Una giornata pesante, afosa, quel 7 luglio 1960: il sole riusciva a malapena a filtrare la cappa di nubi e foschia che incombeva su Reggio. C’era nelle vie, nelle piazze, un’atmosfera quasi irreale: immobili le folte piante dei giardini pubblici, trasudante l’asfalto delle strade… Alle 16,30 in punto bottegai e commercianti calarono le serrande, contravvenendo alle disposizioni del prefetto e aderendo compatti, invece, allo sciopero indetto dalla Camera del Lavoro in seguito ai gravi fatti accaduti in quel di Licata. Ma il bersaglio di quella manifestazione, così composta e severa, era soprattutto il governo Tambroni. In quelle settimane, a Roma, Fernando Tambroni brigava infatti per sostituire al centrismo scelbiano un regime spostato ancor più a destra, autoritario e sfacciatamente aperto ai fascisti. In quei cento, lunghissimi giorni compresi fra la caduta del governo Segni e la formazione del nuovo governo Fanfani, Reggio Emilia fece quadrato intorno alla libertà conquistata nel 1945, pronta a tutto pur di difenderla da ogni insidia. Già il 29 e il 30 aprile i cittadini di Reggio avevano protestato, sdegnati, per l’autorizzazione concessa al neo-fascista Almirante, che avrebbe dovuto tenere un comizio in città proprio alla vigilia del 1° maggio.
Almirante, poi, non riuscì a parlare, ma il braccio di ferro tra prefettura (il prefetto ordinò: “II MSI deve parlare, altrimenti qualsiasi altra manifestazione politica sarà vietata in tutta la Provincia”) e manifestanti fu pesante: molti i feriti, anche gravi. Poi, appena tre giorni prima – il 3 luglio 1960 – Reggio Emilia aveva manifestato con vigore e fermezza tutta la sua solidarietà con Genova, che in quei giorni era riuscita a impedire il Congresso nazionale del MSI: ancora feriti, ancora contusi… Si arriva così, in un clima di grande tensione, a quel pomeriggio del 7 luglio, quando le serrande dei negozi improvvisamente vengono fatte calare e Reggio Emilia si ferma, aderendo compatta allo sciopero di protesta per l’inaudita aggressione compiuta a Roma, contro un corteo di antifascisti, da vari reparti di polizia.
“Lo sciopero è riuscito imponente in tutta la provincia” annuncia poco dopo le 16,30 ai cittadini radunati in piazza della Libertà un’auto della Camera del Lavoro. Ora non mancano che pochi minuti al comizio che deve coronare la grande manifestazione popolare (e che è stato autorizzato). Ma nessuno potrà mai ascoltare quel comizio: prima ancora che gli oratori prendano posto sul palco, comincia, infatti, l’inferno. Le camionette della polizia e dei carabinieri irrompono tra la folla a sirene spiegate: candelotti fumogeni, colpi di rivoltella e di mitra, trasformano la piazza in un campo di battaglia e di morte.
«Improvvisamente – ricorda l’ex Sindaco Campioli – (la testimonianza è desunta dal bel libro di Giulio Bigi: I fatti del 7 luglio) si udirono le sirene della “Celere”, e la piazza fu invasa da camionette e altri automezzi. Carabinieri e poliziotti cominciarono a lanciare bombe lacrimogene. Gli idranti entrarono in azione, ebbe inizio una folle sparatoria. L’irreparabile era già avvenuto in piazza Cavour: mentre tentavo di avvicinarmi al commissario Casapina, alcuni carabinieri spararono nella mia direzione alcune raffiche di mitra che colpirono a morte un lavoratore che era al mio fianco. Cinque morti di quel tremendo pomeriggio di sangue (Ovidio Franchi, Lauro Farioli, Afro Tondelli, Enrico Reverberi e Marino Serri) e 22 i feriti d’arma da fuoco, 21 i dimostranti arrestati…».
«Stavamo tentando di uscire dalla piazza – ricorda l’ex comandante partigiano Lino Alvarez “Sbrigoli” – per imboccare via Andreoli, quando un gruppo di una trentina di poliziotti, al comando del commissario Caffari, ci sbarrò la strada sparandoci addosso senza pietà. Tentammo di costruire una barricata con quanto ci capitava sotto mano, sedie, tavolini, assi, mentre i mitra dei poliziotti continuavano a crepitare come in una battaglia. Sparavano dalle finestre della Posta e della Banca d’Italia, e ho visto distintamente il commissario Caffari indicare ai poliziotti dove dovevano mirare. Vicino a me un giovane s’è accasciato esanime, falciato da una raffica al petto. Altri – ed io tra essi – sono rimasti feriti».
Qualcuno definì questi gravissimi fatti i “moti del luglio 1960”: il sacrificio dei cittadini democratici che vi persero la vita, o che vi rimasero feriti, contribuì in maniera decisiva a far fallire un tentativo d’involuzione autoritaria che avrebbe mutato profondamente la storia del nostro Paese. Ferruccio Parri scrisse, ancora sotto l’effetto di quella giornata di sangue, «che la strage del luglio ’60 perpetrata a Reggio Emilia apriva prospettive preoccupanti, più ancora dei pericoli di domani, un vuoto pauroso e non si sa come colmabile».
Da Patria Indipendente n° 12 del 6 luglio 1980
Pubblicato giovedì 8 Settembre 2016
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