Mussolini e i fascisti in Parlamento nel 1925, tre anni dopo la marcia su Roma annunciava un pacchetto di norme che trasformarono l’ordinamento giuridico del Regno d’Italia in senso autoritario

È fatto ben noto che la nostra Carta Costituzionale è nata nell’immediato dopoguerra, sulle ceneri dello Stato sabaudo e fascista, a opera dei partiti politici che avevano condotto la Resistenza contro l’occupazione nazi-fascista dell’Italia e che condussero uno sforzo politico e giuridico notevolissimo per dare al Paese dei principi giuridici fondamentali che ne garantissero lo sviluppo futuro, e duraturo, in senso democratico e pacifico, evitando il ripetersi di avventure autoritarie che avevano condotto al disastro bellico.

(La Costituzione italiana ha compiuto 75 anni, Imagoeconomica, Sara Minelli)

Facendo ciò i partiti politici che avevano partecipato alla Resistenza, e che da allora furono definiti come “arco costituzionale”, assunsero un atteggiamento comune di rispetto e difesa di quella legge fondamentale che avevano contribuito a redigere in un contesto di tipo solidaristico tra le forze democratiche e antifasciste. In altri termini, benché tra quelle forze politiche vi fossero profonde differenze di visioni e prospettive, vigeva comunque un vincolo politico che convergeva sul rigoroso rispetto della Costituzione del 1948.

E fintantoché quei partiti furono protagonisti della scena politica del Paese, tale senso di rispetto continuò a esistere, nonostante le profonde divergenze e divisioni tra i partiti presenti in Parlamento.

La cortina di ferro. Espressione coniata da Winston Churchill per rappresentare la divisione tra mondo occidentale e mondo comunista

La principale fonte di queste divisioni fu l’inizio della Guerra Fredda tra Unione Sovietica e blocco dei Paesi occidentali che diede luogo, nel nostro Paese, alla frattura tra i partiti filo atlantisti e le forze del cosiddetto “fronte popolare”, parte maggioritaria del quale era il Partito Comunista Italiano, ritenuto dagli avversari politici come la longa manus dell’Unione Sovietica nel nostro Paese.

Il simbolo del Pci disegnato nel 1953 da Renato Guttuso ha rappresentato l’emblema del Partito comunista italiano fino al suo scioglimento, nel 1991

Tutto ciò si riversò, a livello istituzionale, in quella che successivamente venne definita la “pregiudiziale anticomunista” che condizionò le elezioni politiche e la formazione dei governi almeno fino alla caduta del muro di Berlino e allo sfaldamento del blocco sovietico.

Un modello di telefono degli anni CInquanta

Tale netta spaccatura politica costituì un freno per il rinnovamento della vita sociale e pubblica, che fu condizionata per tutti gli anni 50 e 60 dal mancato rinnovo dei quadri della Pubblica Amministrazione, della Magistratura e perfino del corpo docente della scuola superiore e universitaria. Da tale situazione ne uscì un quadro di sostanziale staticità culturale e sociale, nonché di continuità con la precedente struttura autoritaria e accentratrice dello Stato, prima sabaudo e poi fascista, che per tutti questi anni, determinò una rilevante arretratezza della struttura amministrativa statale e dell’istruzione pubblica; ma anche del nostro ordinamento giuridico, rimasto legato a un impianto di leggi previgenti che ben pochi diritti riconoscevano alla popolazione e ai cittadini.

Palazzo della Consulta, sede della Corte Costituzionale (Imagoeconomica, Livio Anticoli)

Quella situazione venne tuttavia lentamente ma inesorabilmente scardinata, oltre che dal ringiovanimento ciclico della popolazione, anche da importanti sentenze della Corte Costituzionale le quali, finalmente interpretando e applicando i principi dettati dalla Costituzione del 1948, iniziarono a sgretolare quel complesso ordinamentale di leggi e di pratiche che avevano fino ad allora condizionato in senso retrogrado il nuovo Stato repubblicano.

L’accesso in magistratura delle donne ha appena 60 anni, il primo concorso a cui poterono partecipare si tenne nel maggio 1963. In otto le donne vincenti, entrarono in servizio nell’aprile 1965 (Imagoeconomica, Marco Cremonesi)

Basti pensare, quali esempi significativi, all’accesso delle donne nelle Pubbliche Amministrazioni e nella Magistratura, l’abrogazione di parte del Codice penale fascista, con l’abolizione dell’odioso reato di adulterio e della fattispecie prevista di omicidio per causa d’onore.

Considerevoli sono stati infatti gli interventi del Giudice delle Leggi nel senso di svecchiare e mettere al passo, con il progresso sociale e con il sentire comune, il nostro ordinamento giuridico, ma tutto ciò è stato compiuto solo in quanto vi era la legge fondamentale del nostro Stato – la Costituzione – la quale contiene i principi, gli indirizzi e le disposizioni per poter procedere nella progressiva rimozione di norme che tenevano la nostra società in posizione estremamente arretrata rispetto agli altri Paesi europei.

Il simbolo della Dc

Purtroppo però quel sistema parlamentare pluralista e democratico non è stato custodito in modo adeguato dalle stesse forze politiche che lo avevano promosso e, a partire dagli anni 80 dello scorso secolo, si è assistito a un progressivo sfaldamento degenerativo dei partiti maggiori, tra i quali quello, di ispirazione confessionale, che aveva sempre partecipato ai governi dal dopoguerra.

Il risultato di quella generale crisi interna, che indebolì e delegittimò gran parte dei partiti dell’arco costituzionale, determinò l’inceppamento di alcuni meccanismi istituzionali e diede luogo all’entrata, sulla scena politica, di alcune forze dotate di notevole sostegno finanziario proveniente dal mondo economico e imprenditoriale, costituitesi raccogliendo molti reduci dei partiti di ispirazione liberista, che però non avevano partecipato alla stesura della Carta Costituzionale, manifestando anzi una sostanziale estraneità e indifferenza nei confronti della medesima.

Silvio Berlusconi con Bettino Craxi nel 1984

Tutto ciò determinò, con la scomparsa di tutti i partiti che avevano partecipato all’Assemblea Costituente, la rottura di quello schieramento solidaristico, e sensibile ai richiami della Costituzione, di cui abbiamo già detto, nonché la formazione di uno schieramento di destra, anche estrema, molto meno attento, anche perché storicamente estraneo e perfino ostile, all’osservanza del dettato costituzionale e allo sviluppo dei suoi principi.

Tali fatti, succedutisi dalla metà degli anni 90 dello scorso secolo, e resi ancor più evidenti dopo l’inizio di questo secolo, hanno avuto come conseguenza il fatto che nel ventennio che ci precede si sono avuti ben due tentativi di modificazione sostanziale della Costituzione della Repubblica (quella del 1948) e che attualmente siano in discussione una deflagrante riforma delle autonomie regionali, nonché della stessa forma di governo.

Nel 2019 Giorgia Meloni lanciò la campagna presidenzialista. Ora ha virato sul premierato, l’elezione diretta del capo del Governo

Secondo quest’ultima proposta, resa pubblica da pochissimo tempo ma già annunziata nelle precedenti elezioni politiche, il Presidente del Consiglio dovrebbe diventare la figura istituzionale più importante del nostro ordinamento costituzionale, a scapito del ruolo di garanzia ed equilibrio dei poteri del Presidente della Repubblica, e dove il Parlamento, già ridotto nei numeri, e da tempo umiliato per la smaccata strumentalità alla politica governativa che la maggioranza attuale ne ha fatto, dovrebbe cedere il ruolo di preminenza del potere legislativo alla figura del Premier e al potere esecutivo.

Quanto sopra colora di fosche tinte e getta grave incertezza su quello che sarà il futuro assetto politico istituzionale della Repubblica Italiana, anche alla luce della ormai invalsa e arrogante prassi, per cui ogni nuovo governo si sente in dovere di modificare l’ordinamento repubblicano, e anche lo stesso sistema elettorale, a proprio uso e consumo.

Tutto ciò non depone certamente né per una stabilità istituzionale che garantisca e agevoli il progressivo sviluppo politico sociale del Paese nel senso dell’ampliamento della partecipazione democratica, né ci potrà garantire e tenere indenni da nuove avventure di tipo autoritario.

(Imagoeconomica, Sergio Oliviero)

Qualora non si voglia mantenere uno sguardo vigile e attento alla Costituzione, e a quanto essa indica e garantisce, sarà ben difficile che si possa pensare a una fase storica come quella trascorsa dagli anni 50 agli anni 90 dello scorso secolo nel corso del quale, nonostante tutto, si sono raggiunti importanti risultati sul piano della crescita economica, civile e sociale del nostro Paese, che è diventato uno dei più importanti del mondo. Cioè allorché si è sostanzialmente lavorato per realizzare i compiti fondamentali della Repubblica, secondo l’art. 3 della Costituzione.

In altri termini è proprio la Costituzione della Repubblica Italiana a essere stata la stella polare della vita democratica e dello sviluppo del nostro Paese, in quanto nel rispetto di essa si è esercitata la sovranità popolare.

In definitiva, non avremmo avuto mai uno stato democratico che potesse garantire il progresso del Paese senza la sua Costituzione, nata dalla Resistenza antifascista e democratica.

Pietro Garbarino, avvocato cassazionista, iscritto Anpi e socio di Libertà e Giustizia