Col gentile permesso dell’autore pubblichiamo il testo della relazione tenuta in occasione del Convegno dell’UCEI del 24 gennaio dal Presidente Giovanni Canzio. La relazione è stata pubblicata sulla rivista “Diritto penale contemporaneo”.
- La ricorrenza degli ottant’anni dall’emanazione delle leggi sulla tutela della razza costituisce l’occasione di una profonda riflessione su una questione che riguarda direttamente l’identità non solo della nostra comunità nazionale, ma dell’intera e composita comunità europea.
Dobbiamo domandarci, innanzitutto, come sia stato possibile che nel cuore dell’Europa, nella culla della civiltà giuridica, una legge abbia potuto limitare la capacità dei cittadini sulla base della loro appartenenza ad una razza, isolandoli tramite l’articolato impiego della macchina amministrativa.
È certamente vero, come sostenuto da molti storici, che con le leggi razziali il regime intendeva compiacere l’alleato tedesco. Ma è altrettanto vero che l’alleanza con il nazismo non avrebbe mai costituito, da sola, una premessa sufficiente all’adozione di norme così aberranti: ad esse, larga parte dell’opinione pubblica era invece stata preparata da tempo, con un clima alimentato negli anni precedenti che al momento opportuno la rese acquiescente, quando non entusiasta o cinica nell’approfittarne.
Già a partire dalla seconda metà degli anni Venti il regime fascista aveva sollecitato istanze diffuse di tutela della razza come conseguenza delle conquiste coloniali in Abissinia, ponendo il problema di una possibile “contaminazione” della razza italiana con le popolazioni indigene e facendo emergere la volontà programmatica di affermare la superiorità della razza bianca e della civiltà latina, fino al punto di ritenere accettabili alcune pratiche discriminatorie. Da tanto, anzi, il regime puntava a far derivare un proprio rilancio interno, poiché attraverso una sorta di rinnovamento del costume nazionale si riprometteva di dare al popolo italiano maggiore consapevolezza della sua potenza, che di lì a poco sarebbe sfociata in una tensione permanente in armi.
Queste politiche costituirono un facile terreno di coltura per l’antisemitismo; è significativo, del resto, che a partire dall’inizio degli anni Trenta prese avvio una fiorente attività editoriale, rafforzata da una campagna di stampa, per l’apertura di una “questione ebraica” in Italia, il cui fine – seppur mascherato dall’avversione per una vagheggiata congiura giudaica internazionale, caratterizzata da azioni sovversive e rivoluzionarie – era quello di contrapporre identità ebraica ed identità nazionale italiana, tratteggiandole come incompatibili.
Ed ancor più significativo è il fatto che nello stesso anno 1938, prima dell’emanazione del cosiddetto Manifesto della razza (13 luglio) e del censimento degli ebrei (22 agosto), il ministro dell’Educazione nazionale avesse chiesto alle università italiane di censire, fra gli studenti e gli insegnanti, gli appartenenti alla minoranza ebraica; gli stessi che poi avrebbe provveduto ad espellere con il successivo decreto del 5 settembre, insieme ai docenti delle scuole statali o parastatali, alle quali veniva al contempo vietato di consentire l’iscrizione degli «alunni di razza ebraica». Si dimostrava così la volontà di attuare una seria politica razziale, escludendo gli appartenenti alle comunità ebraiche dalla vita sociale fin dal suo nucleo iniziale – la scuola – e da tutto ciò che ruotava intorno ad esso, come le famiglie, le associazioni e le aggregazioni giovanili.
Questa premessa appare necessaria perché evidenzia come l’adozione di norme discriminatorie abbia fatto leva su una società già sensibilizzata all’idea dell’“uomo nuovo” fascista, simbolo di un’identità nazionale che le leggi razziali avrebbero potuto difendere e proteggere.
- Le discriminazioni nei confronti degli ebrei adottate con le leggi razziali sono state ritenute dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 268 del 1998, «lesive dei diritti fondamentali e della dignità della persona».
Questa considerazione, nella sua drammatica essenzialità, ci consente di affermare che il valore di una legge non può mai consistere nel solo fatto che essa esprime la volontà del legislatore: occorre sempre verificarne la corrispondenza ai principî fondamentali dell’ordinamento ed al perseguimento dei suoi fini.
In questo senso, non si può non ricordare il ruolo storico dei magistrati, ed il modo con cui essi assunsero il loro compito di dare applicazione a quelle leggi nella loro funzione non solo di interpreti della volontà del legislatore, ma anche e soprattutto di custodi dell’ordinamento.
In effetti, le leggi razziali vulneravano gravemente i principî espressamente garantiti dall’ordinamento costituzionale vigente; l’art. 24 dello statuto albertino affermava infatti che tutti gli appartenenti al regno erano eguali dinanzi alla legge, godevano dei diritti civili e politici e potevano accedere alle cariche civili e militari.
Per questo, nell’introdurre tali leggi il regime intese farsi forte dell’esistenza di un assetto dell’ordinamento giudiziario che consentiva all’esecutivo un certo spazio di controllo – quando non anche il condizionamento – del contenuto delle decisioni giudiziarie. E per impedire che residuassero spazi di tutela effettiva dei diritti – il cui presidio competeva alla giurisdizione – lo stesso regime non ebbe alcuno scrupolo ad eliminare i magistrati “scomodi” che, per l’imparzialità in precedenza dimostrata, soprattutto nei confronti delle violenze fasciste, avevano dimostrato doti di indipendenza non gradite.
Già in tempi assai ravvicinati alla presa del potere da parte del partito fascista era stato approvato il r.d. n. 1028 del 1923, che prevedeva la dispensa dal servizio dei magistrati che apparissero «non in condizione di adempiere con efficacia il loro ufficio» per malattia, incapacità «o per altri motivi», espressione – quest’ultima – che per la sua assoluta genericità consentì all’esecutivo di liberarsi di molti magistrati ritenuti “non allineati”, tra i quali Lodovico Mortara e Raffaello De Notaristefani, rispettivamente Primo Presidente e Procuratore Generale presso la Corte di cassazione.
Con la definitiva stabilizzazione della dittatura venne poi approvata la legge n. 2300 del 1925, che consentiva al governo di dispensare dal servizio tutti i dipendenti pubblici «che, per ragioni di manifestazioni compiute in ufficio o fuori di ufficio» non davano «garanzia di un fedele adempimento dei loro doveri» ovvero dimostravano «incompatibilità con le generali direttive politiche del governo»; tale norma fu applicata nei confronti di vari magistrati, tra i quali Vincenzo Chieppa, già segretario generale della disciolta associazione fra i magistrati d’Italia.
Vi fu poi, all’indomani dell’approvazione delle leggi razziali, una cospicua epurazione di magistrati. Alcuni furono dispensati dal servizio; altri collocati forzatamente a riposo prima del provvedimento di dispensa; numerosissime, inoltre, furono le esclusioni dal concorso in magistratura.
Dei primi magistrati epurati, alcuni proseguirono il loro impegno per la libertà e la giustizia soprattutto dopo il 1943, quando si passò dalle persecuzioni degli interessi alle persecuzioni delle vite degli italiani ebrei; fra i loro nomi, come esempio, va ricordato quello di Mario Finzi, che divenuto magistrato a soli ventiquattro anni e dispensato dal servizio mentre esercitava le proprie funzioni a Milano, si dedicò in seguito all’insegnamento presso la scuola ebraica di Bologna, coinvolgendosi in prima persona nell’assistenza ai rifugiati ebrei in Italia; successivamente arrestato nel marzo del 1944, egli fu dapprima rinchiuso nel campo di concentramento di Fossoli, quindi trasportato ad Auschwitz-Birkenau, dove morì il 22 febbraio 1945.
Ma insieme a tali esempi, si deve sottolineare che la gran parte dei magistrati, rimasta in servizio e chiamata ad applicare le leggi razziali, ne diede fin da subito un’interpretazione che consentì comunque di sviluppare un sistema di tutela giurisdizionale per i cittadini ebrei così ingiustamente lesi nei loro diritti. In altre parole, la magistratura, pur non operando nel contesto di un ordinamento liberale, e non ancora accompagnata dalle garanzie di indipendenza proprie di un sistema costituzionale, affrontò i fatti sottoposti al suo giudizio – che spesso riguardavano vicende umane assai dolorose – senza venir meno alla sua funzione di tutela dei principî fondamentali, e producendo un grande sforzo per limitare gli effetti eversivi delle leggi razziali.
Il regime, in particolare, mirava ad introdurre il concetto di “razza” come requisito per il riconoscimento della capacità giuridica; e per assicurarsi il raggiungimento dei suoi obiettivi aveva previsto con apposita norma – l’art. 26 del r.d. n. 1728 del 1938 – che ogni questione relativa all’applicazione delle leggi razziali sarebbe stata risolta caso per caso dal ministro per l’Interno con provvedimento non soggetto ad alcun gravame, anche giurisdizionale. Ebbene, la magistratura, pressoché per intero, continuò a ribadire che il concetto di razza era estraneo all’ordinamento italiano, non modificato nel suo complesso da un provvedimento avente natura e fini esclusivamente politici, e nella maggioranza dei casi non abdicò alla sua funzione, rifiutando di rimettere al ministro le questioni sottoposte al suo giudizio.
Così, ad esempio, in una delle prime sentenze rese in materia, relativa ad una vicenda di filiazione (5 maggio 1939), la Corte d’Appello di Torino rilevò che «il conoscere dell’appartenenza a razza determinata di una parte in giudizio non sfugge alla giurisdizione del giudice ordinario per rientrare in quella dell’autorità amministrativa, quando trattasi di deliberare sulla capacità giuridica dei cittadini ad ogni effetto di diritto civile»; ed anche la Corte di cassazione, pronunziando a Sezioni Unite (sentenza 2 luglio 1942, n. 1856), affermò che l’art. 26 non poteva riservare al governo la conoscenza di tutte le questioni di ordine teorico e pratico cui avrebbe dato luogo l’applicazione e l’attuazione dei provvedimenti sulla difesa della razza, ché anzi «in via logica e grammaticale… a tale disposizione, la quale deroga ai principî generali sulla competenza giurisdizionale ed al sistema generale dei controlli di legalità e della guarentigia dei diritti… non può autorizzarsi interpretazione estensiva… ed al riguardo l’unico criterio desumibile è quello dato di interpretare le disposizioni come jus singulare».
Dunque, mentre in Germania negli stessi anni, i giudici applicavano le norme razziali facendosi interpreti del comune sentimento popolare e conformandosi all’ideologia nazista, in Italia si continuava ad interpretare il diritto rifacendosi ai principi generali ed alle architetture fondamentali dell’ordinamento, con un significativo argine al controllo assoluto dell’opinione pubblica messo in atto dal regime.
Il tutto con il conforto di alcuni autorevoli giuristi ed esponenti del mondo accademico, che si distinsero da quanti preferirono piegarsi al volere del regime e, mossi da ideali alti di giustizia, si opposero al pensiero dominante continuando ad aderire con coscienza ai principi di giustizia. Uno di essi, Arturo Carlo Jemolo, avrebbe ricordato alcuni anni dopo: «Giuristi e non giuristi, soprattutto nelle parti d’Italia che hanno subito l’occupazione tedesca, ci siamo resi conto che la vita morale non si può ridurre a formule, paiano esse le più sicure. E sentiamo che questa esperienza non ci porta affatto a rivedere la base profonda della nostra morale, le nostre nozioni di bene e di male; non ci porta nemmeno alla conclusione (che sarebbe di particolare pericolosità) che l’agire bene possa sbocciare da un istinto buono, e non da una legge razionale; ci porta solo a comprendere che l’infinita varietà, la complessità della vita non consente di arginare l’agire dentro formule. Per molti anni non ho mai deflesso dal principio dell’interpretazione schietta della legge, anche quando essa portava a conculcare i valori politici che mi erano cari. Ma vennero delle forme di persecuzione che giudicavo particolarmente odiose – alludo a quella razziale – e qualche nota ho scritto, per sostenere interpretazioni della legge che sapevo contro la voluntas legis, cioè errate».
- Dalla tragica esperienza delle leggi razziali è nata, così, una consapevolezza che ha permeato molte delle scelte adottate nella successiva redazione della nostra Carta fondamentale.
Basti pensare al principio sancito dall’art. 113 della Costituzione, secondo il quale «contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa», tutela che «non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti». I singoli termini utilizzati dai costituenti, lo stesso incipit della norma, sono significativi del fatto che nell’architettura del nuovo ordinamento democratico l’esperienza delle leggi razziali era ancora ben viva.
E su questa stessa esperienza si è radicata l’affermazione di altri e fondamentali principî affermati dalla Costituzione: si possono qui ricordare, per la loro importanza, il riconoscimento dei diritti inviolabili della persona (art. 2), l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge senza distinzione di razza (art. 3), il diritto al lavoro (art. 4), l’eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge e il diritto di libera professione del proprio credo religioso (artt. 8 e 19), la libertà di associazione per fini di culto (art. 20), la libera manifestazione del pensiero (art. 21), il divieto di privazione, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza e del nome (art. 22).
Tali principî costituiscono soltanto il portato più evidente della coscienza collettiva acquisita all’indomani della grande tragedia della Shoah. Ed è anche in forza di questa rinnovata coscienza che i costituenti posero a fondamento del nuovo ordinamento democratico del nostro Paese due architravi: il riconoscimento a ogni componente della famiglia umana di diritti uguali ed inalienabili, dai quali derivano libertà ed autonomie individuali e collettive, e l’organizzazione dello Stato in base al principio del pluralismo e della separazione dei poteri, fra i quali la magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente che ha la funzione di garantire il rispetto e la tutela dei diritti.
- Queste riflessioni portano un insegnamento che mantiene oggi intatta tutta la sua validità.
Ci spingono anzitutto ad impedire che ogni forma di razzismo, anche strisciante o latente, possa nuovamente attecchire e trovare una qualche legittimazione, soprattutto giuridica; ci dimostrano, al contempo, che dalla ferita inferta ai diritti ed alla libertà di molti è tuttavia derivata una possibilità di bene per tutti; e perciò ci conducono a comprendere che i diritti e le libertà acquisite attraverso il sacrificio costituiscono un patrimonio da difendere ogni giorno.
In ciò risiede l’importanza di coltivare il ricordo di quanto accaduto, soprattutto negli ambiti ove si promuovono la formazione, l’istruzione e la cultura. La Giornata della memoria – il cui fine, espressamente previsto dalla stessa legge istitutiva, è quello di ricordare la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei e di quanti subirono la deportazione, la prigionia e la morte, per impedire che eventi simili possano nuovamente accadere – non deve perciò esaurirsi in una semplice ricorrenza che rischi di scadere in vuota espressione rituale, ma deve costituire l’occasione per tenere gli occhi aperti sulle sfide che quotidianamente il contesto sociale, politico e normativo ci presenta.
Come ha scritto Elisa Springer, una delle ultime testimoni della Shoah in Italia, sapere, capire e comprendere non è solo l’unico modo per sperare che l’orrore non si ripeta, ma è anche l’unica via per restituire alla vita e a tutti gli uomini il significato della parola «libertà».
Giovanni Canzio, Primo Presidente emerito della Corte Suprema di Cassazione
e docente dell’Università cattolica del Sacro Cuore
Pubblicato lunedì 16 Aprile 2018
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