Nel 1904 sul “Geographical Journal” Halford Mackinder, che poi sarebbe stato consigliere della delegazione britannica alle conferenze per la pace nel 1919 e dei corpi di spedizione alleati intervenuti nella guerra civile tra “bianchi” e “rossi”, ha additato nella Russia meridionale e nella zona del Mar Nero il perno della storia. Si trattava di un giudizio dettato dal rilievo assunto dall’antagonismo tra Londra e Pietroburgo, che per quasi tutto l’Ottocento si erano contese il controllo degli Stretti di mare e la supremazia in campo mondiale.
Dentro questa dinamica geopolitica la penisola di Crimea, passata nel 1783 sotto lo scettro dell’imperatrice Caterina II, è stata teatro dal 1853 al 1856 di un cruento conflitto tra la Russia zarista, che mirava al predominio sul Mar Nero, e l’Inghilterra e la Francia, che si schierarono al fianco dei turchi ottomani per arginare l’espansionismo russo, intenzionato ad approfittare dell’inesorabile declino della Sublime Porta per aprirsi degli sbocchi sicuri nel Mediterraneo. Entrambe le parti in lotta, le cui truppe erano decimate dall’imperversare di un’epidemia di colera, tentarono – senza riuscirvi – di avere il sostegno militare dell’Austria, indebolitasi dopo la tempesta rivoluzionaria del 1848.
Di qui l’abile mossa di Cavour, che con l’invio, nel 1855, di 15.000 uomini in appoggio agli anglo-francesi poté partecipare al Congresso di Parigi, sedere al tavolo della pace, dove sollevò la “questione italiana” con parole, riprese da tutti i giornali europei, che colpirono l’opinione pubblica internazionale e gli stessi governi, compreso quello francese di Napoleone III.
La sconfitta subita dalla Russia, se segnava una battuta d’arresto della sua spinta espansionistica, metteva in luce l’arretratezza del «gendarme d’Europa», a cui Alessandro II cominciò con il porre rimedio mediante l’abolizione della servitù della gleba nel 1861, lo stesso anno in cui fu proclamata l’unità d’Italia, mentre nell’America del Nord scoppiava la guerra di secessione, destinata a protrarsi sino al 1865 e a chiudersi con il tragico bilancio di mezzo milione di morti.
La Russia, che per effetto dello scacco patito in Crimea si ritrovò ostruita la discesa verso il Mediterraneo, per un ventennio concentrò i suoi sforzi in Siberia, per conseguire nel Pacifico l’obiettivo dell’agognato accesso a un mare ‘libero’. Da allora la politica estera di Pietroburgo oscillò come un pendolo tra l’area balcanica e l’Estremo Oriente, volgendo la sua attenzione all’una o all’altro a seconda delle situazioni e dei rapporti di forza sulla scena internazionale. A far scricchiolare in maniera preoccupante l’impero russo sarà l’umiliazione della guerra persa, tra il febbraio 1904 e il settembre 1905, contro l’emergente potenza asiatica del Giappone, sostenuta – guarda caso – dalla Gran Bretagna. Pesantissimi i contraccolpi sul piano interno: è in quel frangente che si avviò la dissoluzione dello zarismo, crollato in seguito al bagno di sangue nel Primo conflitto mondiale e alla duplice deflagrazione rivoluzionaria del 1917.
All’indomani del sisma geopolitico provocato dal disfacimento dell’autocrazia russa e degli Imperi Centrali, divampò anche in Ucraina la guerra civile, in cui si fronteggiarono l’Armata Rossa guidata da Lev Trockij, l’Armata Nera dell’anarchico Nestor Machno e, appoggiati da contingenti delle potenze dell’Intesa, i controrivoluzionari “bianchi” dell’Ataman Skoropadskij, che si resero protagonisti di tremendi pogrom antisemiti, uccidendo molte decine di migliaia di ebrei. Della Kiev stretta in una morsa di fuoco, tra il 1918 e il 1919, parlerà – attraverso gli occhi della famiglia Turbin – il grande scrittore ucraino Michail Bulgakov nel romanzo La guardia bianca, a cui Boris Pasternak si ispirerà per il suo Dottor Živago.
La città, da sempre considerata la culla della civiltà russa, era circondata al tempo stesso dai “rossi” e dai nazionalisti di Simon Vasil’evich Petljura, che finì per fiancheggiare Józef Pilsudski nella guerra russo-polacca, mettendo da parte gli antichi dissapori degli ucraini con i polacchi.
Perciò – come ha notato lo storico Franco Cardini – non è così sorprendente che gli abitanti di Kiev siano accorsi a rendere omaggio al premier polacco Morawiecki in visita alla loro capitale il 15 marzo 2022, un’occasione dove si è tanto ricordato Petljura. Con la vittoria dei bolscevichi, al termine di un estenuante e durissimo conflitto, l’Ucraina divenne nel 1922 una repubblica federale all’interno dell’Urss. Per la prima volta il popolo della «terra di frontiera» aveva un suo Stato. Si è trattato – secondo l’attuale presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin – di «un’invenzione di Lenin», del fondatore del bolscevismo e dell’Urss.
Come tutti i territori dell’Urss, l’Ucraina, con Stalin saldamente insediato al potere, fu chiamata a realizzare celermente, a partire dal 1929, secondo le indicazioni dei piani quinquennali, un progetto di modernizzazione autoritaria promosso dall’alto. Particolarmente ‘onerose’ furono le conseguenze della collettivizzazione integrale dell’agricoltura, della stretta repressiva della campagna per l’eliminazione dei kulaki (i contadini medi e ricchi), che tra il 1931 e il 1932 causarono in Ucraina l’Holodomor («lo sterminio per fame»), con milioni di morti.
Cosicché, quando la Germania hitleriana e i suoi alleati aggredirono l’Urss nel giugno 1941, non pochi tra gli ucraini affiancarono le divisioni del Terzo Reich, che però si alienò le simpatie di gran parte della popolazione, asservendola brutalmente, in quanto ritenuta un miscuglio di «negri bianchi». Tuttavia, giova ricordare che ucraine erano le guardie del famigerato campo d’annientamento di Treblinka e che all’incirca 1.600.000 ebrei vennero liquidati fisicamente in quello che era considerato il “granaio” dell’Urss. Terribili i massacri di Babij Jar, nei pressi di Kiev (29-30 settembre 1941), e di Odessa (24-25 ottobre 1941).
Va altresì rammentato che ‘bande’ di nazionalisti ucraini si batterono tanto contro i nazisti, quanto contro i sovietici, nonché si scontrarono con i partigiani polacchi in una guerra nella guerra che fece registrare 100.000 caduti. Di questo triplice conflitto uno dei personaggi più in vista è stato il leader del movimento nazionalista ucraino Oun, Stepan Bandera, eliminato a Monaco nel 1959 – probabilmente dal Kgb – e oggi celebrato come un eroe nazionale.
Sul finire della seconda guerra mondiale, che ha visto l’Urss pagare, nella lotta al nazifascismo, un prezzo altissimo in termini di distruzioni materiali e di vite umane (25 milioni di morti tra civili e militari), si tenne a Yalta, in Crimea, dal 4 all’11 febbraio 1945 un vertice importantissimo tra i cosiddetti «tre grandi» (Roosevelt, Churchill e Stalin), in cui venne delineato il futuro assetto geopolitico del mondo.
Un assetto, quello della guerra fredda, che si è imperniato sul bipolarismo sovietico-statunitense e sull’equilibrio del terrore nucleare; un assetto durato sino al 1989-´91, quando si è assistito all’implosione dei regimi del «socialismo reale» e allo sfaldamento dell’Unione Sovietica, con la conclusione – per dirla con Eric J. Hobsbawm – del «secolo breve».
È stato proprio allora che l’Ucraina, scossa nel 1986 dal disastroso incidente nucleare di Chernobyl, si è staccata dalla Russia; è stato proprio allora che la neonata Federazione Russa ha intrapreso un difficile cammino sotto la guida di Boris El’cin, precipitando in una grave crisi per il collasso dell’impalcatura dell’era sovietica e per l’avvento di un capitalismo selvaggio, generatore di profonde sperequazioni sociali.
In quel contesto, approfittando della malattia di El’cin e del riaccendersi nel 1999 del conflitto con i separatisti ceceni, è asceso alla presidenza l’ex funzionario del Kgb Vladimir Putin. Vestendo i panni del tutore dell’ordine e dell’uomo forte, sino a far sopprimere quanti hanno denunciato la sua illiberale gestione del potere, come la giornalista Anna Politkovskaja, è riuscito a ottenere l’appoggio dei gruppi nazionalisti e dei vertici del complesso militar-industriale, interessati a impadronirsi del petrolio del Mar Caspio. Fautore di una modernizzazione dall’alto, fondata su un capitalismo in mano a “oligarchi” a lui fedeli, ha puntato sulle risorse naturali del proprio Paese (il gas innanzitutto) e sulla forza militare per rilanciare la Russia quale superpotenza su scala globale.
Dalla breve guerra in Georgia del 2008, ma soprattutto a partire dal 2011 il capo del Cremlino ha esibito un notevole dinamismo in campo internazionale, inviando truppe in Libia e in Siria, sviluppando una fitta trama di relazioni politico-diplomatiche, intessendo o rinsaldando alleanze con l’Iran e la Cina, foraggiando partiti e movimenti populisti in Europa. E guardando con crescente preoccupazione al progressivo ampliamento della Nato a Est, che non ha tenuto conto delle lamentele russe e di quanto era stato promesso a Michail Gorbačëv al momento della disintegrazione dell’Urss. Un ampliamento che ha portato all’ingresso nell’Alleanza Atlantica, trasformatasi in patto di collaborazione militare, di Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia nel 1999, di Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia nel 2004, di Albania e Croazia nel 2009, del Montenegro nel 2017 e della Macedonia del Nord nel 2020.
Suonano, perciò, profetiche le previsioni formulate, nel 1997, da George Kennan, l’artefice della dottrina strategica del contenimento dell’Urss: «l’allargamento della Nato sarebbe il più fatale errore della politica statunitense dalla fine della guerra fredda. Ci si può aspettare che questa decisione susciti tendenze nazionalistiche, antioccidentali e militaristiche nell’opinione pubblica russa». E così è stato: il riaffiorare della sindrome da accerchiamento nell’élite russa si è saldato con il riemergere delle ambizioni imperiali del nazionalismo grande-russo, di cui Putin attualmente è la maggiore, più inquietante espressione.
L’ossessione di avere un’estesa cintura di sicurezza, di ripristinare una propria vasta sfera d’influenza, è alla base della brutale aggressione all’Ucraina scattata il 24 febbraio 2022, presentata come«operazione speciale militare» e giustificata da Putin con la motivazione, alquanto pretestuosa, di voler «denazificare» l’intero Paese confinante. In realtà il leader russo, a quella data, si ripromette di ridurre a tutti i costi l’Ucraina a zona smilitarizzata e neutrale.
Quello in atto – a ben guardare – è un conflitto iniziato con l’occupazione russa della Crimea nel 2014, come risposta all’esautoramento del presidente ucraino Victor Janukovyč vicino a Mosca, dopo le cruente proteste di «Euromaidan», caratterizzate dalla massiccia presenza dei neonazisti di Pravyi Sector tra i manifestanti e dalla morte di decine di persone tra i rivoltosi e le forze di polizia.
Da quell’anno nel Donbass, che peraltro è il maggiore bacino carbonifero e minerario d’Europa, in particolare nelle regioni a maggioranza russofona di Luhans’k e di Donetsk, si è dispiegata la decisa controffensiva delle truppe di Kiev, sostenute da formazioni paramilitari, come i filonazisti del famigerato Battaglione Azov, macchiatisi di atroci crimini, tra cui l’assassinio di 42 persone, bruciate vive – il 2 maggio 2014 – nella Casa dei sindacati di Odessa.
Un conflitto – finora oltre 14.000 le vittime – saldatosi all’aggressione della Russia all’Ucraina, che ha aperto una nuova, drammatica fase nella disputa geopolitica per la supremazia sul piano globale, i cui contendenti principali sono la Cina di Xi Jinping e gli Stati Uniti di Joe Biden. Questi ultimi, al fine di indebolire seriamente il loro più pericoloso rivale sul terreno militare e potersi poi concentrare contro il loro maggiore antagonista, stanno da tempo rifornendo di armi il governo di Kiev e addestrandone l’esercito mediante i tanti volontari, contractors e funzionari dell’Intelligence presenti in Ucraina.
Dopo aver spedito a Kiev – dall’inizio delle ostilità – armamenti per oltre tre miliardi di dollari e messo a disposizione del presidente ucraino Volodimir Zelensky le proprie risorse mediatiche, a fine aprile gli Usa hanno accentuato ulteriormente il loro coinvolgimento nel conflitto. D’altronde, grazie alle loro informazioni le Forze armate ucraine hanno potuto uccidere in battaglia almeno 12 generali russi e affondare, il 13 aprile 2022, l’incrociatore Moskva, l’ammiraglia della flotta moscovita del Mar Nero. E grazie ai loro missili anticarro Javelin, i soldati di Kiev hanno potuto distruggere migliaia di tank russi. Le pesanti perdite subite, a opera dell’inaspettata quanto caparbia reazione ucraina, hanno spinto il Cremlino a rivedere piani e obiettivi, a riposizionare il proprio esercito, ad ammassare le proprie truppe nel Donbass, nel protrarsi di un conflitto che minaccia di trascinare intere aree del pianeta in una gravissima crisi economica e alimentare, a causa dell’intreccio tra gli effetti delle sanzioni comminate da Washington e dai suoi alleati europei alla Russia e la paralisi della produzione cerealicola ucraina, destinata a marcire nei silos per il blocco dei porti che si affacciano sul Mar Nero.
Un conflitto che sta infliggendo sempre più lutti, privazioni e sacrifici alle popolazioni locali. Quella che si sta combattendo in Ucraina – secondo un trend cominciato con il Secondo conflitto mondiale – è anche una «guerra ai civili», come provano i massacri di Buča e di Mariupol, come attestano le immagini di morte e distruzione che ci arrivano quotidianamente da quelle terre, in un susseguirsi di edifici sventrati, di scheletri anneriti di case, negozi e fabbriche, di gente in fuga – milioni sono gli sfollati – e di corpi privi di vita lungo vie e strade bersagli di missili, cannoni, mitragliatrici e fucili.
È forse azzardato – prima che l’hegeliana «nottola di Minerva» abbia spiccato del tutto il suo volo – pronunciarsi sulle molteplici implicazioni di una guerra, che comunque rischia di innescare una nefasta escalation militare e nucleare e che si va configurando come una tappa cruciale della lunga «transizione egemonica» da una leadership globale a un’altra. Tuttavia, aveva probabilmente ragione Halford Mackinder nel definire, più di un secolo fa, perno della storia l’area dentro cui si trova la Crimea, ora sconvolta da una lacerante guerra. E forse conviene raccogliere l’invito dello studioso tedesco Dan Diner (“Raccontare il Novecento”) a ripensare la storia d’Europa da un punto d’osservazione apparentemente periferico: le scale di Odessa.
Francesco Soverina, Istituto campano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea
Pubblicato martedì 7 Giugno 2022
Stampato il 11/10/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/primo-piano/la-storia-vista-dalla-scalinata-di-odessa/