Irene Barichello
Irene Barichello

Il 3 gennaio 2014 usciva su L’Espresso una lettera di Umberto Eco indirizzata al nipote che conteneva, sintetizzando molto, questa raccomandazione: impara a memoria, esercitala, perché solo così potrai trarre, e a lungo, innumerevoli benefici per la tua esistenza.

È inutile dire quante siano state le reazioni, positive e negative, alla lettera di un nonno simile, colpisce però che buona parte dei commenti non colgano la portata complessiva del messaggio, ma si limitino a schierarsi a favore o contro l’imparare a memoria.

Mandare a mente – come una volta – è cosa buona e giusta, invece oggi da un lato la scuola viene meno alla rigorosità di un tempo smettendo di far imparare a memoria Pascoli, dall’altro Internet, come la strega di Hänsel e Gretel, ci ingrassa con informazioni prêt-à-porter ma solo per renderci di fatto più ignoranti e dipendenti dalla rete stessa.

Per contro, i detrattori della memoria sostengono che immagazzinare sterilmente versi date e dati non serva a nulla, dato che la vera conoscenza, che resiste al tempo, è quella che passa per la comprensione e la passione, la curiosità e l’approfondimento.

Tale contrapposizione è la maniera più semplicistica e di comodo di disfarsi del consiglio di Eco. Come se il grande semiologo, raccomandando di esercitare la memoria, biasimasse implicitamente l’appassionarsi visceralmente al sapere e allo studio curioso e intuitivo.

Andiamo! Umberto Eco non è mica Umberto Eco solo perché sa tantissime cose a memoria! Egli suggerisce a noi tutti, in particolare ai più giovani ma non solo, anche di allenare la memoria. Forse che imparare La pioggia nel pineto vieta di approfondire la scrittura creativa o di pescare dal web tutto ciò che ci occorre? In nessun passo della lettera Eco, che si guarda bene dall’essere un nonno «barbogio» e ha saputo stare al passo coi tempi in modo formidabile, si scaglia acriticamente contro Internet. Il punto dirimente è, a mio avviso, un altro, ossia quando scrive al nipote: «se ti viene il desiderio di sapere chi fosse Carlo Magno o dove stia Kuala Lumpur non hai che da premere qualche tasto e Internet te lo dice subito. Fallo quando serve, ma dopo che lo hai fatto cerca di ricordare quanto ti è stato detto per non essere obbligato a cercarlo una seconda volta se per caso te ne venisse il bisogno impellente […] Il rischio è che, siccome pensi che il tuo computer te lo possa dire a ogni istante, tu perda il gusto di mettertelo in testa».

Perdere il gusto, ecco il rischio. Sì, perché sapere e ricordare quel che si sa può essere un gusto, può essere un piacere. Pare incredibile ma è davvero così e non posso non ripensare alle parole di Guido Petter (giovanissimo partigiano e insigne pedagogista) che raccontava come, durante alcuni suoi lunghi tragitti in bicicletta, per far passare presto e bene il tempo ripetesse a memoria, tra sé e sé, i versi di Dante e Leopardi.

La scuola che, non sempre, tra l’altro, ha smesso di far imparare a memoria agli alunni, ha forse creduto di ridurre fastidi e fatiche, ma ha anche ridotto i piaceri.

Proprio l’altro giorno il padre di una mia allieva di terza media si rallegrava di come la figlia, imparato Il sabato del villaggio e A Silvia, memorizzasse altre poesie per conto suo: la sentiva dall’altra stanza, mentre se le ripeteva a mezza voce. Cosa dunque, tolto l’obbligo, può spingere a fare qualcosa del genere se non il mero gusto di farlo?

Imparare a memoria soccorre: soccorre gli studenti durante le interrogazioni sotto forma di date e nomi, sotto forma, per esempio, di versi che argomentano quanto espongono senza bisogno di aprire il manuale (e questo dà soddisfazione); soccorre gli insegnanti a lezione, perché consente di spiegare senza tener gli occhi fissi su schemi e appunti, guardando invece i ragazzi; soccorre tutti – poi – perché ricordare un termine, un’espressione precisa economizza i tempi, fa centrare dritto il bersaglio senza tanti giri di parole e senza equivoci.

E se non bastasse la perorazione in positivo, si pensi a quale soccorso avrebbe potuto dare a Primo Levi la memoria («strumento meraviglioso, ma fallace», I sommersi e i salvati) quando, con le stanghe della marmitta della zuppa sulle spalle, si sforzava di recitare a Jean i versi del XXVI canto dell’Inferno, e aguzzava il cervello nel tentativo di far abboccare ancora una sillaba, una rima, un endecasillabo in più per dire in quel Lager infernale qualcosa che gli sembrava fondamentale e umano. Quelle parole e quelle soltanto anelava.

Ma non solo versi si mandano a memoria, e non per forza in blocco: si possono ricordare prose e singole espressioni o sintagmi buoni, anzi insostituibili, per dare forma al nostro pensiero (senza con questo intendere che si debba abdicare ad elaborarne uno nostro, originale), per far passare proprio quel significato a chi ci ascolta e che talvolta ci concede un tempo e un’attenzione stretti come la cruna di un ago. E allora occorre precisione, incisività. Ma anche la bellezza e la perfezione che altri hanno cesellato prima di noi in sequenze di lettere e sillabe possono servire a dare colore e profumo alla realtà che viviamo o solo immaginiamo, possono far sì – prosegue Eco – che da vecchi ci ritroviamo ad aver vissuto mille vite, oltre alla nostra unica.

La memoria è lo strumento che ci consente, attraversando manuali versi enciclopedie siti web, di staccarcene infine arricchiti per andare a cercarne altri. Diversamente saremmo inchiodati e condannati a rileggere sempre la stessa pagina, a restare sprovveduti e dipendenti da chi ci racconterà la storia in una qualsivoglia versione.

Per questo la memoria è indispensabile anche quando si tratta di Resistenza e di ANPI. Si dice sempre che il primo compito dell’Associazione è “fare memoria”, ma non morta celebrazione, bensì viva e attiva. Credo perciò che la memoria per essere davvero viva, attiva e libera, debba per prima cosa essere “a memoria”: solo dopo aver fatto lo sforzo di memorizzare date, nomi, eventi potremo dire di possederli davvero, potremo farli vivi e presenti a noi e agli altri quando ne abbiamo necessità, anche lontano dalle lapidi che li portano incisi, all’ombra di corone presto seccate.

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(sempre in “Terza Pagina” riportiamo, sotto il titolo: La perdita della memoria, malattia di una generazione la lettera scritta da Umberto Eco al nipote, ripresa dall’Espresso del 2014)