Devo dire che i testi più inutili, al fine di immaginare una soluzione, sono proprio – da un lato – quello che ha denunciato lo “scandalo” e – dall’altro – quello che lo scandalo ha tentato di ridimensionare, se non di negare. Tuttavia sono serviti a suscitare un dibattito che – nei casi migliori – è stato informato, ragionevole, rispettoso della complessità della materia trattata.
Ecco l’idea che me ne sono fatta.
È vero che non solo molti studenti, ma persino molti laureandi scrivono male, in maniera inaccettabile anche in una scuola primaria.
È falso credere che sia un’ennesima e non organica riforma della scuola che imponga dettati ortografici e comprensioni del testo (già attualmente previsti dalle “Indicazioni Nazionali“) a risolvere un problema ben più complesso: sarebbe davvero un lusso che non possiamo permetterci illudersi che la questione sia di stretta ed esclusiva pertinenza grammaticale/ortografica.
È vero tuttavia che gran parte degli “addetti ai lavori”, sia i firmatari del j’accuse che i linguisti della difesa – forse troppo compresi nel loro ruolo – imputano alla scuola, in particolare alla qualità della didattica dell’italiano, sia la responsabilità “diabolica” dei danni che la loro “miracolosa” risoluzione.
Ma è falso (e ingenuo o presuntuoso) pensare che solo la scuola sia la responsabile e che solo la scuola, quella del primo ciclo in particolare, possa fornire il rimedio: occorrono politiche di ampio respiro e medio lungo termine per migliorare e sincronizzare la formazione e la cultura di tutte le fasce di età, affinché si arrivi davvero a un “apprendimento permanente” per giovani, adulti e anziani.
È falso credere, purtroppo, che tali provvedimenti siano al momento al centro dell’agenda politica nazionale (e non solo); altro è quello che la società e il mercato chiedono: folgoranti carriere professionali, successo economico e/o mediatico; l’affannosa rincorsa a un qualsiasi consenso da parte della politica se ne infischia del “bello stilo”: scrive Claudio Giunta – docente di letteratura italiana all’università di Trento – che «non è molto importante saper scrivere nell’Epoca dell’abbondanza». È dura ammetterlo, specie da parte di chi nella scuola lavora e fa dell’insegnamento dell’italiano il proprio mestiere, ma purtroppo forse è così: «Si scrive peggio soprattutto perché l’infarinatura umanistica che era tenuta in gran conto fino a qualche generazione fa è diventata secondaria, a fronte di altre competenze, o a fronte di niente, ed è per esempio perfettamente possibile entrare a far parte della “classe dirigente” senza aver letto dei libri e senza saper scrivere in italiano». E se al guastarsi delle parole per esprimerlo conseguisse, a lungo andare, anche un deterioramento del pensiero? Del resto Sciascia, in Una storia semplice, sosteneva che «l’italiano non è l’italiano ma il ragionare». La pensano così anche Christian Raimo e Simone Giusti: l’assenza di politiche articolate e complesse sull’apprendimento permanente porta a un peggioramento della qualità della vita, non basta la correttezza ortografica a renderla migliore, occorre la literacy, ossia “la capacità di comprendere, valutare e usare in maniera consapevole testi scritti per far parte della società, raggiungere i propri obiettivi e sviluppare la propria conoscenza e le proprie potenzialità” (definizione dell’Ocse); «senza un adeguato livello di padronanza in literacy […] le persone non fanno brutta figura all’università, ma hanno una vita più breve e maggiori possibilità di ammalarsi, hanno meno senso civico e meno fiducia negli altri, lavorano di più per guadagnare di meno».
Lasciare che questa polemica si attizzi e, prima o poi, inevitabilmente si sgonfi all’interno delle mura delle università, decretando magari il vincitore a suon di 4 o 10 e lode, è sprecare un’occasione importante. Che cosa chiediamo ai bambini e ai ragazzi che siedono sui banchi di scuola prima e stentano a trovare un lavoro poi? Che sappiano apostrofare senza errore e scrivere un curriculum vitae con maiuscole e a capo al posto giusto o che sappiano essere cittadini consapevoli e liberi anche perché attrezzati linguisticamente a leggere, interpretare e trasformare il mondo in cui vivono?
Forse era meglio che non mettessi il naso in appelli e contro-appelli: ne sono uscita con più rabbia di quando sottolineo tre volte “conoscienza”.
Preferirei che ad autovalutarsi fossero proprio quegli insegnanti – dai maestri ai docenti universitari – che hanno dimenticato come si fa un serio esame deontologico, troppo presi alcuni dal bocciare gli asini per sentirsi severi e competenti, altri dall’indulgere con gli stessi asini per giustificare il proprio fallimento nel non aver saputo dare loro gli strumenti per riscattarsi.
Preferirei che occuparsi e discutere di istruzione tornasse a essere affare e priorità di tutta la società: delle famiglie e della politica, per prime, e vorrei che anche loro si autovalutassero con rigore e giustizia.
“Leggere e scrivere bene servono a vivere meglio, non solo a prendere bei voti”: copiatelo tutti 100 volte per domani.
Pubblicato venerdì 17 Febbraio 2017
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