Il presidente Erdoğan alle urne (da http://www.newnotizie.it/wp-content/uploads/2017/04/erdogan-1-415×277.jpg)

Il voto turco sulla riforma costituzionale dello scorso 16 aprile, seppur di stretta misura, ha premiato Recep Tayyip Erdoğan. I Sì hanno vinto con il 51,4 %. I sostenitori del No hanno presentato ricorso alla commissione elettorale suprema (Ysk) denunciando brogli. Il ricorso però è stato respinto qualche giorno dopo. Nel Paese si sono svolte diverse manifestazioni di piazza organizzate dalle opposizioni e ci sono state decine di arresti.

Un voto in stato di emergenza – dopo il tentato golpe dello scorso luglio è stato prorogato più volte – con la maggior parte degli oppositori politici in carcere tra cui i leader del partito curdo e di sinistra Hdp, Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ; quasi 130mila dipendenti pubblici sospesi, università sempre meno autonome e critiche verso i rappresentanti del potere, caos interno perché la violenza nelle città curde è tornata dal 2015, quando il presidente ha sospeso i negoziati di pace con il leader della minoranza curda Öcalan.

Il Paese uscito dal referendum costituzionale è spaccato a metà e, se fino a dieci anni fa aveva come obiettivo l’ingresso nell’Unione europea, adesso assomiglia molto di più all’Egitto di Al Sisi. In questa campagna referendaria i mezzi di informazione non hanno potuto raccontare liberamente le ragioni di entrambe le parti. Molti giornalisti turchi e curdi sono in carcere: mentre scriviamo seguiamo con apprensione anche la vicenda del nostro connazionale Gabriele Del Grande, reporter e documentarista fermato e trattenuto in isolamento dalle autorità turche senza nessuna accusa specifica durante lo svolgimento del suo lavoro. Dalla fine di febbraio anche un altro giornalista straniero è nelle carceri turche: Deniz Yücel, corrispondente del quotidiano tedesco Die Welt.

Noi europei possiamo ancora ostinarci, per mero interesse, a considerare la Turchia una democrazia? Lo scrittore Eduardo Galeano parlò di democratura per descrivere la convivenza di elementi democratici e autoritari all’interno di un modello che potremmo chiamare “democrazia ristretta” o “dittatura costituzionale”. Qualunque nome si scelga di adottare per il sistema politico turco odierno, i fatti sono che un presidente di un Paese membro della NATO e che ha firmato l’accordo con l’Europa per la gestione dei profughi in fuga dalla Siria in guerra ha ora in mano molti più poteri. Erdoğan potrà, una volta entrata in vigore la riforma, nominare i giudici senza consultare il parlamento, emanare decreti legge e sciogliere le camere, esercitare un controllo esclusivo sulle forze armate, decidere la nomina dei dirigenti più alti in grado della pubblica amministrazione. Insomma il presidente avrà più potere di qualsiasi leader turco dai tempi dell’Impero ottomano. Nonostante le grandi città e anche la sua Istanbul – di cui è stato sindaco – non l’abbiano premiato con il voto, il presidente turco è riuscito a strappare la sufficienza e a portare a casa questo risultato.

Inoltre, significativo è stato il voto delle comunità di turchi residenti all’estero che hanno votato in larga parte per questo superpresidenzialismo voluto da Erdoğan. Il presidente nei mesi scorsi ha speso molta retorica e propaganda per trarre dalla sua parte i connazionali fuori dalla madrepatria inscenando una “guerra diplomatica” con Paesi Bassi e Germania al fine di poter svolgere comizi in favore del Sì su suolo straniero.

Dopo il voto, le timide parole della Germania e l’approvazione di Donald Trump mettono di fatto un sigillo sul risultato referendario. La Turchia ha deciso in senso presidenziale e quindi le cancellerie europee e quella americana ne prendono atto.

Erdoğan ha anche parlato di reintrodurre la pena di morte, eliminata qualche anno fa proprio per avviare i negoziati di ingresso nell’Ue. Se quest’ultima ipotesi avesse un seguito sarebbe ufficiale la rottura con il processo di adesione all’Europa, come hanno fatto sapere in una nota Parigi e Berlino.

Mentre in Turchia continuano le contestazioni e le azioni di protesta si vedrà se gli ulteriori ricorsi annunciati dalle opposizioni (i due principali partiti che sostenevano il No ovvero i repubblicani del CHP e il filocurdo HDP, ndr) alla Corte costituzionale e alla Corte europea avranno l’esito sperato.

Con questo contestato pacchetto di riforme approvato in un clima di terrore e delazione i problemi di questa nuova Turchia torneranno più prepotenti che mai. Il primo di tutti: l’economia. Nel Paese domina l’incertezza, così gli investimenti stranieri sono diminuiti, il debito pubblico turco è stato declassato dall’agenzia di rating Moody’s a livello spazzatura (junk), il turismo nelle località costiere è in forte calo.

La Turchia è un grande Paese, con una storia travagliata segnata dai colpi di stato militari, con fratture all’interno della società mai sanate che però ha fatto enormi progressi dalla sua nascita dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano. Non andrebbe lasciato solo. Ma l’Europa – si sa – è impegnata con l’avanzare dei neofascismi interni, con i lepenisti in Francia e con l’estrema destra in Germania, per non parlare dei neofascisti e razzisti di casa nostra.

Antonella De Biasi, giornalista professionista freelance. Ha lavorato al settimanale La Rinascita della sinistra scrivendo di politica estera e società. Collabora con Linkiesta.it e si occupa di formazione giornalistica per ragazzi