A circa 35 km dalla città di Grosseto, sorge l’antica Rocca Norsina, divenuta, nel 1239, la residenza della famiglia Federighi, mutando così il nome in Roccatederighi mantenuto fino ai nostri giorni.
Per la sua posizione strategica il borgo svolse un ruolo fondamentale nel controllo del territorio dell’alleata Repubblica Senese fino al 1559, termine delle guerre d’Italia franco-spagnole. La capitolazione della Città del palio travolse tutte le località dello Stato indipendente e la forza distruttrice di Gian Giacomo Medici di Marigliano s’abbatté sul borgo medievale radendo al suolo mura e case. Roccatederighi si ritrovò così per secoli ad avere nella storia nazionale un ruolo marginale. Fino a quando, nel novembre 1943, vi sarà eretto un campo di concentramento per ebrei. A realizzarlo Alceo Ercolani, Capo della Provincia, titolo che sostituiva quello di prefetto.
Il Gerarca
Alceo Ercolani nasce il 28 marzo 1899 a Bomarzo, nella provincia di Viterbo, ed è ancora minorenne quando all’entrata dell’Italia nel Primo conflitto mondiale si arruola volontario.
Dopo due anni viene promosso sergente ed è a Caporetto nei giorni drammatici della disfatta. Ripresi gli abiti civili s’iscrive al Partito fascista, diventandone un fervente sostenitore tanto da fondare una sede nella città natale. Quindi fa carriera, ricopre il ruolo d’ispettore della Gioventù italiana del littorio, a Roma; subito dopo viene nominato segretario federale del Pnf a Treviso e in seguito a Cosenza ed è consigliere nazionale alla Camera dei fasci e delle corporazioni all’entrata dell’Italia nella Seconda guerra mondiale. Ercolani s’arruola, partecipa alla Campagna di Russia con il grado di maggiore del 3º Reggimento Bersaglieri, e viene decorato con la medaglia d’argento al valore militare. Dopo l’8 settembre è nominato Commissario straordinario del Partito fascista repubblicano e nell’ottobre è prefetto di Grosseto. Il nuovo incarico lo vede zelantemente impegnato nell’individuare ebrei e ad emanare provvedimenti per sequestrare loro i beni oltre ad eseguire, con la complicità di altri gerarchi, il decreto emanato il 18 febbraio 1944 da Mussolini che, richiamando alle armi le classi dal 1922 al 1924 prevedeva la pena di morte per renitenti e disertori. Ercolani si spinge più avanti stabilendo punizioni durissime anche per le famiglie ree di prestare assistenza e rifugio a renitenti e disertori.
La strage dei “Martiri d’Istia d’Ombrone”
Il gerarca, che da un delatore ha ricevuto informazioni sulla presenza di costoro nell’area di Monte Bottigli, a est di Grosseto, organizza un rastrellamento, condotto nella notte tra il 21 e il 22 marzo. La colonna fascista – circa 140 uomini tra militi della Gnr, un nucleo di Ps, alcuni carabinieri, un reparto tedesco (Feldgendarmerie) e la squadra d’azione “Ettore Muti” – commette violenze e razzie nei poderi attraversati. All’alba cattura undici giovani. Ercolani li fa condurre nei locali della vicina scuola rurale di Maiano Lavacchio, s’erge a giudice e, dopo un breve dibattimento, li condanna alla fucilazione nel cortile. I cadaveri dei “Martiri d’Istia”, dal nome del paese di provenienza della maggior parte dei giovani, saranno depredati e i loro beni caricati su cinque carri tra canti di giubilo. Si ordina ai fiorai grossetani di non vendere fiori per il funerale ma la tantissima gente che vuol rendere omaggio agli undici ragazzi raccoglie rami di mimosa dagli alberi fioriti e un manto giallo accompagna i feretri fino al camposanto. La strage suscita riprovazione persino in ambiente fascista. Il 26 aprile 1944, all’assemblea del fascio repubblicano di Grosseto, l’operato di Ercolani e delle alte cariche è aspramente biasimato da alcuni tesserati. Ma non può esserci dissenso e il capofila dei critici, Vezio Vecchio, viene arrestato e trattenuto per venti giorni.
Il campo di concentramento
Il 23 settembre 1943 viene proclamata, a seguito della liberazione di Benito Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso, la nascita della Repubblica sociale italiana, meglio conosciuta con il nome di Repubblica di Salò. Il nuovo governo cerca di riprendere il controllo del territorio, richiamandosi soprattutto alle leggi razziali proclamate nel 1938.
Il 14 novembre 1943, a Verona, si tiene l’assemblea del novello partito fascista repubblicano, alla presenza dei delegati provenienti dal centro e dal nord Italia. È Alessandro Pavolini, già titolare del Minculpop e a breve fondatore delle Brigate nere (la milizia volontaria saloina attiva dal luglio ’44) ad enunciare i 18 punti programmatici dell’incontro. Il numero 7 riguarda la «questione ebraica» e in particolar modo sostiene: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri, durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica», con l’effetto che tutti gli ebrei presenti sul territorio, da questo momento, sono da considerarsi nemici e di conseguenza arrestati e sottoposti a controllo. Subito dopo prende la parola l’onorevole Belluno che, ricordando il linciaggio di 11 ebrei prelevati dalle carceri di Ferrara, afferma: «Io credo che nessuno di noi voglia essere un sanguinario, ma per evitare di trovarsi costretti ad essere realmente dei sanguinari, dopo i fatti di Ferrara, credo che dobbiamo proporre di fare in ogni città un campo di concentramento… In questi campi di concentramento faremo dell’opera politica per risanare e recuperare i recuperabili e per gli altri penseranno i tribunali».
L’idea si concretizza con il decreto del ministro degli Interni Guido Buffarini Guidi, recante la data del 30 novembre 1943, che dispone l’arresto, il sequestro dei beni e l’internamento di tutti gli ebrei presenti sul territorio nazionale, fatta eccezione dei malati e anziani.
La sera stessa tutte le prefetture ricevono dal Capo della Polizia Tullio Tamburini il seguente ordine del giorno:
«1) Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengano, e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in appositi campi di concentramento. Tutti i loro beni mobili e immobili devono essere sottoposti a immediato sequestro in attesa di essere confiscati nell’interesse della Repubblica Sociale italiana, la quale li destinerà a beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni aeree nemiche.
2) Tutti coloro che, nati da matrimonio misto, ebbero, in applicazione delle leggi razziali vigenti, il riconoscimento di appartenenza alla razza ariana, debbono essere sottoposti a speciale vigilanza dagli organi di polizia.
3) Siano pertanto concentrati gli ebrei in campi di concentramento provinciali, in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati».
In realtà, il Capo della Provincia di Grosseto Alceo Ercolani ha anticipato gli ordini, infatti ben cinque giorni prima ha individuato come luogo idoneo allo scopo la sede del Seminario estivo di Grosseto, a 1 km da Roccatederighi, e chiesto al Vescovo di Grosseto, Paolo Galeazzi, di affittargli un’ala dell’edificio.
Il contratto recita «dietro invito motivato dalle emergenze di guerra e in prova di speciale omaggio presso il nuovo Governo, la Curia cede in affitto il Seminario estivo presso Roccatederighi per farvi la sede del Campo di concentramento ebraico a un canone di locazione mensile di 5000 lire», cifra ragguardevole per l’epoca, inoltre il prelato invia cinque suore per occuparsi di «cucina, dispensa, guardaroba, infermeria, nonché per l’ordine nelle camerate delle donne». Un’azione “caritatevole” al costo di 300 lire al mese, a cui si affiancano due uomini di fatica per 600 lire al mese.
Ercolani preleva dunque dalle casse della Provincia la somma di 50.000 lire, non sufficienti però a sostenere l’intero costo dell’operazione e comunicando l’iniziativa al Ministero afferma di coprire la differenza con la vendita dei beni sequestrati agli ebrei. In realtà, le ultime mensilità del canone di affitto non verranno corrisposte alla ragioneria del Seminario.
I beni sequestrati
Il gerarca Ercolani si distingue nelle disposizioni di sequestro dei beni degli ebrei. Appena due giorni dopo l’emanazione della Carta di Verona, con decreto n. 3833 datato 16 novembre, ne imposta l’attuazione. Il testo recita:
«ritenuta l’urgente necessità di procedere all’immediato sequestro di tutte le proprietà terriere site in Provincia, appartenenti a cittadini di razza ebraica, che sono da considerarsi cittadini di nazione nemica dell’Italia».
Immediatamente viene sequestrata la tenuta di Alberto Uzielli, anche se intestata, nominalmente, al Marchese Filippo Serlupi Crescenzi. Il nobile protesta presso il gerarca ottenendo, il 30 novembre, questa risposta: «in qualsiasi società in cui esista un solo ebreo, deve essere proceduto al sequestro». Ercolani alcune settimane disporrà che nel fabbricato del possedimento si trasferisca la Prefettura per proteggerla dai bombardamenti su Grosseto.
Non contento, il nostro zelante gerarca il 7 dicembre emana un decreto per costituire localmente l’Egeli (Ente gestione e liquidazione immobiliare), già varato a livello nazionale nel 1939 per il sequestro dei beni agli ebrei. L’organismo grossetano promuove un’indagine, ricorrendo al supporto della Federazione fascista repubblicana, per individuare le proprietà di ogni singolo ebreo nel territorio della Provincia. Il 18 dicembre viene disposto il sequestro di tutti i beni esistenti presso gli istituti bancari e le poste, di ditte, di proprietà immobiliari e agricole appartenenti a persone «di razza ebraica». L’elenco è pubblicato quello stesso 18 dicembre sul foglio d’ordini fascista “La Maremma”, concluso dall’avviso: «questi beni, per ordine superiore, andranno a favore dei sinistrati dai bombardamenti angloamericani […] il lavoro di ricerca delle aziende di proprietà di ebrei continua».
Il 4 gennaio ’44 le disposizioni del gerarca sono legittimate dal decreto del ministero degli Interni con cui l’Egeli ha ulteriori attribuzioni e si sancisce la confisca totale di tutte le proprietà ebraiche italiane e straniere. «Art. I. I cittadini italiani di razza ebraica o considerati come tali ai sensi dell’art. 8 del decreto legge 17 novembre 1938, n. 1728, ancorché abbiano ottenuto il provvedimento di discriminazione di cui all’art. 14 dello stesso decreto legge, nonché le persone straniere di razza ebraica, anche se non residenti in Italia, non possono nel territorio dello Stato: a) essere proprietari, in tutto o in parte, o gestori, a qualsiasi titolo, di aziende di qualunque natura, né avere di dette aziende la direzione, né assumervi comunque l’ufficio di amministratore o di sindaco; b) essere proprietari di terreni, né di fabbricati e loro pertinenze; c) possedere titoli, valori, crediti e diritti di compartecipazione di qualsiasi specie, né essere proprietari di altri beni mobiliari di qualsiasi natura».
Il Campo di Roccatederighi
Il 24 novembre viene individuato lo stabile e immediatamente Ercolani comunicava al ministero degli Interni l’istituzione del campo.
L’informazione coglie però alla sprovvista le alte gerarchie di Salò, che il 4 dicembre chiedono conto e ragione di tale decisione, nonostante nel frattempo sia stata emanata una circolare istitutiva dei campi. La richiesta di chiarimenti del Ministero recita: «Si fa presente che la costituzione e organizzazione dei campi di concentramento, com’è noto, sono di competenza di questo Ministero. Si prega pertanto di fornire chiarimenti». Differente è l’atteggiamento delle autorità tedesche della zona, che informate sin dalla metà di novembre, il giorno 18 dello stesso mese ragguagliano Berlino dello zelo antisemita del Capo della Provincia, «della sua dinamicità ed energia, con cui si dimostra un leale collaboratore». In data 24 dicembre, il gerarca si preoccupa di rispondere al Ministero saloino nel seguente modo: «In evasione alla nota suindicata comunico che l’ordine di istituire dei campi per il concentramento dei cittadini di razza ebraica fu impartito a Firenze dall’Eccellenza Buffarini nella riunione dallo stesso tenuta ai Capi della Provincia. Poiché disposizioni in dettaglio da parte di codesta Direzione generale si sono attese invano, in adempimento dell’ordine impartito dal Ministero ho ritenuto urgente ed indifferibile istituire il campo in oggetto affidandone la direzione al maresciallo di PS di questa Questura Rizziello Gaetano, segnalatomi dal Questore come elemento idoneo e capacissimo».
Molte famiglie si consegneranno spontaneamente a Roccatederighi sperando in un trattamento di favore. L’internato Cesare Nunes dichiarerà che il direttore «è un amico di famiglia, e mio fratello faceva l’amore con sua figlia. Lo conoscevamo tanto bene che, quell’inverno, mio fratello andò più di una volta a casa del comandante per ascoltare assieme, di nascosto per carità perché era proibito, uno ebreo e l’altro fascista, Radio Londra ed essere così informati di quel che succedeva».
Il campo viene collocato in una palazzina vicino al bosco e per renderla invisibile a occhi indiscreti, evitare qualunque contatto con il Vescovo e altri prelati, o sfollati dei bombardamenti su Grosseto, viene eretto un muro. L’intero perimetro è circondato da filo spinato e sovrastato da quattro garitte munite di mitragliatrici richiedendo giorno e notte la presenza di «20 militi, armati di mitragliatrici, fucili mitragliatori, un congruo numero di bombe a mano per ogni milite». All’interno la sorveglianza della struttura è assicurata da quattro agenti della Pubblica sicurezza o da altrettanti carabinieri. Molti tra gli uomini del personale si dimostreranno sensibili e ben disposti verso gli internati, alcuni favorirono le evasioni, altri stabilirono buoni rapporti a tal punto che l’internata Lia Servi sposerà un milite.
Alla fine di novembre due cameroni del secondo piano della palazzina del Seminario estivo, vengono munite di letti e arredamenti per ricevere gli ebrei catturati. Il primo carico d’internati arriva il 2 dicembre ’43, con un pullman di una società locale di trasporti, seguito da un camion per il trasporto dei bagagli e degli effetti personali, provenienti da Pitigliano, centro grossetano dove la presenza ebraica è secolare. Nei giorni seguenti giungono gli ebrei arrestati sul Monte Amiata, passati per le carceri di Santa Fiore.
L’organizzazione del campo
Gli internati, ricorda l’internato Cesare Nunes, al mattino potevano uscire: «venivo mandato in paese a comprare il latte. Avevo un milite di scorta, ma appena arrivavamo a Roccatederighi gli davo i soldi per andare al caffè e lui mi aspettava lì, mentre io facevo un salto da una ragazza. Poi tornavamo assieme al campo: io davanti con il latte, lui dietro con il fucile». La giornata era strutturata: «La mattina colazione con il caffè, all’una pranzo, la sera cena – continua Nunes –sempre nel refettorio, come fossimo in una caserma. E nel resto della giornata ammazzavamo il tempo giocando. Sono diventato tanto bravo con gli scacchi che quando sono tornato libero non riuscivo a trovare un valido avversario. Una volta i francesi (militari prigionieri, ndr) sono andati dal Direttore a protestare perché la pasta era poca… Tutto questo perché a farci la guardia non c’erano nazisti, ma militi grossetani, che alla fin fine con gli ebrei non ce l’avevano più di tanto». Secondo la testimonianza di Nunes alcuni ebrei più abbienti si potevano addirittura recare a far compere a Sassofortino, paese vicino, dove potevano apprendere notizie e recarsi dal dentista e dal medico, sempre sotto una parvenza di scorta.
Alcuni internati originari del territorio riusciranno anche a lasciare il campo grazie a dichiarazioni false, come quella del medico specialista di Grosseto che attestò la contrazione di una malattia grave ad entrambi i coniugi Nunes. La certificazione venne accettata dal direttore del campo e dal funzionario Ciabatti, quasi sicuramente dietro esborso di laute somme. Un’altra dichiarazione è quella del titolare della società di trasporti in favore della famiglia Servi, una di quelle che avevano convinto altri nuclei familiari a presentarsi spontaneamente alla “Villa del Vescovo” dove avrebbero trovato protezione. La dichiarazione era stata sollecitata dalla stessa federazione fascista di Pitigliano perché i Servi si occupavano di trasporto di generi alimentari, soprattutto di sale, attività ritenuta preziosa in un momento in cui gli autotrasportatori si rifiutavano di fare viaggi per il pericolo delle incursioni aeree. Un trattamento benevolente riservato però unicamente agli ebrei grossetani.
Il 17 aprile ’44, il Capo della Provincia Ercolani decide di consegnare ai tedeschi una parte degli ebrei reclusi. Il giorno dopo c’è il primo trasferimento verso il campo di Fossoli, seguito da un secondo il 9 giugno, pochi giorni prima della Liberazione di Grosseto. Le destinazioni finali dei deportati di Roccatederighi sono Auschwitz e Bergen-Belsen. In totale 45 persone, anche bambini, e solo una di loro riuscirà a sopravvivere allo sterminio. Gli altri prigionieri del campo saranno liberati dagli Alleati. Inoltre il numero degli internati non è ancora ben chiaro e definito, a causa dei dati contrastanti presenti nei registri della Prefettura: infatti, nel mese di gennaio risultano presenti 75 ebrei, mentre a marzo 80, di cui 39 stranieri e 41 italiani, ma da un controllo incrociato con altri registri, nello stesso periodo risulterebbero 68 presenze (39 italiani e altrettanti stranieri).
All’arrivo degli Alleati, Ercolani proverà a fuggire. Catturato, nel 1946 è sottoposto a processo ma viene riconosciuto colpevole solo dell’eccidio dei Martiri d’Istia (dal nome del paese di provenienza della maggior parte dei giovani che non avevano risposto al bando Graziani), mentre non gli viene sollevata alcuna contestazione sull’istituzione del campo di concentramento. Viene condannato a trent’anni di reclusione e ma ne sconta solo sette. Nel 1953 è rilasciato, rientra a Bomarzo, dove muore il 31 luglio 1968.
Il Vescovo Galeazzi rimarrà saldo al suo posto senza alcuna sanzione, neanche da parte del Vaticano. Anzi nel settembre 1944, il prelato si era sentito addirittura in dovere di richiedere gli affitti arretrati al nuovo prefetto insediatosi a Grosseto subito dopo la Liberazione della città da parte degli Alleati. Domanda rigettata dal momento che la stipulazione di contratti nell’interesse dello Stato è soggetta «ad autorizzazione del ministero degli Interni» e alla «registrazione alla Corte dei Conti», elementi che mancano per il campo di Roccatederighi.
Non convinto e insoddisfatto della risposta, l’alto prelato replica rammentando per iscritto che ha dovuto cedere alla richiesta di affitto, onde evitare la «requisizione dell’intero immobile» con grave danno per la Curia. Aggiunge, nel vano tentativo di vedere accolta la richiesta, di aver protestato contro la decisione di adibire l’edificio a campo di concentramento, ma che l’insistenza e la prepotenza del gerarca l’avevano costretto e non, come si era creduto erroneamente, per la volontà di assecondare il regime della Repubblica sociale.
L’edificio del Seminario rimane abbandonato. La proposta avanzata nel 2001 di riadattarlo per accogliere gli ammalati di Alzheimer fino oggi non ha trovato attuazione. Nel 2008 la Chiesa ha acconsentito a porvi una lapide in memoria dei deportati.
Stefano Coletta, insegnante
Fonti:
Paggi A., Il Muro degli Ebrei. Roccatederighi e la Provincia di Grosseto (1943-1945), Editore Belforte, 2018.
http://ricerca.gelocal.it/iltirreno/archivio/iltirreno/2001/02/02/LAT02.html
http://tosca-lapenna.blogspot.com/2011/08/il-campo-di-concentramento-di.html
http://www.storiaxxisecolo.it/rassegnasta/rassegna_man250401a.htm
https://cavallomaremmano.com/pages/italian/docs/concentramento.pdf
Pubblicato giovedì 13 Giugno 2019
Stampato il 06/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/primo-piano/roccatederighi-il-campo-di-internamento/