Monsignor Hugh O’Flaherty (da https://www.irishcentral.com/)

Il 10 giugno 1940, dal balcone di palazzo Venezia, Benito Mussolini annuncia a una folla festante lavvenuta dichiarazione di guerra alla Francia e all’Inghilterra. Il nostro Paese è entrato al fianco della Germania nazista nel conflitto mondiale in corso dal settembre ’39. Tra la gente che riempie la piazza capitolina v’è, in attento ascolto, un prelato: non condivide l’entusiasmo generale, consapevole «dell’inutile fratricidio». È monsignor Hugh O’Flaherty, segretario della Sacra congregazione del Sant’Uffizio (oggi Congregazione per la dottrina della fede).

La dichiarazione di guerra non aveva colto di sorpresa la curia romana: un mese prima la segreteria di Stato vaticana aveva ricevuto una relata, firmata Mussolini, con cui in caso di ostilità si disponeva per i diplomatici dei Paesi nemici l’abbandono del suolo italiano, ma non di quello vaticano. Sono però previste alcune restrizioni per i corpi consolari e le loro famiglie: «non possono entrare in Italia se non dietro autorizzazione e devono essere scortati dalle forze di polizia; non è permesso l’invio di alcun cablogramma cifrato ed è vietato qualsiasi accenno alla situazione; alle famiglie è concesso recarsi al mare, nella località di Fregene, durante il periodo estivo, a condizione che le auto dei rappresentanti consolari non attraversino il centro di Roma». Così, dopo l’annuncio di guerra, gli ambasciatori britannico, polacco e francese si trasferiscono con tutto il personale all’Ostello per pellegrini annesso al convento di Santa Marta, all’interno del territorio pontificio (nel dicembre ’41 vi migreranno anche gli addetti all’ambasciata statunitense).

Da https://www.unesco.cc/mappa_vaticano.jpg

Un giovane sacerdote in Vaticano

Ritorniamo al nostro protagonista: monsignore Hugh O’Flaherty, classe 1898, era figlio di un poliziotto irlandese poi dimessosi e divenuto maestro caddie al Killarney golf club. Il piccolo Hugh aveva imparato ben presto a giocare a quello sport, dedicandovi tutto il tempo libero. Aveva frequentato le scuole cattoliche, poi il collegio dei gesuiti a Limmerick, e già quindicenne aveva maturato la vocazione sacerdotale. Cresciuto in un Paese sofferto, era stato pure arrestato per qualche ora, reo di aver partecipato ai funerali di due cittadini irlandesi indipendentisti fucilati dagli inglesi. Grazie agli ottimi voti aveva vinto una borsa di studio, sovvenzionata dalle autorità religiose di Città del Capo, che gli aveva permesso di recarsi a Roma per frequentare i corsi della Congregazione della propaganda fidei. Nel dicembre 1925 aveva conseguito la laurea in teologia e al contempo era stato ordinato sacerdote.

A trent’anni l’irlandese era un prete molto rispettato e considerato all’interno della curia. Amava la tecnologia, si era impratichito nel guidare l’automobile e ad usare la macchina da scrivere [1], due “strumenti del diavolo” avrebbe detto Pio IX, che gli sarebbero tornati utili qualche anno più tardi, durante i suoi pellegrinaggi nei campi di prigionia. Il golf era rimasta una sua grande passione (l’altra era la boxe), tanto farlo iscrivere, nonostante ai prelati fosse vietato, al Golf club, dove aveva conosciuto vari esponenti dei cosiddetti salotti romani. Nel 1934 aveva ricevuto il titolo di “monsignore” e non erano mancati gli incarichi all’estero, in Palestina, ad Haiti e Santo Domingo, Cecoslovacchia, fino al rientro a Roma nel 1938, nominato segretario particolare del prefetto del Sant’Uffizio.

Umanità per i prigionieri

Durante i primi anni di guerra, parlando inglese e francese, O’Flaherty si occupa dei militari alleati prigionieri: nel 1942, sul territorio italiano sono allestiti ben 72 campi di prigionia. Per il compito assegnato Hugh dovrebbe limitarsi a portare conforto e incoraggiamento ma, forte della sua posizione, inizia a raccogliere i nomi dei reclusi e ogni sera con la macchina da scrivere compila delle liste che consegna, con qualsiasi mezzo e qualsiasi tempo, a Radio Vaticana affinché li legga via etere e rassicuri le famiglie. Durante le visite, si accerta che i pacchi della Croce Rossa vengano consegnati ai prigionieri il più rapidamente possibile, pretende un numero adeguato di cappellani e medici e, più di una volta, si scontra con le autorità fasciste. Arriva financo a denunciare il comportamento inadeguato dei direttori dei campi di Modena e Piacenza. Un passo che gli costerà la rimozione dall’incarico.

Rientrato in Vaticano, O’Flaherty continua però a operare in favore dei militari alleati in cerca di rifugio, accogliendoli in luoghi religiosi sicuri o presso la sua residenza che, ironia della sorte, è il Collegio tedesco. L’istituto non si trova all’interno della Città del Vaticano, ma gode dei diritti extraterritoriali.

Scoprendo l’attività del reverendo, il regime non perde tempo: chiede e ottiene dal segretario di Stato vaticano di respingere tutti i richiedenti asilo alla Santa sede. La decisione crea dei problemi all’azione del monsignore, che tuttavia non si scoraggia. Per esempio, quando tredici britannici ex prigionieri giungono speranzosi in piazza San Pietro e viene rifiutato loro l’ingresso, O’Flaherty si rivolge a un addetto della questura, Antonio Calì, e a don Giuseppe Clozner: i prigionieri non avranno il via libera ad entrare in Vaticano ma sono accompagnati presso una caserma della polizia italiana, dove vengono curati e accuditi sino all’8 settembre (dopo l’armistizio dovranno fuggire, ma sei verranno catturati).

Roma, 8 settembre 1943. Nella zona Eur-Montagnola una autoblindo italiana della “Piave” viene colpita da un anticarro tedesco

 I tedeschi prendono il comando

Nel luglio 1943, l’arresto di Mussolini e la nascita del governo Badoglio inducono gli italiani a ben sperare, ma non hanno fatto i conti con i tedeschi, che all’indomani dell’annuncio dell’armistizio attuano il piano Achse, cioè l’occupazione dell’Italia e la liberazione del duce.

La curia teme, in maniera fondata, per il Vaticano e perciò, il 10 settembre, ordina la chiusura di piazza San Pietro e colloca «alla porta dell’Arco delle campane guardie svizzere munite di fucile con la baionetta innestata…».

Il giorno successivo, il feldmaresciallo Kesselring, comandante supremo di tutte le forze tedesche sul territorio italiano, firma la seguente ordinanza: «Il territorio a me sottoposto è dichiarato territorio di guerra. In esso sono valide le leggi tedesche di guerra. Tutti i delitti commessi contro le forze armate tedesche saranno giudicati secondo il diritto tedesco di guerra. Ogni sciopero è proibito e sarà giudicato secondo il tribunale di guerra. Gli organizzatori di scioperi, i sabotatori ed i franchi tiratori saranno giudicati e fucilati per giudizio sommario. Sono deciso a mantenere la calma e la disciplina e a sostenere le autorità italiane competenti con tutti mezzi, per assicurare alla popolazione il nutrimento. Gli operai italiani che si metteranno volontariamente a disposizione dei servizi tedeschi verranno retribuiti secondo le tariffe tedesche. I ministeri amministrativi e le autorità giudiziarie continuano a lavorare. Saranno subito rimessi in funzione il servizio ferroviario, le comunicazioni e le poste. È proibita fino a nuovo ordine la corrispondenza privata. Le conversazioni telefoniche, che dovranno essere limitate al minimo, saranno severamente sorvegliate. Le autorità e le organizzazioni civili italiane sono verso di me responsabili per il funzionamento dell’ordine pubblico. Esse compiranno il loro dovere solamente se impediranno ogni atto di sabotaggio e di resistenza passiva contro le misure tedesche e se collaboreranno in modo esemplare con gli uffici tedeschi. Roma, 11 settembre 1943. Il Feldmaresciallo Albert Kesselring».[2]

L’ordinanza sancisce la vittoria tedesca contro granatieri dell’esercito italiano e le migliaia di civili che hanno difeso la Capitale abbandonata dal re. Nonostante sia occupata, la città diviene meta di ex prigionieri alleati alla ricerca di un nascondiglio. Ricordando O’Flaherty, in molti provano a mettersi in contatto con lui, altri si rivolgono all’ambasciata irlandese presso la Santa sede (l’unica di lingua inglese a rimanere aperta a Roma durante la guerra). Il prelato vuole continuare ad aiutare e contare sul corpo diplomatico della sua patria non basta.

Si rivolge così all’ambasciatore britannico D’Arcy Osborne, che gli mette a disposizione il suo maggiordomo di fiducia: John May. Il domestico stesso, personaggio uso ad avere rapporti con la borsa nera e con altri soggetti poco affidabili, spiega al monsignore: «Con il dovuto rispetto, questo gioco è troppo impegnativo per un uomo solo, soprattutto per un prete. So che è appoggiato da altri sacerdoti ma…  Voglio dire, non siete abituati a scendere a compromessi o patti come me e i miei amici. Accetti il nostro aiuto».

L’indomani O’Flaherty crea il “consiglio dei tre”, vi fanno parte oltre a lui, May e il conte Sarsfield Salazar della legazione svizzera. Quest’ultimo coinvolge a sua volta l’addetto militare capitano Leonardo Trippi per sopraintendere alla distribuzione dei pacchi della Croce Rossa ai prigionieri. Il maggiordomo May dimostra subito la sua capacità di uomo di mondo escogitando uno stratagemma per permettere ai militari nascosti di comunicare con le famiglie. Il trucco consiste nel far scrivere all’interessato un assegno di 5 sterline e farlo spedire, via borsa diplomatica vaticana, alla banca di riferimento. Immediatamente il direttore contatta il destinatario per verificare l’autenticità della firma e in questo modo i militari rifugiati posso far sapere che stanno bene e anche apprendere notizie dei loro cari.

Al gruppo viene aggregata una vedova, madre di otto figli, Henrietta Chevalier, donna di origine maltese il cui secondogenito è ufficiale presso la legazione svizzera in Vaticano.

Hugh O’ Flaherty, tramite il sacerdote maltese don Borg, la contatta chiedendole di dare asilo a casa sua a due prigionieri in fuga. Superate le perplessità del mio primo momento, la signora si prodiga. Quei ragazzi le ricordano il primogenito, prigioniero dei tedeschi. Nonostante l’appartamento sia piccolo, riesce ad ospitarne ben nove.

Roma, via Tasso. Al civico 145 durante l’occupazione della Capitale era la sede Sicherheitspolizei, dalla quale dipendeva la Ghestapo

Ben presto il numero dei militari alleati da proteggere cresce e il consiglio dei tre decide di affittare altri due appartamenti: il primo in via Firenze e il secondo a un chilometro di distanza, in via Chelini. La prima abitazione è alle spalle di via Tasso, sede della Gestapo: O’Flaehrty è convinto che nessuno penserebbe di nascondere qualcuno in un luogo tanto vicino all’edificio trasformato dai nazisti in caserma e luogo di tortura.

I fondi per l’attività li forniscono gli ambasciatori britannico, americano e il principe Filippo Doria Pamphilj, esponente di una delle più antiche famiglie nobili romane.

Ma la Gestapo inizia a nutrire dei sospetti, Kappler in persona ordina di sorvegliare tutte le persone che lavorano per il monsignore.

La Primula rossa del Vaticano

Un giorno O’Flaherty si reca in visita alla famiglia Doria, nella residenza di via del Corso, e scatta la trappola. Il palazzo viene circondato. La fuga del sacerdote è rocambolesca: si dirige verso lo scantinato, scambia i vestiti con un carbonaio e mentre l’auto di Kappler si ferma dinanzi al portone d’ingresso della dimora, il prelato gli passa davanti senza essere riconosciuto. I nazisti hanno intenzione di arrestare anche il principe Doria e famiglia, che però riescono a lasciare la casa e ad approdare, Filippo in monastero, moglie e figlia in due diverse abitazioni dove rimarranno fino al 4 giugno 1944 (alla Liberazione Doria verrà nominato sindaco di Roma, d’intesa con il governo Bonomi).

Il consiglio dei tre decide una linea di maggior prudenza, le uscite del prelato sono ridotte al minimo e quando avverranno dovranno essere sotto mentite spoglie; d’ora in poi coloro che avranno bisogno del reverendo lo troveranno ogni sera sul sagrato di piazza San Pietro, mentre recita i vespri. La minaccia nazista prende forma nei cecchini che per ordine di Kappler lo tengono di mira, pronti a colpire qualora oltrepassi il colonnato. Ovviamente, nonostante i pericoli, il sacerdote si avventura con regolarità lungo le strade di Roma, di solito travestito da spazzino (secondo l’aneddotica si sarebbe camuffato addirittura da suora). Ormai è per tutti la Primula rossa del Vaticano.

Da https://wikipedia.org

Ebrei e non solo.

Il 7 ottobre 1943 i nazisti arrestano e deportano nel lager in Germania e in Polonia i carabinieri di stanza in città. Il 16 ottobre, all’alba, il ghetto di Roma viene circondato e inizia la “grande razzia”, due giorni dopo i primi treni piombati partono dalla stazione Tiburtina.

Nel frattempo, il consiglio dei tre entra in contatto con Sam Derry, artigliere di sua maestà britannica, evaso dal campo di Chieti. Grande esperto, gli viene assegnato il compito di gestire la struttura di assistenza, assicurando i rifornimenti, e di vigilare sulle segnalazioni di arresti. E con l’appoggio del governo inglese farà nascere la British escape organization (Beo) che opererà con il consiglio dei tre, ormai allargato a molti collaboratori. L’intento è di collocare i fuggiaschi fuori dal perimetro cittadino, poiché in provincia i controlli sono minori ed è più facile assicurare il vitto.

Durante il mese di dicembre 1943, la Resistenza a Roma è molto attiva. I Gap agiscono ripetutamente contro le forze tedesche e fasciste. La cittadinanza in vario modo sostiene l’attività partigiana. Ciò porta gli occupanti a inasprire i controlli, il coprifuoco dalle 23,30 è anticipato alle 19.00, dopo le 17 è vietato l’uso delle bici, pena la fucilazione sul posto [3]. Viene creata anche una squadra speciale, denominata dal cognome del comandante, è la famigerata Banda Koch.

Nel frattempo, giunge alle orecchie delle alte cariche ecclesiastiche la notizia che le autorità nazifasciste si preparano a compiere delle irruzioni nelle proprietà vaticane, la prima avviene il 21 dicembre nel seminario annesso alla basilica di San Giovanni, un chiaro avvertimento alle autorità della Santa sede e, soprattutto, a quella testa calda di O’Flaherty. Le disposizioni tedesche sono chiare: «Chiunque ospita fuggiti prigionieri di guerra, oppure possiede una radio trasmittente o non adempie agli ordini lavorativi. Chiunque sia in contatto con prigionieri di guerra evasi dai campi di prigionia oppure stampi o pubblichi notizie riguardo alla guerra contro gli Alleati verrà condannato ai lavori forzati a vita. Mentre viene condannato a vent’anni di galera colui che non comunichi il cambio d’indirizzo».

La caccia ai partigiani e agli ebrei s’intensifica. Scrive madre Maria: «Stamattina notizie spiacevoli. I patrioti e gli ebrei che hanno trovato rifugio presso conventi e strutture religiose, non lo sono più a causa dei fascisti che non hanno alcuno scrupolo e hanno violato il Collegio lombardo, quello orientale e quello russo» al cui interno sono nascosti molti ebrei [4].

La Beo e il consiglio dei tre non demordono e riescono a nascondere fuori città circa 2.000 persone, solo 80 rimangono all’interno.

Salvare e proteggere

Il 1944 inizia con la richiesta delle autorità nazifasciste di chiudere la strada vicina al Collegio tedesco, per impedire ogni ingresso e uscita dallo Stato. E molto puntano, per contrastare la Resistenza e anche le attività di O’ Flaherty, sulle delazioni.

Ci si prova anche con le “buone”. Una sera, durante un ricevimento, l’ambasciatore tedesco von Weizsaecker, comunica al sacerdote un messaggio di Kappler: «se uscirà dal Vaticano, per qualunque motivo, verrà arrestato o ucciso». O’Flaherty, per niente intimidito, sorride e con voce alta risponde: «Ringrazi sua eccellenza Kappler e dica che penserò, nei momenti liberi, alle sue parole».

Alcuni giorni dopo viene convocato da monsignor Montini (il futuro Paolo VI) per chiedergli di limitare le azioni del gruppo, almeno quelle che il reverendo irlandese realizza in prima persona.

Il 21 gennaio 1944 nei pressi di Anzio, sul litorale laziale, inizia l’Operazione Shingle, cioè lo sbarco delle truppe alleate, notizia che rianima la popolazione e fa sperare la fine del conflitto, ma l’avanzata è costretta ad arrestarsi e diventa, la definizione è di  Churchill, una «balena incagliata».

Il pericolo alleato alle porte determina i fascisti della banda Koch, in accordo con il capo della polizia Caruso, a compiere un rastrellamento nei luoghi sacri. La notte del 3 febbraio, bussano al portone del convento di San Paolo fuori le mura; entrano e armi alla mano iniziano a mettere a soqquadro ogni cosa, scoprono e arrestano sessantasei rifugiati.

Bisogna fare di più per proteggere i ricercati dai nazifascisti, alcuni sono anche malati. La escape organization chiede aiuto al professor Urbani, chirurgo di fama, per ospitare i clandestini in uno dei grandi ospedali romani; i più gravi vengono condotti in ospedali sicuri. Nel frattempo O’Flaherty contatta monsignore Spike, suo connazionale, creatore di un’organizzazione parallela di aiuto.

A metà marzo sono 3.423 le persone nascoste in città da Hugh e i suoi in circa 200 alloggi. Sul monsignore Kappler ha messo una taglia da trentamila lire.

La furia nazista

Viene arrestato dalla banda Koch frate Robert, un anello importante per mantenere i contatti con le case e con i profughi ospedalizzati. Il frate si è però distinto per aver curato e assistito in ospedale dei soldati e ufficiali nazisti e così si ottiene la sua scarcerazione.

A seguito dell’azione contro la polizia tedesca in via Rasella, i tedeschi sterminano alle Fosse Ardeatine 335 persone, tra loro ci sono anche uomini che fanno parte dell’organizzazione di O’Flaherty: Antonio Casadei e Vittorio Fantini.

Nel viterbese, a Corchiano, vive e opera nella Resistenza, Antonio Giustini. È un maestro elementare, figlio di emigranti negli Stati Uniti, tiene i collegamenti con il quartiere romano di Prima Porta ed è in contatto con O’Flaherty attraverso il direttore del Collegio Marcantonio Colonna. Giustini nasconde molti militari alleati, ma viene scoperto. Riesce a far fuggire i rifugiati e a inviarli a Roma, prima di essere arrestato e torturato. Con un espediente riesce a scappare. Resterà nascosto fino al 4 giugno 1944, giorno della Liberazione di Roma. In seguito diverrà sindaco di Corchiano e più tardi tornerà a risiedere e lavorare negli Usa.

O’Flaherty e il generale Clark dopo la Liberazione di Roma

La Liberazione di Roma

I giorni del mese di maggio sono un susseguirsi di notizie e smentite circa l’avanzata degli Alleati. La Resistenza cittadina intanto continua determinata l’attività. O’Flaherty è contattato da un nobile romano, è latore della richiesta di Pietro Koch di mettere in salvo la moglie e la figlia. In cambio avrebbe liberato alcuni militari alleati detenuti a Regina Coeli. Non ci sarà un seguito perché i due prigionieri non rispondo all’appello, avendo dichiarato un’altra identità, e le due donne poi rifiuteranno l’aiuto.

Il 4 giugno la Capitale è libera, gli Alleati entrano in città, e O’Flaherty incontra il generale Mark W. Clark, comandante della 5ª armata statunitense, che lo ringrazia e gli chiede di continuare l’impegno per creare un sistema di comunicazioni finalizzato a localizzare i prigionieri di guerra italiani e fornire notizie ai familiari.

O’Flaherty verrà decorato dal governo britannico e americano con US medal of Freedom. Riceverà un’onorificenza, la Medaglia d’Argento al Valor Militare anche dal governo italiano. In quei mesi di occupazione ha salvato oltre 6.000 persone dalla prigionia e dalla morte.

Un eroe sconosciuto

Anche il Vaticano si muoverà: è nominato sacerdote di camera del Papa, un’onorificenza conferita ai preti che si sono prodigati per il prossimo e che hanno dimostrato delle doti eccezionali, in seguito è capo notaio del Sant’Uffizio.

Hugh O’Flaherty muore in Irlanda il 30 ottobre 1963.

Rimasta misconosciuta per molti anni, alla figura di O’Flaherty nel 1983 è stato dedicato il film per la televisione “Scarlatto e nero”, attore protagonista Gregory Peck.

Nel 1994, in occasione del 50° della Liberazione di Roma, gli amici e parenti del monsignore hanno piantato degli alberi presso il parco nazionale di Killarney, per ricordare lui e tutti coloro che hanno agito come lui. Nel 2000, alla desecretazione di alcuni documenti della seconda guerra mondiale conservati negli archivi della Cia, venne trovato un dispaccio intercettato dagli americani, inviato da Roma a Berlino, in cui Kappler comunicava i dettagli di un imminente sbarco degli Alleati a Civitavecchia. La fonte, indiretta, a detta di Kappler era O’Flaherty. Il documento già giudicato improbabile dagli storici, secondo una recente inchiesta giornalistica della Bbc avrebbe contenuto informazioni errate sullo sbarco. In altre parole un ennesimo colpo, in forma di depistaggio, del monsignore irlandese.

Stefano Coletta, insegnante


Note

[1]  In una lettera di O’Flaherty indirizzata alla madre si legge: «Ricevo un gran numero di lettere, ma ho poco tempo per risponderle e inoltre odio scrivere lettere a mano. Per il futuro io risponderò solo ogni domenica in modo da risparmiare tempo durante la settimana. Tuttavia, non devo lamentarmi per la macchina da scrivere è utile e riesco a scrivere una lettera in meno di cinque minuti».

[2] Editto di Albert Kesselring, riprodotto all’interno del libro di Carla Capponi “Con cuore di donna. Il ventennio, la Resistenza a Roma, via Rasella: i ricordi di una protagonista”, Milano, Il Saggiatore, 2009. Il testo, con lievi inesattezze, è riportato anche in Claudio Fracassi, La battaglia di Roma. 1943. I giorni della passione sotto l’occupazione nazista, Milano, Mursia, 2013, p. 110

[3]  Testimoniava la duchessa di Sermoneta: «I tricicli sono consentiti, per cui gli ingegnosi romani hanno aggiunto due piccole rotelle alle ruote, ma in modo da non toccare il terreno. Dopo alcuni giorni anche questi vengono proibiti».

[4]  Il portiere ferma i fascisti dicendo «questa è proprietà pontificia». Come risposta si ritrova una pistola puntata. Al /termine vengono trovati tre ebrei. Il capo banda chiede al rettore “/ Perché nascondi questi uomini?” “Per lo stesso motivo per cui ti nasconderemo, tra qualche tempo, anche a te». “Memorie di Madre Mary St Luke”, 22 dicembre 1943.