In questi giorni, ormai a ridosso della data di convocazione del Parlamento in seduta comune per l’elezione del Presidente della Repubblica, si sta evidenziando sempre di più il paradosso che ha caratterizzato il recente dibattito pubblico sulla figura del nuovo Capo dello Stato: tanto più i leader e i commentatori insistono sulla necessità di focalizzare l’attenzione sul profilo istituzionale del futuro inquilino del Quirinale, quanto più si finisce per concentrarsi sui nomi e sullo sterile gossip delle anticipazioni e dei veti attraverso i quali le candidature, più o meno inquietanti e avanzate con maggiore o minore convinzione, vengono promosse o bocciate.
Peraltro, anche questo dato è ricollegabile a una delle caratteristiche più visibili del dibattito in essere, ovvero la propensione della maggior parte degli interlocutori a valutare il peso di ciascuna delle candidature sulla base delle prospettive di evoluzione del quadro politico nel brevissimo termine, ovvero nel ristretto spazio temporale che separa il voto dei grandi elettori dalla conclusione della legislatura.
Se è certo vero che in qualsiasi passaggio elettorale il contesto politico generale costituisce un elemento di riferimento imprescindibile, altrettanto è vero che, nell’elezione del Capo dello Stato, questo ordine di considerazioni deve essere bilanciato (e in una certa misura cedere il passo) da valutazioni di più lungo periodo; quelle, tanto per capirsi, alle quali si richiamava Alcide De Gasperi quando ammoniva che il politico guarda alle prossime elezioni mentre lo statista guarda alle prossime generazioni.
Ed è appena il caso di ricordare che proprio alle prossime generazioni è dedicato il Next Generation Ue, il programma di interventi anti crisi – al quale il compianto presidente Sassoli ha dedicato gran parte del suo impegno alla guida del Parlamento europeo – con cui l’Unione ha ridefinito le proprie strategie economiche segnando una discontinuità, auspicabilmente definitiva, con le precedenti politiche di austerity, che nel decennio appena trascorso hanno così profondamente concorso al logoramento della fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni comunitarie. E il tema del rapporto tra cittadini e istituzioni ha molto a che fare con l’elezione del Presidente della Repubblica!
Nel suo discorso di fine anno, il Presidente Mattarella ha sollevato questioni che attengono strettamente alle prospettive di lungo periodo dell’organo che ha ricoperto in questi sette anni con acume e saggezza, ricevendo molte lodi e poco ascolto; e un’altra indicazione, implicita, ma preziosa, sul futuro della Presidenza l’ha fornita respingendo l’ipotesi di una rielezione che, così come prospettata da molte parti, avrebbe premiato l’approccio tatticista e di corto respiro che lega l’elezione del Presidente esclusivamente alla continuità dell’azione del governo in carica e conseguentemente della legislatura: questioni certo non di poco momento, ma solo se vengono affrontate in rapporto ai grandi temi che la pandemia ha posto in modo ineludibile, non soltanto in Italia, e che riguardano, in sostanza, l’inadeguatezza del modello di sviluppo perseguito negli ultimi decenni dal pensiero unico neoliberista a fare fronte alle emergenze sociali e sanitarie, a vecchie e nuove diseguaglianze e discriminazioni, al degrado ambientale e al moltiplicarsi di focolai di tensione internazionale.
L’Italia della pandemia è un Paese sempre più povero e sempre più ingiusto, con una società divisa da conflitti e paure che testimoniano di una diffusa difficoltà a orientarsi in uno spazio pubblico sospeso tra l’irreversibilità della crisi in atto e un’ansia di rinnovamento che stenta a prendere forma e non trova risposte adeguate in una politica depotenziata nelle sue capacità progettuali ma non per questo meno autoreferenziale. Ancora una volta, in un momento in cui l’entropia del sistema sembra destinata ad aumentare, il punto di equilibrio va ricercato nel sicuro ancoraggio della Costituzione, alla lettera e allo spirito della quale, peraltro, il Presidente della Repubblica ha fatto costante richiamo nel suo discorso di fine anno. Da una lettura anche superficiale della Carta fondamentale risulta chiaro che il Capo dello Stato non è chiamato ad amministrare le contingenze del presente, e tantomeno a svolgere quelle funzioni “neutre” che la dottrina ottocentesca attribuiva ai sovrani costituzionali.
Qualcuno ha affermato, non senza ragione, che nel disegno costituzionale le prerogative e le funzioni del Presidente della Repubblica sono raffigurabili come una fisarmonica, nel senso che sono suscettibili di espansione o compressione a seconda delle circostanze e dei momenti; il che investe il vertice dello Stato di un ruolo di regolazione, di ammonimento e di moral suasion che può essere più o meno penetrante, in rapporto allo stato di salute delle diverse istituzioni, alla rispettiva capacità di svolgere compiutamente la missione loro assegnata dall’ordinamento, all’equilibrio dei rapporti reciproci e alla tenuta del rapporto di fiducia che li lega ai cittadini.
Se si guarda alla storia più recente del nostro Paese, non si ha difficoltà a comprendere il ruolo essenziale svolto dalla Presidenza della Repubblica in momenti particolarmente critici: per ripristinare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni rappresentative, scossa dalla crisi di sistema successiva a Tangentopoli; per assicurare continuità e stabilità del sistema politico in momenti di forte crisi della rappresentanza politica e di elevata conflittualità tra i partiti quale si è manifestata da ultimo nella passata legislatura e in quella corrente; per rafforzare la posizione internazionale del nostro Paese e soprattutto il suo ancoraggio europeo di fronte alle offensive sovraniste, nonché per ribadire il carattere antifascista della Repubblica nata dalla Resistenza.
Questi pochi riferimenti servono a ricordare che, nel nostro ordinamento, il Presidente è in primo luogo il garante della continuità e della effettività dei principi e dei valori sui quali è fondato il patto costituzionale: in questo senso, e non certo in una dimensione identitaria o nazionalistica, l’art. 87, primo comma, gli attribuisce la funzione di rappresentanza dell’unità nazionale. E in un contesto come quello attuale, nel clima di incertezza e di confusione che lambisce la convivenza civile e minaccia da vicino la coesione sociale, questa funzione assume una valenza strategica, di lungo periodo, e richiede pertanto di essere assunta da una personalità pienamente consapevole delle diverse implicazioni che essa comporta: non ultima quella di sapere parlare alla società e di interpretarne tensioni e aspettative.
Non si può non sottolineare, a questo proposito, l’importanza dei moniti recenti del Presidente Mattarella sulle implicazioni delle derive complottiste, irrazionalistiche e antiscientifiche presenti in una parte non irrilevante del movimento no vax (prontamente sfruttato dalla propaganda neofascista), in particolare per il vulnus che da esse può derivare alla tenuta del tessuto sociale e al principio di inderogabilità dei doveri di solidarietà, elemento portante di una visione democratica della cittadinanza. Il richiamo al concetto stesso di cittadinanza rinvia direttamente al problema della partecipazione politica: questione anch’essa molto delicata, se si considera l’elevato tasso di astensionismo cha ha accompagnato il voto amministrativo delle grandi città lo scorso autunno; un fenomeno di estese dimensioni, sul quale molto si è scritto e si è detto.
Di certo, si tratta di un segnale forte sulla persistenza di un diffuso stato d’animo di disaffezione dell’elettorato nei confronti delle istituzioni e di un sentimento di sfiducia circa la capacità di queste ultime di offrire delle risposte in positivo ai problemi più pressanti: dalla sanità all’istruzione, dal lavoro all’ambiente. E d’altra parte, è proprio in questo corto circuito tra istituzioni e società che nasce la tendenza ad affidarsi a figure salvifiche e a dare ulteriore corso alla già marcata spinta in direzione della personalizzazione della vita politica: non è certamente un caso che, evocando l’ipotesi della candidatura al Quirinale del Presidente del Consiglio, è stata avanzata (e da qualcuno auspicata) l’ipotesi di una evoluzione del sistema politico in senso semipresidenziale, cioè di un’ulteriore accentuazione di un processo già in atto da tempo, ma fortemente accelerato dalla pandemia, di concentrazione dei poteri decisionali nelle mani dell’Esecutivo e del suo vertice, con il corrispondente svuotamento del ruolo degli organi di rappresentanza, a partire dalle Camere.
Un processo analogo si è verificato, negli ultimi mesi, anche nel rapporto tra centro e periferia, nelle contese fra regioni e governo centrale scaturite da reciproche rivendicazioni di prerogative e di competenze (e qui molto ci sarebbe da dire sulle disfunzioni determinate dalla riforma del Titolo V) che si ripropongono periodicamente soprattutto per quanto concerne le misure di contenimento della diffusione del virus e alle quali da più parti si ritiene si possa fare fronte attraverso un nuovo centralismo, con una conseguente ulteriore espansione dei poteri del Governo a scapito, questa volta, del sistema delle autonomie locali. Il ripristino di un accettabile livello di fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzione richiede di porre mano a una crisi che investe in primo luogo la rappresentanza politica e gli organi che sono chiamati a esprimerla, a livello centrale e locale: è questo l’elemento cardine di un riordino degli equilibri tra le diverse funzioni dello Stato che ne assicuri l’ordinato esercizio e la rigorosa osservanza dell’ordine costituzionale delle competenze.
Per fare un esempio concreto, non può non destare un certo allarme il fatto che, non più di un mese fa, la Camera dei deputati si sia trovata a disporre di meno di una settimana di tempo per valutare, discutere e votare il bilancio dello Stato, ovvero uno degli atti fondamentali di attuazione del programma del Governo. Si è trattato di una vera e propria espropriazione di una prerogativa costituzionale di un ramo del Parlamento da parte del potere esecutivo: un evento, quindi, molto preoccupante, emblematico di una situazione ormai consolidata e che tocca molto da vicino il tema dell’elezione del Presidente della Repubblica, in quanto investe, con riguardo a una situazione che si può definire di patologia istituzionale, la questione del suo ruolo di garante dell’equilibrio costituzionale nell’esercizio delle funzioni proprie di ciascuno dei poteri di vertice dello Stato.
La Costituzione assicura al Presidente della Repubblica la posizione e i poteri correttivi necessari allo svolgimento del ruolo di supremo moderatore della vita pubblica, e basta guardare agli ultimi anni per comprendere quanto frequentemente questi poteri siano stati esercitati e in quale misura essi abbiano concorso alla soluzione di crisi politiche particolarmente complesse. Non è un caso che oggi la Presidenza della Repubblica sia l’istituzione alla quale i cittadini guardano con maggior fiducia e rispetto. Affinché questo prezioso lascito non sia disperso ma, al contrario, tutelato e rafforzato, è necessario che il voto dei grandi elettori non resti subordinato a logiche di corto respiro o a convenienze di carattere tattico. Una scelta all’altezza delle necessità e delle aspettative del Paese, che salvaguardi e tramandi il patrimonio di lungimiranza, coerenza e sensibilità istituzionale che Sergio Mattarella e la maggior parte dei suoi predecessori hanno accumulato nel corso degli anni non può non fondarsi altrimenti che sulla Costituzione repubblicana e sulla stringente attualità dei suoi principi e dei suoi precetti.
Pubblicato venerdì 21 Gennaio 2022
Stampato il 05/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/primo-piano/non-toccate-il-quirinale/