La Divisione "Mario Modotti"
La Divisione “Mario Modotti”

«Uno dei ricordi più teneri è la domenica, giorno di festa e di riunione familiare, quando piccolina mi ritrovavo nel lettone grande ad ascoltare papà, mentre in cucina, nel sottofondo del rumore di tazze e pentolame, mamma Paola preparava la colazione. Ipnotizzata ascoltavo avventure che mi sembravano molto più interessanti di quelle di Salgari:  battaglie, sparatorie, torrenti freddi guadati la notte. Mio padre era lì con me e non potevo rendermi conto, così piccola, di quanto avesse realmente rischiato. Quando fui un po’ più grande iniziai ad attingere anche alla libreria di casa in cui erano custoditi tantissimi volumi, molti dei quali acquistati proprio per me. La cultura, la conoscenza per lui erano la chiave della democrazia. Dalle pagine di quei libri continuai ad apprendere la storia della Resistenza, attraverso racconti, romanzi, memorie e studi specifici, comprendendone il valore più insito.  Papà  è comunque rimasto una fonte fondamentale. Gli è sempre piaciuto narrarmi di quel periodo particolare della sua vita, soprattutto se sollecitato dalle mie curiosità. La sua intera vita a dire il vero gli ha permesso di formarmi trasmettendomi quei princìpi di giustizia, fratellanza e solidarietà alla base delle sue lotte,  contro il fascismo prima e per la democrazia poi. La nostra casa diventava spesso un convivio di persone, di amici,  che dopo le riunioni, le commemorazioni e i congressi del Pci o dell’Anpi si ritrovavano per parlare del passato e del presente, in cui la storia della Resistenza continuava ad essere un collante per le amicizie e una base da cui trarre forza per le lotte quotidiane anche in tempo di pace, e soprattutto del futuro. Era per lui un’esigenza di fondo, quasi fisica, inestricabile dalla sua funzione di educatore, di padre.  Del suo affettuoso disincanto e allo stesso tempo della sua passione sento ancora l’eco; un’urgenza di mantenere viva la memoria di quegli ideali che ha continuato a coltivare anche dopo la Liberazione, fino agli ultimi anni della sua vita, nella sua costante capacità di attualizzare la Resistenza grazie a quella carica appassionata volta a preservare un patrimonio etico dall’inevitabile desertificazione dell’oblio, soprattutto per le future generazioni.»

Sergio Visintin nel 1945
Sergio Visintin nel 1945

Sono le parole di Sabina Visintin che durante una assolata giornata primaverile mi racconta del padre partigiano Sergio, nome di battaglia “Rino”, parole che trascrivo velocemente sul retro di autobiografie redatte da Sergio nel 1949 e nel 1952, recuperate e fotocopiate dal fondo archivistico di Vincenzo Marini “Banfi” conservato all’Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione. Tra le frasi di Sabina emerge tutta l’umanità della vita privata che nei tecnicismi degli storici viene volontariamente tralasciata per dare spazio unicamente a quella scientificità che pone un solco invalicabile tra racconto e saggio storico. In questo terso pomeriggio sembra che Sergio sia qui con noi. Fu tra i primi a organizzare la Resistenza subito dopo l’8 settembre 1943 nel battaglione Garibaldi sul Collio goriziano, in seguito nella Destra Tagliamento, nella zona di Castelnovo del Friuli sul Monte Ciaurlec. Nel 1944 “Rino” divenne commissario politico della Brigata Picelli che operava a Cavazzo Carnico, Forgaria e S. Francesco, poi del Gruppo Brigate Destra Tagliamento e della Divisione Mario Modotti, come ricorda nelle sue memorie. Partecipò all’insurrezione nazionale nello Spilimberghese, a Casarsa e a Pordenone dove fece parte del Comando di piazza, curando, a liberazione avvenuta, i rapporti con la popolazione locale e organizzando l’attività del Partito comunista. Impegni che lo occuparono per tutto il dopoguerra. Frequentò anche i corsi delle scuole di partito che si svolgevano a Milano e a Roma offrendo «quanto era nelle mie possibilità e modeste capacità».

foto ccp - smallLa sua partecipazione alla lotta di Liberazione prese avvio come naturale conseguenza della formazione di antifascista iniziata negli anni Trenta, frutto di quelle ingiustizie che aveva osservato fin da bambino: «All’età di sei anni ho cominciato a frequentare le scuole elementari. Già a quel tempo ricordo di conflitti avvenuti al mio paese tra fascisti e lavoratori come pure l’incendio del circolo giovanile comunista. Un giorno chiesi spiegazioni a mia madre di questi fatti e lei mi disse che erano cose molto brutte che stavano succedendo» e ancora nelle sue memorie ricorda che «nel 1925 tutti gli alunni si iscrissero all’Onb (Opera nazionale Balilla), così pure io. Il giorno che ho ricevuto la tessera appena giunsi a casa lessi le parole del giuramento che erano tergo la tessera in presenza della mia famiglia, per le parole che erano incise e per le esclamazioni dei presenti ebbi un momento di impressione e di sfiducia che stracciai la tessera». Una scelta premonitrice delle successive importanti decisioni che viste con gli occhi di bambino erano paragonabili ai romanzi di avventura che leggeva, quelli di Robinson Crusoe e di De Amicis.

Il salto di qualità avvenne nell’ambiente lavorativo dove sentiva «gli operai imprecare contro il padrone e contro questo sistema di sfruttamento». Nel 1931 iniziò a frequentare alcuni antifascisti e a dedicarsi a nuove letture, Gor’kij, Tolstoj, la stampa clandestina. La sua coscienza politica si formò pian piano fino all’iscrizione nel novembre del 1933 alla Federazione Giovanile Comunista, mentre continuava parallelamente a frequentare le organizzazioni avanguardiste per cercare di avvicinare altri giovani all’antifascismo. Sergio sosteneva che «noi giovani comunisti dobbiamo lavorare dove il fascismo ha raggruppato più giovani e perché anche lì c’erano le condizioni per sviluppare un lavoro di massa sulle basi delle rivendicazioni che la gioventù stessa sentiva, per portarla alla lotta contro il fascismo».  Si occupò del Soccorso rosso, assieme ad altri creò il giornaletto “l’eco giovanile”, dedicandosi anche alla “propaganda murale” contro il fascismo. Venne arrestato dall’Ovra nel 1934 a causa di una delazione e portato al Coroneo di Trieste dove subì interrogatori con “metodi bestiali”. La sua formazione politica di antifascista si saldò maggiormente grazie ai contatti con altri compagni di lotta. Dopo la condanna a 8 anni di reclusione del Tribunale speciale per la Difesa dello Stato venne trasferito prima al Regina Coeli di Roma, poi a Castelfranco Emilia fino alla scarcerazione con l’amnistia del 1937.

Sergio VIsintin in una foto del gennaio 2007
Sergio VIsintin in una foto del gennaio 2007

Tornato a casa fu accolto festosamente da tutti gli abitanti del borgo, curiosi di conoscere la sua esperienza: fu come «una specie di manifestazione antifascista». L’attività clandestina riprese con la diffusione della stampa, le riunioni organizzative, la propaganda di nuovi ideali tra gli operai e i contadini: si stava preparando inconsapevolmente a una lotta ancora più dura, quella che lo avrebbe atteso dopo l’armistizio del 1943 sulle montagne assieme ad altri partigiani.