
La riunione il 26 gennaio scorso a Parigi del “Formato Normandia”, che vede protagonisti Francia, Germania, Russia e Ucraina, per concordare misure di de-escalation nella grave crisi ucraina così densa di rischi e pericoli, si è conclusa per intanto ribadendo l’importanza di continuare il “cessate il fuoco” in vigore dal luglio 2020. Il dialogo quindi è ripreso, ma il Formato potrà raggiungere risultati proficui per la ricerca di una soluzione politica alla crisi solo se nelle prossime riunioni si realizzerà un serio e attento ascolto delle altrui ragioni da parte di tutti.

Nell’analisi della situazione tuttavia non può essere sottaciuto come i prodromi di questa crisi si siano manifestati sin dalla decisione dopo il crollo dell’Urss di espandere la Nato a Est aggregando progressivamente Polonia, Paesi Baltici, Ungheria, Cechia, Bulgaria, Romania, Croazia, Slovacchia, e Slovenia, Albania, Montenegro e Macedonia.

La situazione in Ucraina è andata aggravandosi di anno in anno sempre di più sino alla cosiddetta “rivoluzione di Maidan” del 2014, secondo molti un colpo di stato, avallato dagli Usa e da altre potenze occidentali, quando la Verchovna Rada destituì contro il dettato costituzionale il Presidente Janukovich eletto direttamente dal popolo. L’anno prima Janukovich aveva rinviato la firma dell’“accordo-capestro” di associazione alla UE, che invece da molti esponenti ucraini era considerato il primo passo per l’ingresso dell’Ucraina nella Nato in funzione antirussa. Non vi è quindi chi non veda come l’attuale crisi sia il risultato delle scelte operate dagli Stati Uniti e dalla Nato in particolare.

A monte di questi più recenti avvenimenti non si possono ignorare gli “errori storici” compiuti nel passato sovietico, come quello di stabilire confini interni delle repubbliche non solo e non tanto in relazione al principio etno-demografico, quanto in funzione dello sviluppo economico integrato delle diverse realtà dell’enorme Paese. Negli anni 20 del Novecento, infatti, gran parte dei territori del Doneck, di Zaporižja e di Lugansk, che facevano parte storicamente dell’impero russo sin dal 1700, fu aggregata alla Repubblica Socialista Ucraina.

Nella concezione sovietica il territorio dell’Urss andava articolato per regioni economiche, per cui aree meno sviluppate, come quelle ad esempio dell’Ucraina occidentale, vennero agganciate ad aree più avanzate economicamente o più suscettibili di un rapido sviluppo, come quelle della parte orientale del paese, in modo che queste ultime facessero da traino per le prime ottenendo così un generale avanzamento complessivo.

In definitiva i confini delle singole repubbliche, restando impensabile allora la deflagrazione dell’Urss, non costituirono delimitazioni di carattere statuale, ma solo di carattere economico-amministrativo. A tutto questo si aggiunse il “regalo” di Chruscev della Crimea nel 1954 senza alcuna decisione del Soviet Supremo che lo legittimasse e senza sentire le popolazioni interessate. È solo dal 1991 che queste terre risultano comprese in confini statuali del tutto impropri sia dal punto di vista storico che culturale e linguistico.

E alla memoria storica non possono sfuggire le alterne vicende che investirono la Galizia, divenuta parte dell’impero austro-ungarico verso la fine del 700, poi appartenuta alla Polonia dopo la prima guerra mondiale e successivamente smembrata con il trattato di Potsdam del 1945 e assegnata alla Repubblica Sovietica dell’Ucraina.
In estrema sintesi questi sono gli antefatti specifici per comprendere la complessità dei problemi sorti con il crollo dell’Urss. Con la sconfitta dell’Urss nella “Guerra fredda”, venuto meno il contrappeso, ha prevalso l’unilateralismo delle scelte Usa con conseguente militarizzazione in tanti casi dei rapporti internazionali (Iraq, Libia, Siria, Afghanistan, ecc.).
Ma il mondo non è più quello di trenta anni fa, quando si è voluto stravincere umiliando spesso la Russia. Il mondo è oggi decisamente multipolare per l’imponenza della Cina e la rinnovata presenza della Russia sullo scacchiere internazionale. A fronte di questo cambiamento di fase non sembra ancora improntata al realismo la politica estera degli Stati Uniti, che hanno continuato a ritenere sconfitta definitivamente la Russia. Da qui la scelta di dotare l’Ucraina di armi moderne, di missili antiaerei e anti-tank, insieme alla Gran Bretagna e ad altri Paesi dell’Alleanza, per un totale di circa tre miliardi di dollari negli ultimi sette anni al fine di contrastare una “aggressione da parte russa”.

Gli Usa e i loro alleati ritengono, con questi interventi di carattere militare, di difendere l’integrità territoriale dell’Ucraina nel rispetto del Memorandum di Budapest del 1994 firmato da Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia e Ucraina, ma senza ricordare gli impegni assunti del non allargamento della Nato a Est. Ma questo memorandum, come ogni accordo, è costruito sulla clausola rebus sic stantibus, sulla base cioè degli equilibri esistenti al momento della firma. E quell’equilibrio, fondato sull’impegno della non espansione della Nato, è stato vanificato del tutto. Da qui la mancata ricerca di una soluzione rispondente alle comprensibili esigenze russe.
Alla guerra psicologica in atto da tempo da entrambe le parti sono seguiti gli ammassamenti di truppe russe non lontani dal confine ucraino e quelli ucraini a ridosso delle repubbliche del Doneck e Lugansk, e ancora l’ordine di evacuazione del personale “non essenziale” dalle rappresentanze diplomatiche a Kiev degli Usa e dell’Inghilterra. Iniziative, queste, certamente non volte ad alleggerire le pericolose tensioni in atto.

Nel 2002 a Pratica di Mare fu avviato un dialogo con la Russia volto a favorire un approccio a un sistema di sicurezza collettiva del continente, ma purtroppo non ha avuto alcun seguito anche per le divergenze esistenti tra i diversi membri europei dell’Alleanza. È un dato di fatto che i membri già dell’ex blocco sovietico, Polonia e Paesi Baltici in particolare, siano gli europeisti-atlantisti più radicali. A differenza degli europeisti più autonomisti, come la Francia che ha tra l’altro diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e per giunta è in possesso di armamento nucleare, si possono definire europeisti-pragmatici quelli, come la Germania, che nel rispetto delle regole del Patto improntano la propria politica estera nei confronti della Russia e di altri Paesi a prudenza e attenzione anche ai propri interessi nazionali.
Questa in fondo è stata la tradizionale politica estera del nostro Paese, che da membro della Nato realizzò una proficua collaborazione con l’Urss a partire dalla realizzazione della stessa Togliattigrad sino agli intensi rapporti commerciali con la Federazione russa. Il problema è quindi, nella situazione data, del come si sta pragmaticamente nell’Alleanza senza assentire e accodarsi in tutti i casi alle iniziative Usa. D’altra parte è in effetti all’iniziativa franco-tedesca che va attribuito il rilancio del Formato Normandia per ricercare realistiche soluzioni politiche ed evitare catastrofici esiti con inevitabili conseguenze negative per tutti.

Dopo la seconda guerra mondiale anche il nostro Paese ebbe a occuparsi di contese territoriali per terre di confine come ad esempio con la Jugoslavia, di movimenti separatisti in Sicilia, di problemi concernenti minoranze di lingua francese, tedesca, ladina, slovena. Ma ricercò sempre una soluzione politica assecondando istanze di autonomia al fine di assicurare la coesione nazionale. Di qui l’istituzione delle Regioni a Statuto speciale con potere legislativo ed esecutivo autonomo, con privilegi di natura finanziaria e con l’attribuzione di tributi propri sino all’incameramento di quasi tutte le imposte. In Alto Adige si ebbe a lottare contro gli autori di attentati e di manifestazioni illegali, ma non si procedé a bombardamenti. Le popolazioni del Doneck e Lugansk hanno dovuto subire continui bombardamenti con migliaia di vittime, distruzioni di case, strutture ed eliminazione di gran parte delle attività produttive e lavorative.
Nella tragedia di questi anni cruenti vivono milioni di russi d’Ucraina, i tre milioni di nativi ucraini in Russia e i tanti milioni dei matrimoni misti. Un immane problema umanitario, di indicibili sofferenze, di disperazione per l’incancrenirsi della situazione.
Realismo impone allora di prendere atto che l’espansione a Est della Nato è stata “frettolosa e sbagliata”, come ormai convengono tanti analisti.
Le richieste russe non riguardano basi Nato con armamenti nucleari esistenti in Italia o in altri Paesi dell’Europa occidentale. La Russia chiede solo che la Nato non abbia ulteriormente a estendersi sino a compromettere gli interessi vitali di sicurezza della Federazione russa.
“La fruttuosa collaborazione per il bene della pace e del progresso” è detto nei documenti ufficiali, può continuare con una Europa non anti-Usa, né antirussa. Gli accordi di Minsk mirano a una soluzione politica del conflitto nel Donbass. Solo il rispetto di questi accordi da parte di tutti i sottoscrittori può consentire il superamento di questa crisi, che tiene con il fiato sospeso non solo le popolazioni più direttamente coinvolte, ma l’intera Europa.
Luigi Marino, componente Comitato nazionale Anpi
Pubblicato lunedì 31 Gennaio 2022
Stampato il 30/09/2023 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/primo-piano/ucraina-ritornare-ai-blocchi-contrapposti-non-porta-pace/