Dopo il 25 Aprile, sono due le date, il Primo maggio e il 2 Giugno, che segnano per la memoria collettiva degli italiani l’itinerario degli eventi storici che è fondante della Repubblica nata dall’antifascismo e dalla guerra di Liberazione. Ed è quasi consequenziale ai differenti ma convergenti significati dal forte valore simbolico di quelle date (la riconquista delle libertà, il restauro della dignità e dei diritti del mondo del lavoro, la nascita di una cittadinanza repubblicana fondata sulla democrazia) per un’identità di popolo conquistata a riscatto del regime fascista e della sua guerra e dell’infamia di Salò – che, nel celebrarle, siano tre date pensabili come momenti di un unico periodo nel quale la primavera meteorologica coincide con la metafora di una “primavera della Patria”. Una primavera, quest’ultima, che il ricordo, nei riti di celebrazione, riproduce, e sperabilmente rilancia nelle coscienze, di anno in anno, quali che siano le intemperie che, a limitazione o a danno della letizia e delle speranze climatiche, il corso storico inevitabilmente va producendo.
In questo 2022 tra le intemperie da registrare, la più grave è costituita dalla guerra in Ucraina con tutto quel che di contraddittorio, di divisivo e di lesivo per la ragionevolezza e per le capacità di orientamento critico in cui si è manifestata anche nel campo delle opinioni espresse dalla cultura democratico-civile del nostro Paese, con gli attacchi che – talvolta per il fanatismo delle semplificazioni a-critiche e più spesso per i distorcenti giudizi mossi dallo stesso montare dell’emozionalità dinanzi agli orrori della guerra – sono stati mossi persino all’Anpi, roccaforte di democrazia repubblicana e centrale laica e severa della moralità della pace. Per restare in metafora, si tratta di una perturbazione che ha aggredito, per fortuna senza successo, la celebrazione del 25 aprile.
Un’analoga temperie di violenza, di immediata portata tragica – per quanto erroneamente potesse apparire circoscritta a una sola regione italiana, la Sicilia – colpì nel 1947 la celebrazione del Primo maggio sul pianoro di Portella della Ginestra, a pochi chilometri da Palermo: un bilancio di sangue, che avrebbe potuto anche risultare maggiore, di undici persone cadute sotto i colpi di mitraglia sparati della banda criminale di Salvatore Giuliano; undici Caduti di una folla lì affluita dai paesi della zona intorno al “sasso di Barbato” (il podio naturale dal quale era solito parlare appunto il medico socialista Nicola Barbato, il più carismatico dirigente del movimento dei “Fasci dei lavoratori” siciliani di fine Ottocento) con l’unico pacifico intento di festeggiare la ritrovata dignità del lavoro nelle lotte in corso del movimento contadino, contro i latifondisti e i loro gabelloti mafiosi, per la conquista della riforma agraria.
Fu un’azione terroristica, destinata a rimanere senza piena e reale punizione, perché pur essendone stati gli ovvi esecutori i criminali della banda Giuliano (peraltro, date le gerarchie del potere sociale in quei tempi in Sicilia, inevitabilmente almeno “autorizzati” dalla mafia), sarebbe diventata irrisolvibile la questione dell’identificazione dei mandanti. Ottavio Terranova, nel toccante e accurato video qui offerto ai lettori di “Patria”, ne ricostruisce appieno il contesto e, con puntuale aderenza ai fatti, la cronaca del dramma, con tutti gli interrogativi irrisolti, e forse ormai irrisolvibili (persino se tutta la documentazione prodotta sui fatti, in parte ancora vincolata dal “segreto di Stato”, venisse alla luce) che essa contiene e in modo vario e ricorrente va riproponendo agli storici.
Certo, fin dalle immediate reazioni dell’opinione pubblica alla notizia della strage (a partire dall’Assemblea Costituente allora riunita, nel clima dello sciopero generale proclamato dal sindacato ancora unitario dei lavoratori qual era la ricostituita Cgil), la “questione dei mandanti” era tutt’uno con quella riassumibile nella classica domanda “cui prodest?”, ovvero nel tentare di capire quali fossero gli interessi reali che avevano sospinto un “bandito politico”, già pseudo “colonnello” di un fantomatico esercito volontario per l’indipendenza siciliana (Evis) costituitosi all’ombra degli interessi agrari e mafiosi , e anche un “bandito demagogo” alla ricerca di un’immagine da Robin Hood, qual era appunto il bandito Giuliano, a macchiarsi della colpa infame e infamante di sparare a caso su una folla di inermi contadini.
Il mitico dirigente del processo della rinascita democratica in Sicilia, Girolamo Li Causi, segretario regionale del Pci, intuì subito – e lo disse nel suo discorso alla Costituente – che tali interessi andassero trovati in quelli della “strategia mediterranea di alcune grandi potenze”. Quali “grandi potenze”? Ovviamente, in primo luogo gli Stati Uniti d’America e, secondariamente, la Gran Bretagna. E parlò chiaramente, e ne scrisse, del “criminale disegno delle forze mondiali guidate dall’imperialismo di fare della Sicilia una loro fortezza mediterranea”. L’isola, infatti, era il perno mediterraneo, assolutamente irrinunciabile, dell’area entro la quale già dal 1946, dopo il discorso di Winston Churchill a Fulton, si stava disegnando la fisionomia strategica del cosiddetto “mondo libero”, contrapposto all’Unione sovietica in quella che si sarebbe detta la “guerra fredda” tra Occidente capitalistico e Oriente comunista.
E la Sicilia stava offendo agli Stati Uniti già impegnati nella costruzione del fronte anticomunista “occidentalista” un assai inquietante quadro di evoluzione politica sospinto dalle lotte del movimento contadino guidato dai partiti della Sinistra, un quadro registrato dalle prime elezioni per l’elezione dell’Assemblea regionale dell’appena costituita Regione autonoma, che segnava la conquista della maggioranza relativa di voti e seggi per il fronte unito Pci-Psi (il cosiddetto “Blocco del popolo”). E le premonizioni che ne derivavano – per le proiezioni nazionali di quel successo regionale della Sinistra nelle future, non troppo lontane, elezioni politiche nazionali fissate per il 18 aprile dell’anno successivo – erano decisamente allarmanti: un rilevante, seppure non necessariamente imponente, spostamento di voti, sull’onda di quanto era già in corso in Sicilia, verso la Sinistra di classe nel Meridione (già considerato serbatoio privilegiato del conservatorismo nazionale) sarebbe stato sufficiente, con la decisiva influenza del movimento operaio e delle ancora intatte forze partigiane al Nord, a creare le condizioni per la temuta vittoria del “Fronte democratico-popolare” e pertanto del comunismo in Italia.
Come ricondurre adesso alla domanda sul “cui prodest” della strage da cui siamo partiti l’analisi appena svolta? Preliminarmente è facile intuire che l’azione terroristica mirasse a irretire e possibilmente a bloccare il movimento contadino di cui si temevano gli avanzamenti verso l’obiettivo della “riforma agraria”, a salvaguardia dei contrapposti interessi dei latifondisti e dei gabelloti. Mandante e beneficiario immediato del terrore, a tali fini, sarebbe stato (è persino banale riconoscerlo) il fronte agrario mafioso, ovvero tout court la mafia in quanto potere egemone sulle campagne gravemente sotto minaccia.
Ma quel che al contempo minacciava, al di là della stessa area territorialmente ben delimitabile della Sicilia, gli interessi strategici “occidentalisti” (degli Usa, in primo luogo) lucidamente individuati e denunziati da Li Causi erano le conseguenze politiche dell’avanzata contadina ovvero la contestuale avanzata che ne derivava per la Sinistra social comunista con tutto l’allarme di cui si è detto sopra per la tenuta “occidentalista” dell’intera Italia: il fatto che, nei termini suddetti, fosse in corso in Sicilia una partita di dimensioni perlomeno nazionali – che avevano fatto delle lotte contadine contro il fronte mafioso, così come avrebbe riconosciuto e sottolineato l’Anpi nell’anno 2010 dando corso a un indimenticabile, imponente raduno nazionale a Portella della Ginestra, l’analogo “laico” (ovvero non militare, ma civile) della lotta antifascista condotta al Nord con la guerra di Liberazione e un capitolo del nuovo Risorgimento – era di per sé il fatto al quale dovevano tentare di porre urgente rimedio le forze che in Italia già stavano definendo in termini di moderatismo e di dura opposizione al comunismo i confini politici della Repubblica.
All’uopo, tali forze non disdegnavano (ne ha largamente studiato e documentato il processo Nicola Tranfaglia nel libro Come è nata la Repubblica, edito da Bompiani) persino di “utilizzare” personale proveniente dalla Decima Mas di Valerio Borghese, nonché personaggi di consolidate capacità e costume fascisti nella repressione dei movimenti popolari, tra i quali, a capo dell’intero apparato per l’“ordine pubblico” in Sicilia, il noto Ettore Messana (già responsabile di azioni repressive conclusesi in eccidi proletari dopo la prima guerra mondiale) al quale, nell’anno tragico di Portella della Ginestra, era succeduto una altro funzionario, Ciro Verdiani, anche lui tristemente noto per dure operazioni repressive svolte in Slovenia e così spregiudicatamente ambiguo e inaffidabile quale uomo dello Stato e della Legge (così come poi accertato dai giudici del tribunale di Viterbo dove si svolse il processo alla banda) da “banchettare” in allegra compagnia proprio con il “latitante” bandito Giuliano che avrebbe dovuto arrestare.
Ora, la migliore misura che, da parte americana, si potesse immaginare per porre rimedio all’avanzata della Sinistra di classe era quella che prediligevano taluni esponenti autorevoli (forse fin dalla Casa Bianca, dove, secondo quanto ha rivelato Mr. William Colby, già capo della CIA, erano pronti i piani per la rioccupazione militare della Sicilia in caso di una vittoria comunista in Italia) del più allarmato “occidentalismo”: sciogliere forzosamente il Partito comunista e vietarne l’esistenza come partito legalmente compatibile con la democrazia. Ma per l’attuazione di un così impegnativo e dissennato progetto sarebbe stato necessario provocarne le condizioni, quali avrebbero potuto essere quelle di una grande sollevazione di massa nelle piazze di tutta Italia (resa eclatante e pericolosa per il cosiddetto “ordine democratico” dalla partecipazione diretta dell’ancora vitale movimento armato dei partigiani “garibaldini”).
L’uccisione degli inermi contadini in festa per il lavoro il Primo maggio a Portella della Ginestra (evento tragico al quale fecero seguito vari assalti della banda Giuliano alle Camere del Lavoro del territorio) avrebbe ben potuto essere il detonatore di una sollevazione di tale portata nazionale. Il che non accadde per la saggezza di Togliatti che limitò la reazione popolare ai fatti a uno sciopero ben controllato, forse non senza un qualche informale scambio di informazioni e un qualche prudenziale “consiglio” di Alcide De Gasperi che, nonostante l’ormai decisa estromissione dei comunisti dal governo nazionale, aveva a cuore l’esigenza di salvaguardare un minimo di dignità e di sovranità nazionali del nostro Paese a fronte delle richieste più oltranziste degli americani. Comunque, non è proprio da escludere che quel che non accadde qualcuno avesse lavorato per farlo accadere. E Li Causi ne era informato: nelle sue carte conservate dall’Istituto Gramsci Siciliano, si ritrova, su un foglietto stropicciato evidentemente fatto sortire dalle ristrettezze di un carcere, un messaggio manoscritto pervenutogli direttamente dal brigante Rosario Candela, membro della banda Giuliano, nel quale si legge testualmente: “scopo della strage creare una grande provocazione per potere buttare i comunisti fuori della legalità”.
Più chiaro di così un rozzo testimone e coautore diretto dei fatti (tanto più credibile quanto meno immaginabile come capace di giudizi politici) non avrebbe potuto essere! Ed è appunto questa la pista interpretativa (Carlo Ginzburg direbbe l’“indizio” per un paradigma storico indiziario come non potrebbe che essere quello per i fatti in questione) dalla quale è mosso il sottoscritto per la ricostruzione critica della strage e per la ricerca delle sue profonde ed estese motivazioni in una fortunata “Storia della mafia” (edita da Newton Compton in oltre 20 edizioni e tradotta in varie lingue); molte pagine di analisi e di riflessione critica alle quali si sono nel tempo accompagnate le memorabili ricerche a tutto campo sui fatti, con cura analitica da cesellatore della documentazione già disponibile e di altra difficoltosamente recuperata, che trovano sede in diversi libri di Giuseppe Casarrubea (del sottoscritto un ex acuto e indimenticabile allievo precocemente scomparso). Si ricava dalle ricerche di Casarrubea anche ben più che un semplice sospetto per fondare l’ipotesi dell’esistenza un secondo “gruppo di fuoco” (costituito da elementi appartenenti a una torbida nebulosa fascista o fascistoide in combutta, oltre che con i latifondisti, con i vertici delle cosiddette “forze dell’ordine” del tempo) che, a latere della banda Giuliano, sparando sui contadini da un’altra e più ravvicinata posizione, avrebbe avuto la maggiore responsabilità delle uccisioni.
Le citazioni bibliografiche in proposito (anche quelle per le quali si potrebbe qui ipotizzare una qualche “vanità” personale dello scrivente) risultano obbligate perché testimoniano quanto la storiografia abbia fatto strada nella ricerca della verità al di là dell’ovvio ruolo di esecuzione materiale della strage svolto dai criminali della banda Giuliano e di quello necessariamente appartenuto alla mafia dei latifondisti e dei gabelloti che circoscrivono lo spazio di interessi locali della criminale iniziativa stragista. Tale “spazio di interessi locali”(di cui il siciliano Mario Scelba, allora ministro dell’Interno, offrì nell’immediato una rappresentazione minimalistica e persino offensiva per i siciliani occultando ogni responsabilità sistemica e politica) è certo importante (e ha fatto bene il compianto Emanuele Macaluso, su un filo interpretativo già disegnato da Francesco Renda, a ricordarlo in un libro recente, mentre Ottavio Terranova ce lo riconsegna rendendolo vivo ed emozionante con le immagini), ma la verità – come forse si è riusciti a far ben comprendere in questo articolo – va ricercata ben al di là di questo spazio limitato. E gli sviluppi della storiografia hanno dato sensatamente ragione alla ben più “larga” e precoce intuizione di Li Causi sopra ricordata.
Spiace dover oggi constatare che sugli avanzamenti della storiografia si stiano sviluppando orientamenti (non vorrei dire calcolate operazioni) tendenti a riportare la rappresentazione dell’intera vicenda di Portella della Ginestra pressappoco a quella fornitane a suo tempo da Scelba “ministro di polizia”. Questo, persino ai livelli di storici accademici, come mi sembra di poter rilevare per un collega dell’Università di Catania della cui competenza non dovrebbe essere dato dubitare. Ma spiegare quella terribile strage, quell’azione terroristica di Portella della Ginestra, coglierne la dimensione strategica, persino internazionale, è oggi particolarmente difficile perché distante dal corso di quel che gli eventi impongono come politically correct, dovendosi necessariamente chiamare in causa le responsabilità dell’anticomunismo e dell’“occidentalismo” di cui gli Usa sono stati e sono ancora il riferimento dominante. Il che può indurre anche chiunque per mestiere intellettuale debba esserne esente, ad antichi vizi di omertà o di reticenza. Per non incorrere nel sospetto di professare l’“anti-americanismo”. Si tratta, forse, di un pericoloso “prezzo culturale” che, insieme ad altri, stiamo pagando alla guerra in Ucraina.
Professor Giuseppe Carlo Marino, storico, già docente di Storia contemporanea all’Università di Palermo, Presidente onorario dell’Anpi Palermo
Ed ecco il documentario “Il dovere della memoria, il futuro dei diritti” per la regia di Ottavio Terranova, presidente del comitato provinciale Anpi Palermo e componente del comitato nazionale Anpi. Buona visione.
Pubblicato giovedì 12 Maggio 2022
Stampato il 13/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/primo-piano/portella-della-ginestra-quelle-vittime-della-guerra-fredda/