anche quella di ribadire che prima, durante e dopo la Liberazione aveva sempre agito nel rispetto più assoluto dei principi etici a cui era stato educato: la sacralità della vita dell’uomo, il disinteresse personale, il senso del dovere, l’onestà e la lealtà. Al contrario nella prima sentenza era stato dipinto come un despota sanguinario. Spiegava come l’accusa infamante e la condanna erano frutto di malafede e non si trattava affatto di un mero errore giudiziario.
Nella complessità del momento storico che viveva il Paese nessuno voleva la verità sul delitto Pessina. E la rabbia, legittima per un innocente, non significava odio, sentimento che il tempo, la famiglia, il lavoro e la luce della ragione avevano aiutato a cancellare dal suo animo.
Con Germano Nicolini se ne è andato un combattente, un democratico, un grande amico dell’Anpi che ha fatto del rigore e della coerenza i capisaldi della sua vita.
Ermete Fiaccadori, presidente Comitato provinciale Anpi Reggio Emilia
Pubblicato giovedì 12 Novembre 2020
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