Centinaia di auto transitano quotidianamente sul ponte sopra il canale Cagnola, lungo la strada provinciale che porta da Conselve a Padova. Il traffico non permette purtroppo che si noti, se non di sfuggita, la presenza di due piccole lapidi che si trovano, per chi transita verso Conselve, sulle colonnine di destra del ponte. Queste sono state poste nel 1945 per ricordare il barbaro omicidio dei due antifascisti Gino Luisari e dell’avvocato Italo Cavalli avvenuto nella notte tra il 28 ed il 29 giugno del 1944. Nella stessa notte per le vie di Padova furono rinvenuti i cadaveri del professor Mario Todesco e di Alfio Marangoni, collaboratore quest’ultimo del Cavalli. In città era appena avvenuto l’avvicendamento tra il federale Secondo Polazzo, ben visto dallo stesso Cln per le sue doti di moderatore, e il suo successore Pizzirani, sostenuto invece dai peggiori elementi dello squadrismo padovano, come i fratelli Allegro (Nello e Alfredo) e Francesco Toderini. I quattro omicidi erano stati un chiaro segnale per avvertire tutti che la fazione più violenta del fascismo aveva preso il sopravvento.
Un proletario e un borghese
La diversa estrazione sociale di Luisari e Cavalli sembra un po’ rispecchiare il carattere interclassista della Resistenza. Il primo nacque ad Ariano Ferrarese – frazione del Comune di Mesola – nel 1892. Figlio di contadini, si iscrisse al Partito socialista quando aveva solo 14 anni, dimostrando subito un carattere battagliero. Dopo il Primo conflitto mondiale si dedicò con grande impegno all’organizzazione bracciantile, divenendo uno dei principali dirigenti sindacali della Camera del lavoro di Ferrara e Rovigo. Cavalli invece, nato a Bassano sempre nel 1892, era figlio di Antonio, segretario capo della Procura di Padova e della Corte di Cassazione di Venezia. Convinto sostenitore delle idee di Mazzini e ammiratore di Benedetto Croce, durante il Primo conflitto mondiale era stato decorato con medaglia di bronzo al valor militare per un’azione compiuta sul Piccolo Lagazuoi tra il 23 e il 24 luglio 1916, durante la quale era stato ferito alla spalla destra.
Nel 1923 lasciò la professione forense e assunse l’amministrazione dei beni di Maria Margherita Masiero e del figlio Orazio Centanin, famiglia quest’ultima di ricchi latifondisti. Contemporaneamente riuscì a costruirsi una fortuna grazie allo sfruttamento di un brevetto industriale – si trattava di chimica avanzata – messo a punto dal prof. Carrara, un suo cugino più anziano. Balzò anche agli onori delle cronache per aver dato cospicui finanziamenti allo sport padovano, in primis al Calcio Padova (di cui fu vicepresidente) e al Rugby Padova, che fondò lui stesso finanziando di tasca propria anche la partecipazione a tornei internazionali.
Le persecuzioni fasciste
Gino Luisari, assunta la direzione della cooperativa di consumo di Ariano occupò nell’ottobre del 1920 i terreni di un agrario locale con l’intento di darli in affitto ad alcune famiglie di braccianti. I Carabinieri intervennero senza tanti riguardi sparando addosso agli occupanti, riducendone uno in fin di vita. Luisari per questo episodio dovette affrontare ben due processi con accuse del tutto pretestuose (estorsione e violenza privata), risultando in entrambi i casi assolto. Nel frattempo in provincia di Ferrara il clima era drasticamente cambiato: le squadre fasciste infatti, finanziate dai proprietari terrieri, iniziarono a seminare morte e terrore ai danni di leghe e cooperative rosse. Luisari, finito inevitabilmente nel mirino, dovette perciò fuggire da Ariano e nel luglio del 1922 prese dimora a Milano assieme alla moglie Cleonice. Nel 1934 emigrò a Padova vivendo di lavori saltuari: impiegato in una ditta di legname, venditore ambulante, impiegato nello zuccherificio di Pontelongo, lavori intervallati da lunghi periodi di disoccupazione. Su di lui la Polizia aveva tessuto una fitta sorveglianza, dimostrata dalla corrispondenza tra i questori di Ferrara, Milano e Padova: di comune accordo, questi decisero che non avrebbe dovuto essere cancellato dal novero dei sovversivi perchè non aveva dato prova di “un serio ravvedimento”. Nel 1941 fu inviato al confino in Basilicata, nel Comune di Grassano, in provincia di Matera, con l’accusa di disfattismo. Luisari infatti, parlando con due persone in un caffè, aveva semplicemente espresso l’opinione che per lui la Germania non avrebbe mai vinto la guerra. Tornò a Padova alla fine del 1942: la condanna, inizialmente di due anni, gli fu condonata di un anno per amnistia.
Con l’avvento del fascismo la sorte cambiò anche per l’avv. Cavalli. Per il suo passato di combattente i fascisti padovani avevano cercato di coinvolgerlo nell’organizzazione del partito, ma al suo netto rifiuto, seguito da nette prese di posizione contro il volto autoritario e violento del regime, si mise inevitabilmente in urto con gli stessi. Il 31 ottobre del 1926, in seguito ad un fallito attentato subìto da Mussolini, i fascisti padovani scatenarono la loro rappresaglia picchiando sulla pubblica via coloro che erano ritenuti oppositori del regime o danneggiando le loro abitazioni o i loro uffici: a farne le spese fu anche lo studio dell’avvocato Cavalli che fu dato alle fiamme con tutti i mobili e le carte. Come se non bastasse, i fascisti affissero per le vie di Padova un vero e proprio bando di proscrizione (erano inclusi, oltre al nostro Cavalli, Lina Merlin, Angelo Galeno, Egidio Meneghetti solo per citare i principali) con l’invito per i citati individui ad andarsene il più presto dalla provincia e possibilmente dall’Italia. Il destino inoltre si mise di traverso. Il prof. Carrara morì nel 1929, lasciando l’avv. Cavalli in un brutta situazione. I Centanin, che avevano investito cospicue somme in azioni delle società industriali fallite di Cavalli, lo citarono in giudizio per appropriazione indebita. La strategia difensiva per assolvere l’imputato puntò sostanzialmente su una sua presunta semi-infermità mentale, non rendendogli certo un valido servizio in termini di immagine e credibilità. Dopo il processo, conclusosi nel 1931, Cavalli visse in disparte per alcuni anni.
Il periodo resistenziale
Nei 12 mesi di confino, Luisari maturò il suo passaggio dal socialismo al comunismo. Nel 1943 entrò in relazione con i comunisti padovani, e dopo il 25 luglio divenne membro del comitato per i contatti politici del Pci assieme, tra gli altri, a Concetto Marchesi, Lionello Geremia, Romeo Zanella, Sandro Dal Molin e Leone Turra. Entrò nella compagnia comando della Brigata Garibaldi Padova e contribuì a creare un primo comitato militare assieme ad Antonio Nicolè, Furio Da Re e Mario Berion. Poggiando su una vasta rete di recapiti clandestini nella città, Luisari si incaricò di recuperare viveri, medicinali e materiale bellico da caserme, depositi o dovunque i soldati avessero abbandonato armi e munizioni. Inoltre si occupò, assieme agli altri membri del comitato militare, di organizzare e indirizzare i giovani che non avevano risposto ai bandi fascisti e i militari sbandati nelle zone in cui stavano nascendo i primi nuclei di partigiani: Alto Bellunese, Cansiglio, Carnia, Altopiano di Asiago. Nel gennaio del 1944 la Compagnia Comando padovana gli chiese di occuparsi anche della diffusione della stampa clandestina e della propaganda. Il 1° giugno del 1944 arrivò ad ottenere il grado di maggiore con il ruolo di vicecomandante.
Cavalli si legò al Partito d’Azione e ai gruppi di Giustizia e Libertà e come risulta da un documento inedito messoci a disposizione dal figlio aveva fondato a Padova nel luglio 1943 il comitato clandestino “Italia Libera”, di cui era il dirigente regionale. L’avvocato aveva costituito un gruppo di circa 200 combattenti comprensivo di un nucleo attivo a Padova con azioni di propaganda e raccolta di materiale e altri nuclei in Valsugana. Un deposito di armi si trovava a Padova sotto Piazza Spalato – l’attuale Piazza Insurrezione – mentre per le brigate presenti in Valsugana era lui stesso ad esporsi in prima persona trasportando viveri, medicinali ed armi da Padova. Luogo di smistamento era Oliero di Valstagna, dove poteva contare sulla vasta solidarietà della popolazione locale. Dal piccolo centro della Val Brenta tutto il materiale veniva portato – tramite staffette – sulle montagne circostanti dove erano dislocati i partigiani di “Italia Libera”. Arrestato per ben due volte e oggetto di pesanti intimidazioni – erano ricomparsi i bandi contro di lui come negli anni ‘20 – il Cavalli si rifugiò nella stessa Oliero, ospite del parroco don Sante Franceschini. Nella soffitta della canonica si diceva che avesse nascosto una ricetrasmittente per comunicare con le brigate presenti sulle montagne.
Gli arresti e il duplice omicidio
La mattina del 28 giugno 1944 Gino Luisari fu catturato nella centralissima via Battisti a Padova mentre si stava recando dal prof. Mario Todesco per avere alcune informazioni, così come gli aveva chiesto per lettera il figlio Gianfranco, combattente della Divisione garibaldina Nino Nannetti. Prima dell’arresto, Luisari era stato visto al Pedrocchi, dove aveva parlato con una donna: la stessa poi aveva avvisato due militi fascisti che Luisari aveva in tasca la lettera del figlio. Portato nel tristemente noto Palazzo Giusti, in via S. Francesco, fu torturato dagli sgherri del battaglione Muti che non riuscirono tuttavia ad estorcergli alcuna informazione.
Italo Cavalli fu invece arrestato l’11 giugno 1944 mentre si trovava ad Oliero. I motivi rimangono ancora tutti da chiarire. Pare infatti che durante una riunione di “Italia Libera” Cavalli avesse espresso l’intenzione di uccidere il federale Secondo Polazzo e quest’ultimo, spaventato, ne ordinò l’arresto. Polazzo come abbiamo ricordato, era considerato uomo conciliatore, in contatto con gli stessi membri del CLN, l’unico per la sua posizione a saper frenare gli eccessi dei fascisti più violenti. Eppure a catturare il Cavalli fu mandato, per ordine dello stesso Polazzo, uno degli squadristi più feroci e temuti, il famigerato Nello Allegro. L’accusa era totalmente infondata, tanto che il maggiore Kaiser, presidente del Tribunale di guerra germanico, aveva disposto il non luogo a procedere. Tuttavia la scarcerazione non avvenne. È evidente che i fascisti non si erano lasciati sfuggire l’occasione di avere il Cavalli a disposizione, né il Polazzo, che pure aveva spiccato l’ordine di cattura, era riuscito ad indurli a più miti consigli. L’avvocato trascorse quindi più di due settimane in carcere, venendo sottoposto ad ogni tipo di violenza con l’intento di estorcergli informazioni sull’organizzazione clandestina che aveva messo in piedi. Anche in questo caso però i tentativi furono inutili.
Così, la notte tra il 28 e il 29 giugno i due antifascisti, ormai in fin di vita per le torture subite, furono caricati in auto e portati sul ponte del canale Cagnola, a circa 15 km a sud di Padova. Giunti sul posto, furono fatti scendere a forza e finiti con più colpi d’arma da fuoco. La banda omicida, composta in quella circostanza da circa 7-8 persone, li gettò nel canale sottostante, legando ai loro piedi una pesante pietra. Dalle deposizioni del processo un particolare raccapricciante rende l’idea delle qualità morali degli assassini: dopo il delitto, rientrati in caserma, si concessero uno spuntino a base di pane e salame.
Considerazioni finali
Finita la guerra gli assassini di Luisari e Cavalli furono catturati e processati. Riconosciuti colpevoli furono Giovanni Duò, di Bagnoli di Sopra, operaio allo Zuccherificio di Cagnola, Nello Allegro, Nino Bruciapaglia e Romito Zeno. La Corte d’Assise Straordinaria condannò a morte il Duò – sentenza eseguita mediante fucilazione nell’agosto del 1945 – il Bruciapaglia all’ergastolo, mentre Romito Zeno fu linciato dalla folla inferocita e ucciso nella prima udienza del processo, il 16 giugno 1945. Nello Allegro era stato ucciso invece nelle ore immediatamente precedenti la Liberazione.
La commemorazione di Italo Cavalli e Gino Luisari avviene ogni anno in corrispondenza della data del duplice omicidio, sul ponte di Cagnola, e si ripete ininterrottamente dal 1945, quando, come detto all’inizio, furono apposte le due lapidi che ricordano il tragico avvenimento. Molti sono ancora i punti da far riemergere, in particolare sulla figura di Cavalli, ma si può senz’altro dire che la ricerca storica abbia contribuito a recuperare la memoria di due importanti personaggi che ebbero un ruolo di primo piano nella Resistenza padovana.
Davide Gobbo ha conseguito il dottorato di ricerca in scienze storiche in età contemporanea presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Siena. Ha pubblicato per i tipi Cierre “L’occupazione fascista della Jugoslavia e i campi di concentramento per civili jugoslavi in Veneto. Chiesanuova e Monigo (1942-43)”, 2011 e “Tra anarchismo e socialismo. Carlo Monticelli nel movimento operaio italiano”, 2013
Pubblicato lunedì 31 Ottobre 2016
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