Il 2 febbraio 1943, al termine di estenuanti e aspri combattimenti casa per casa dentro la sacca della città-simbolo di Stalingrado, ridotta a un cumulo di macerie, in una cortina di nebbia sotto una neve sferzante, il generale Friedrich von Paulus, venendo meno al tassativo ordine di Adolf Hitler di non arrendersi, fu costretto a consegnarsi all’Armata Rossa con 100.000 superstiti sui 330.000 tedeschi accerchiati, essendo tutti gli altri caduti sul campo [1].
La capitolazione della potente VI armata e di parte della IV, che metteva fine a un’usurante battaglia iniziata il 17 luglio 1942, segnò il capovolgimento delle sorti della guerra sul fronte orientale, in fiamme dal 22 giugno 1941 per lo scatenamento dell’Operazione Barbarossa, l’attacco a sorpresa contro l’Urss sferrato dal Terzo Reich hitleriano con un imponente dispiegamento di forze: 190 divisioni (3 milioni di uomini), appoggiate da 5.000 aerei e da 4.000 carri armati.
Con una fulminea offensiva lungo tre amplissime direttrici di marcia, che colse del tutto impreparato Josif Stalin, convinto fino all’ultimo di avere evitato il conflitto con Berlino grazie al «patto di non aggressione» (agosto 1939), le truppe della Germania nazista e quelle dei suoi alleati rumeni, ungheresi e finlandesi penetrarono in profondità nel territorio russo, sbaragliando l’Armata Rossa e obbligandola a un drammatico quanto caotico ripiegamento per centinaia di chilometri. La micidiale macchina bellica approntata dal nazismo, al fine di condurre con inaudita violenza la crociata contro il nemico mortale del «giudeo-bolscevismo», distrusse o si appropriò di una quantità sbalorditiva di materiali e mezzi, uccidendo o catturando un numero impressionante di soldati e ufficiali sovietici.
Contrariamente alle aspettative dei vertici nazisti, il regime comunista guidato da Stalin non si dissolse come un’«impalcatura marcia» (A. Hitler), anche se più di un milione di cittadini sovietici entrerà a far parte delle forze armate teutoniche e spesso gli ucraini, che non avevano dimenticato gli orrori dell’Holodomor («lo sterminio per fame») [2], accolsero i reparti della Wehrmacht [3] con i tradizionali doni di pane e sale.
Mal gliene colse. I tedeschi, che li ritenevano un miscuglio di «negri bianchi», prelevarono con la forza dalle loro terre oltre dieci milioni di tonnellate di grano per soddisfare le esigenze alimentari di militari e civili germanici. Questo predatorio comportamento si inscriveva nella cornice della guerra d’annientamento ideologico-razziale perpetrata dal nazismo contro «l’idra giudaico-bolscevica». In base agli ordini precedentemente ricevuti, non appena misero piede in Unione Sovietica, le Einsatzgruppen SS, con l’ausilio dell’esercito regolare, procedettero a massacrare centinaia di migliaia di ebrei, commissari politici e intellettuali.
A Est il nazismo si prefiggeva di costruire un impero su basi razzistiche mediante l’eliminazione e la riduzione in schiavitù degli elementi «razzialmente indesiderabili». Assecondando da un lato l’intenzione del Reichsführer delle SS, Heinrich Himmler, di ridurre drasticamente la popolazione sovietica e tentando, dall’altro, di provvedere al rifornimento alimentare dei tedeschi al fronte e in patria, Herbert Backe del ministero dell’Agricoltura elaborò dei progetti (Generalplan Ost) per condannare alla morte per fame 30 milioni di persone nelle aree urbane e in altre zone sovietiche [4].
Galvanizzati dalla travolgente avanzata nelle sconfinate pianure dell’Urss, avvenuta nei primi mesi dell’invasione, gli alti comandi della Wehrmacht confidavano di impadronirsi rapidamente dei maggiori centri del primo Stato socialista al mondo: Leningrado e Mosca. Invece, gli eventi presero un’altra piega, risucchiando i tedeschi in un debilitante conflitto di logoramento.
Se Leningrado dovette sopportare, a partire dal 5 settembre 1941, un assedio durato 900 giorni e costato circa un milione di morti, Mosca – anche grazie all’arrivo dall’Estremo Oriente di molte divisioni fresche e ben munite – riuscì a rintuzzare la spinta tedesca, giunta sul finire del 1941 a 20 chilometri dalla capitale sovietica. Nonostante le iniziali, catastrofiche disfatte, l’accanita resistenza tanto dei militari quanto dei civili, unita al sopraggiungere del gelido inverno russo [5], rivelatosi proibitivo per l’inadeguato equipaggiamento dell’esercito tedesco, consentì di riorganizzare le fila sovietiche, di scongiurare il tracollo della «patria del socialismo» e di determinare così l’insuccesso della «guerra-lampo» perseguita dal nazismo.
Sebbene bloccata alle porte di Mosca e poi ricacciata indietro con perdite molto pesanti (160.000 tra morti, feriti e prigionieri), la Wehrmacht all’inizio del 1942 occupava un’area particolarmente estesa e vitale. Si trattava di regioni che ospitavano quasi il 40% della popolazione sovietica e che fornivano in tempi normali il 65% del carbone, il 68% della ghisa, il 58% dell’acciaio e dell’alluminio, il 40% della dotazione ferroviaria, nonché l’84% dello zucchero e il 40% della produzione di cereali [6]. Nella primavera e sino all’estate di quell’anno, essa riprese ad attaccare prepotentemente – ad onta delle previsioni di Stalin – sul fianco meridionale.
Con uno sforzo eccezionale, centinaia di divisioni dell’Asse cercarono di «spazzare via l’intero potenziale difensivo rimasto ai sovietici», secondo la direttiva numero 41 emanata da Hitler il 5 aprile 1942 [7], con cui dava il via all’Operazione Blu per piegare definitivamente l’Urss. Passando di vittoria in vittoria, da un lato si diressero verso il Mar Caspio e il Caucaso, dall’altro concentrarono i loro tentativi su Stalingrado, su cui il Führer avrebbe dirottato un’intera armata, attratto dall’importanza simbolica della città, che prendeva il nome dall’incontrastata guida del comunismo internazionale. In quel frangente la pressione germanica sembrò di nuovo farsi incontenibile, toccando allora la sua massima espansione e pericolosità.
Supportata da contingenti ungheresi, rumeni e italiani, la VI armata di Paulus puntò su Stalingrado, mettendo sotto assedio quel rilevante bacino industriale tra i fiumi Don e Volga, verso cui affluivano le risorse petrolifere provenienti dal Caucaso. La sua conquista era considerata da Hitler una priorità strategica, in quanto avrebbe permesso di controllare la grande via fluviale sul Volga, di impossessarsi dei giacimenti petroliferi dell’area di Baku, di avere così a disposizione quel carburante tanto indispensabile per continuare la guerra, per muovere verso il Medio Oriente, in modo da minacciare i possedimenti britannici, e per convergere verso Nord sino a Mosca e agli Urali.
Per il dittatore nazista, reso più ambizioso dai successi dell’Afrika Korps di Erwin Rommel e dei giapponesi in Estremo Oriente, allungare le mani su Stalingrado era pure un fondamentale obiettivo di politica interna: […] una sua caduta – ha scritto Vasilij Grossman, il Tolstoj del Novecento – avrebbe consolidato la posizione di Hitler entro i confini della Germania e sarebbe stato un segnale reale della vittoria definitiva che aveva promesso al popolo tedesco nel giugno del 1941. La caduta di Stalingrado avrebbe compensato il fiasco del Blitzkrieg, che, stando alle promesse del Führer, avrebbe dovuto concludersi otto settimane dopo l’invasione della Russia; la caduta di Stalingrado avrebbe giustificato le disfatte a ridosso di Mosca, Rostov, di Tchvin e le tante, terribili perdite dell’inverno, che avevano scosso la nazione. La caduta di Stalingrado avrebbe consolidato il potere della Germania sui Paesi satelliti, mettendo a tacere le voci discordanti e critiche.
E per finire, la caduta di Stalingrado avrebbe segnato il trionfo di Hitler sullo scetticismo di Brauchitsch, Halder e Runstedt, sui dubbi di Mussolini quanto alla superiorità intellettuale del suo alleato, sulla boria mal dissimulata di Göring. Per questo Hitler respingeva stizzito qualunque richiesta di rinvio o rallentamento: c’erano in ballo il destino della guerra, il futuro del Terzo Reich e il prestigio del Führer [8].
Fortunatamente l’esito di quella che, a giusta ragione, viene ritenuta la più gigantesca battaglia del secondo conflitto mondiale è stato ben diverso da quanto si augurava Adolf Hitler. Ma, in un primo momento, di fronte al rullo compressore delle armate dell’Asse, che seminavano il panico fra le truppe avversarie, il gruppo dirigente del Cremlino temette il peggio. Per risollevare dall’avvilimento, in cui parevano essere sprofondati i combattenti e i comandanti sovietici, Stalin emise il 28 luglio l’ordinanza n. 227, incentrata sulla parola d’ordine: «Non un passo indietro». In linea con l’appello alla Grande Guerra Patriottica, con il richiamo alla tradizione del patriottismo popolare russo, che indusse persino a riabilitare l’osteggiata Chiesa ortodossa, si chiedeva ai soldati e alla popolazione tutta di battersi per «vivere o morire», per contendere «fino all’ultima goccia di sangue» «ogni metro della nostra terra natia». In una situazione che pareva sempre più disperata, non si esitò a passare per le armi alcune migliaia di codardi e indisciplinati, veri o presunti che fossero.
In quella fase l’Urss non poteva contare nemmeno sull’apertura di un secondo fronte da parte dei suoi alleati anglo-americani. Era un’opzione ancora di là dal poter essere concretizzata, come nell’incontro moscovita dell’agosto 1942 ebbe a chiarire Winston Churchill al cospetto di uno Stalin visibilmente irritato.
L’Urss, dunque, venne lasciata sola a tenere la posizione chiave di Stalingrado. Per mesi la città fu tartassata dai bombardamenti aerei della Luftwaffe [9] e dai cannoneggiamenti dell’artiglieria tedesca. Morirono 40.000 civili nel perimetro di ciò che si era trasformato in una «foresta pietrificata» di edifici sventrati, di fabbriche devastate, di strade sconvolte, di abitazioni annerite, di giardini arati dalle granate. L’aria era ammorbata dal fetore della carne bruciata, dagli odori acri del legno e dei mattoni rosi dal fuoco degli incendi.
Nel romanzo I giorni e le notti, lo scrittore Konstantin Simonov ha raccontato che nell’oscurità Stalingrado pareva una distesa piatta, leggermente ondulata: «Sembrava che le case fossero affondate nel terreno e che vi fossero stati ammucchiati sopra cumuli sepolcrali di mattoni» [10]. Saburov – l’eroe di Simonov – sentiva che «se i tedeschi l’avessero conquistata, lui sarebbe morto. Se avesse impedito che la conquistassero, forse sarebbe rimasto vivo» [11].
Eppure le rovine dei palazzi, dei muri abbattuti, degli stabilimenti industriali, come la fabbrica dei trattori, l’acciaieria Ottobre Rosso e le officine Barricate, si rivelarono un efficace scudo protettivo per i difensori di Stalingrado, impegnati in tutti i quartieri in scontri ravvicinati, non di rado in una lotta corpo a corpo, cercando di snidare e colpire i cecchini tedeschi. Furono molti i tiratori scelti sovietici che diventarono famosi, così come tante donne si distinsero in quanto aviatrici, abili tiratrici e partigiane [12].
Nonostante stremata e attanagliata dalla fame, la città seppe opporre una strenua resistenza, fino a quando i tedeschi furono a loro volta accerchiati dalle divisioni sovietiche mobilitate in soccorso degli “Ivan” [13] della 62ª e della 64ª armata. Dal 19 novembre 1942 uno stratega di prim’ordine, qual era il maresciallo Georgij Žukov, nominato vice Comandante supremo, poté mettere in atto una manovra a tenaglia che strinse in una morsa di ferro e di fuoco i reparti di von Paulus. Costretti a non issare la bandiera bianca dalla spietata determinazione di Hitler, essi furono decimati dal freddo, dal rarefarsi dei rifornimenti e dalle truppe sovietiche, finalmente dotate di armi moderne prodotte negli stabilimenti degli Urali. In queste condizioni, al generale Paulus non rimase altra scelta che contravvenire alla delirante intimazione del suo Führer. Né sorte migliore toccò alla 2ª armata ungherese e alla 3ª rumena, che furono spazzate via sul Don, mentre i resti della 8ª armata italiana dovettero affrontare il calvario di un’allucinante ritirata.
Vista nel suo insieme, la terribile battaglia di Stalingrado costò alle forze dell’Asse, in sei mesi di ininterrotti combattimenti, 800.000 uomini. La sconfitta tedesca, il primo grande rovescio militare del Terzo Reich che portò alla proclamazione in Germania di tre giorni di lutto ufficiale, sancì la fine del mito dell’invincibilità della Wehrmacht. Frutto anche della ripresa dell’apparato produttivo dell’Urss, grazie al trasferimento ad Est di oltre 1.500 imprese, degli aiuti materiali degli Alleati e del ripudio della tracotanza e brutalità nazista, la vittoria sovietica a Stalingrado segnò una svolta decisiva nel secondo conflitto mondiale, che si concluse con il naufragio dell’agghiacciante Nuovo ordine europeo hitleriano, fondato sulla discriminazione e sull’annientamento dei «nemici politico-razziali» del nazifascismo.
Da quanto sin qui detto, appare del tutto strumentale il richiamo di Vladimir Putin alla Grande Guerra Patriottica, come è pretestuosa la motivazione di voler «denazificare» l’intera Ucraina, addotta per giustificare la cosiddetta «operazione speciale militare» scatenata contro di essa il 24 febbraio 2022, che in realtà è dettata dall’ossessione di avere un’estesa cintura di sicurezza e di garantirsi una propria sfera d’influenza. Altrettanto deprecabili risultano gli onori e le celebrazioni tributati in Ucraina al collaborazionista filonazista Stepan Bandera, i cui seguaci si macchiarono di gravi crimini contro polacchi ed ebrei tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento.
Comunque – e per tornare al punto da cui siamo partiti – dalla clamorosa, quanto inattesa affermazione sovietica a Stalingrado, che meravigliò il mondo, tanti, tantissimi trassero coraggio, speranza e incitamento all’azione. Ed è stato il poeta cileno Pablo Neruda (1904-1973) – una delle voci più appassionate della letteratura contemporanea – a esprimere il valore e le implicazioni di quella epica battaglia per tutti coloro che si battevano per la libertà e la giustizia sociale, dando fiato ai sentimenti di fratellanza dei popoli oppressi del mondo intero verso il sacrificio di operai e contadini, di marinai e soldati che al prezzo della loro vita sbarrarono a Stalingrado la strada al nazifascismo.
Città, Stalingrado, non possiamo
giungere alle tua mura, siamo lontani.
Siamo i messicani, siamo gli araucani,
siamo i patagoni, siamo i guaranì,
siamo gli uruguaiani, siamo i cileni,
siamo milioni di uomini.
E abbiamo altra gente, per fortuna, nella famiglia,
ma non siamo ancora venuti a difenderti, madre.
Città, città di fuoco, resisti finché un giorno
arriveremo, indiani naufraghi, a toccare le tue muraglie
con un bacio di figli che speravano di tornare.
Stalingrado, non c’è un Secondo Fronte,
però non cadrai anche se il ferro ed il fuoco
ti mordono giorno e notte.
Anche se muori non morirai!
Perché gli uomini ora non hanno morte
e continuano a lottare anche quando sono caduti,
finché la vittoria sarà nelle tue mani,
anche se sono stanche, forate e morte,
perché altre mani rosse, quando le vostre cadono,
semineranno per il mondo le ossa dei tuoi eroi,
perché il tuo seme colmi tutta la terra [14].
Francesco Soverina, storico
[1] Un’accurata ricostruzione di quel titanico scontro si deve ad A. Beevor, Stalingrado. La battaglia che segnò la svolta della Seconda guerra mondiale, Rizzoli, Milano 2016.
[2] Più di 3 milioni di morti furono causati, tra il 1931 e il 1932, dalla terribile carestia in Ucraina, drammatica conseguenza della collettivizzazione integrale dell’agricoltura decisa da Stalin.
[3] Letteralmente: “Forza di Difesa”. È questo il nome assunto dalle Forze armate tedesche nel 1935 e mantenuto sino allo scioglimento nell’agosto 1946, dopo la resa della Germania nazista l’8 maggio 1945.
[4] F. Soverina, La violenza politica di massa. Guerre, stermini e genocidi nella prima parte del Novecento, in «Resist-oria», 2009-2010. Bollettino dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, dell’Antifascismo e dell’Età Contemporanea «Vera Lombardi», p. 34.
[5] Come in occasione della campagna napoleonica del 1812 contro la Russia zarista, il «generale inverno» è stato un prezioso alleato dell’Urss contro le armate naziste.
[6] N. Werth, Storia dell’Unione Sovietica. Dall’impero russo alla Comunità degli Stati Indipendenti 1900-1991, il Mulino, Bologna 1993, pp. 361-62.
[7] Cfr. R. Overy, Russia in guerra 1941-45. Traduzione di Pino Modola, il Saggiatore, Milano 2003, p. 167.
[8] Queste acute notazioni sono tratte da Stalingrado (Adelphi, Milano 2022), l’epico romanzo composto da Vasilij Grossman tra il 1943 e il 1949, in seguito parzialmente rivisto per aggirare il vaglio della censura sovietica, pp. 486-87.
[9] Letteralmente: “Arma dell’aria”. L’aviazione militare tedesca era parte integrante della Wehrmacht.
[10] R. Overy, Russia in guerra … cit., pp. 181-182.
[11] Ivi, p. 186.
[12] Nelle retrovie operarono ben 800.000 partigiani (uomini e donne), che costituirono una spina nel fianco degli invasori.
[13] Così erano soprannominati i fanti dell’Armata Rossa.
[14] P. Neruda, Nuevo canto de amor a Stalingrado. Traduzione di S. Quasimodo, Einaudi, Torino 1952.
Pubblicato mercoledì 1 Febbraio 2023
Stampato il 11/10/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/storia/stalingrado-come-lacciaio-resiste-la-citta/