Che cosa si aspettano gli studenti dalla scuola?
Dalla risposta a una simile domanda si può capire se ci si trova in un Paese fortunato o sfortunato.
Se la risposta è: “che la scuola sia chiusa per incendio, alluvioni, caduta di un meteorite”, vuol dire che siamo in un Paese fortunato, dove l’obbligo di istruzione scolastica è un diritto talmente garantito da far sognare agli studenti che stia chiusa qualche giorno in più.
Se invece la risposta è: “che sia aperta, agibile e accessibile”, vuol dire che siamo in un Paese dove la scuola non è un diritto per tutti ma un privilegio per pochi o, peggio, un luogo da eliminare perché insegna a pensare. Enaiatollah Akbari, nel libro Nel mare ci sono i coccodrilli, racconta di quando i talebani uccisero il suo maestro e chiusero la sua scuola di Nava (Afghanistan): «la vita senza scuola è come la cenere».
Ma anche agli studenti di un Paese fortunato è possibile rifare un’altra volta, seriamente, la stessa domanda e provare a sentire cosa ne viene fuori. Ci sono a questo proposito svariati sondaggi che mettono in percentuale desideri e aspettative dei ragazzi: circa un adolescente su due vorrebbe che a scuola ci fossero più sport e più tecnologia, musica, arte e cultura. Quasi il 50% del totale dei ragazzi intervistati ritiene che la scuola dovrebbe orientare maggiormente al lavoro. Più di un quarto degli adolescenti intervistati (28,7%) vorrebbe che la scuola offrisse una maggiore preparazione.
Lavoro a scuola da otto anni, con studenti dagli 11 ai 18 anni.
Stando alla mia esperienza, posso provare a riflettere su risposte e preferenze e posso azzardare a dire cosa, a scuola, mi sembra funzioni di più.
La crisi economica che ha investito dal 2008 l’Italia ha fatto sì, probabilmente, che per molte famiglie garantire ai figli la possibilità di praticare una disciplina sportiva sia diventato difficile; pertanto, se la scuola non interviene offrendo (oltre alle ore curricolari di scienze motorie) corsi pomeridiani, magari in convenzione con il Comune o con altre polisportive, l’alternativa restano il divano, lo smartphone o stare per la strada.
Che a scuola, poi, debba esserci più tecnologia è necessario ma non sufficiente, occorre infatti che essa sappia essere utilizzata e adattata alla didattica, per questo servirebbero corsi di formazione e aggiornamento per i docenti, che spesso devono affidarsi ai loro studenti per capire come collegare le casse al pc, il pc al proiettore o alla LIM… Ma i corsi di formazione costano, la tecnologia anche e questo fa sì che in istituti dove i genitori devono fare collette per pagare la carta igienica o le ritinteggiature ci si debba accontentare dei gessi bianchi.
Circa la musica, l’arte e la cultura, beh, dipende che cosa i ragazzi intendono: forse Mozart, Goya e Fellini? Abbado, Michelangelo e Benjamin? No, non credo: questa musica, quest’arte e questa cultura sono per la maggior parte di loro “roba” buona per i loro docenti (o almeno così dovrebbe essere). Credo che per musica, arte e cultura molti studenti, dei miei almeno, intendano gli One Direction o Marracash, i Griffin o la saga di Hunger Games.
Immagino già i nasi arricciati dagli spalti degli intellettuali. Ma non occorre scandalizzarsi: si può apprezzare Beethoven e al contempo sapere che la frase “per me è no” rimbomba dalla giuria del talent X factor.
Il punto è che età media dei docenti della scuola italiana è di 49 anni: troppo alta. L’unica cosa che si rischia di avere in comune con i propri studenti è – ahinoi – il canone di autori di letteratura italiana da portare alla maturità. Non può bastare.
Ho iniziato a insegnare a 27 anni, in moltissimi casi qualche paragone coi Simpson, qualche battuta (magari disgustata) sulla De Filippi e i suoi tronisti o sulle rime allitteranti di Fabri Fibra, qualche accenno ai più noti graffiti di Banksy mi hanno salvato la lezione. Non – come si potrebbe malignare – perché invece di spiegare I Malavoglia preferissi divagare sulla tv spazzatura, ma perché chi avevo davanti, magari comprensibilmente annoiato o in difficoltà a capire “l’ideale dell’ostrica”, condivideva con me un pezzetto anche del suo immaginario e un immaginario condiviso facilita la comunicazione, rende il professore un umano calato nel mondo e nella quotidianità. Anche in quella dei più giovani che, certo, può non piacerci affatto, ma non abbiamo la possibilità di ignorarla o limitarci a disprezzarla, non almeno se abbiamo deciso di fare questo mestiere.
Ecco perché credo sia fondamentale e urgente che in cattedra salgano insegnanti giovani, non tutti, ma una parte nuova e consistente: perché, sì, hanno più fiato e gambe per andare su e giù per la classe a vedere che nessuno armeggi col cellulare sotto il banco, per tenere il tono di voce squillante e espressivo senza affaticarsi troppo, ma anche e soprattutto per parlare un po’ la stessa lingua.
Avere un po’ di umiltà per ritenere di avere ancora qualcosa da imparare dai ragazzi, perché la conoscenza non è un monolito immutabile ma si può costruire e sviluppare attraverso il contributo di ciascuno, anche questo funziona.
Non ritenersi infallibili e, sbagliando, saper fare ammenda, anche questo funziona.
Non soffocare né demonizzare il conflitto o il dissenso che possono sorgere – per il fatto stesso di essere un gruppo – tra alunni o tra alunni e docenti, ma aiutare ad esternarli e verbalizzarli, dando alla rabbia o all’opposizione parole ed argomenti; dimostrare con pazienza e nervi saldi che ogni opinione ha diritto di essere considerata ed eventualmente confutata ma sempre e solo col ragionamento e non con l’insulto o peggio la violenza, anche questo funziona (ed è, a mio parere, la più grande lezione di cittadinanza con cui far vivere lo spirito antifascista e la nostra Costituzione).
Continuare a studiare e aggiornarsi dopo la laurea o l’abilitazione o il concorso, a prescindere – purtroppo – dai corsi di formazione finanziati o meno dallo Stato; essere in questo modo padroni fino in fondo di ciò che si spiega, così che la lezione non sia solo una solfa letta dal manuale da un professore solo malpagato e frustrato, ma una storia viva e appassionante perché chi te la spiega (sebbene malpagato e frustrato) è comunque una bomba sul tema e parla disinvolto dei più grandi filosofi, poeti e scultori come se fossero la cosa più esaltante da scoprire; anche questo funziona.
Questo, anzi, incolla decine di paia di occhi e orecchi (non di tutti e non tutti i giorni, ovvio): ci rende credibili perché preparati (magari non solo sulla nostra classe di concorso, che la vita – prima della scuola – è interdisciplinare!), interessanti perché appassionati, stimati perché professionali e giusti sul nostro lavoro.
E dimostrare con l’esempio che il proprio mestiere è una cosa seria, importante, talvolta faticosa ma gratificante è anche un modo di rivolgersi al mondo del lavoro, un abituare ad essere puntuali e di parola sul banco come sulla cattedra e nella vita.
Pubblicato martedì 2 Febbraio 2016
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