Bruxelles – “Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae (…) I Belgi sono i più valorosi, perché più lontani dalla raffinatezza e dalla civiltà della provincia e molto raramente i mercanti si recano da loro a portarvi quei prodotti che servono ad effeminare gli animi”. Così, 672 anni prima dell’anno zero del calendario islamico, Giulio Cesare scriveva dei Belgi e del loro isolamento.
Molte cose sono mutate da allora, Bruxelles è capitale dell’Europa, il Belgio stato federale anomalo dilaniato da tensioni pseudo-linguistiche. Ma indelebile resta il marchio di diversità. “Cugini un po’ sfigati” dei francesi, passato coloniale sfiorito, terra d’accoglienza di mano d’opera a basso prezzo. Gente arrivata in ondate che spesso si sovrappongono, italiani – carne da miniera per un sacco di carbone – spagnoli, portoghesi, Maghreb e Turchia. Tutti con lo stesso percorso, il quartiere della stazione nord come primo rifugio, i sobborghi più lontani dal centro poi e, migliorata la condizione sociale, la diaspora nei 19 comuni delle capitale. Nascono così, in sordina, i quartieri degli immigrati in cui si stratificano le varie ondate, le storie d’immigrazione s’intrecciano, percorsi comuni ma infinite diversità.
Molenbeek, quartiere brussellese ormai famoso quale luogo di provenienza di parte degli autori dei recenti attentati, è un esempio classico di questa impermeabile permeabilità. Le “storie di Molenbeek” sono le stesse delle periferie parigine, una prima generazione che pensa essenzialmente a mantenere la famiglia; una seconda generazione che non trova punti di riferimento, ferita dalla crisi economica, in cerca di valori cui appigliarsi. Scolarità limitata o difficile, niente lavoro, crisi identitaria sono ingredienti tipici di un nuovo sottoproletariato urbano – il lumpenproletariat – facile preda di derive estremiste. Se l’emigrazione più anziana resiste – in parte perché meglio integrata, in parte perché ormai meno concentrata nei quartieri ghetto – la più recente cede.
“A Bruxelles si comprano armi con poche centinaia di euro”, verità relativa con un fondo di autenticità. Innanzitutto perché Bruxelles è da sempre crocevia di scambi più o meno leciti e terra di spie (Robert Ludlum, autore di spy stories come la saga di Jason Bourne, ambienta spesso nella capitale dubbi traffici e incontri) e poi perché il Belgio contende all’Italia un posto nella Top 10 nella produzione e vendita internazionale di armi.
Perché se è vero che dopo la dissoluzione dell’arsenale sovietico i Kalashnikov sembrano di facile reperibilità, è altrettanto vero che il fucile russo ha una controparte belga di tutto rispetto. Chi ha fatto il militare conosce il “FAL” (fucile automatico leggero), punta di diamante della produzione della FN, Fabrique Nationale de Herstal. Proprietaria della Browning e della Winchester, la FN vanta una lunga storia (la pistola FN M1910 – numero di serie 19074 – fu utilizzata per assassinare l’Arciduca Francesco Ferdinando) ed è uno dei maggiori esportatori d’armi leggere dell’occidente. Armi che vanno ovunque, spesso con percorsi dubbi per quanto giuridicamente quasi ineccepibili.
Dati del 2011 suggeriscono che l’export di armamenti rappresenti il 38,6% del totale del commercio estero dell’Unione Europea. Destinazione privilegiata il Medio Oriente (21,2% delle esportazioni totali, quasi 8 miliardi di euro) e l’Arabia Saudita partner favorito (11,2% delle armi esportate). Primo esportatore europeo di armi leggere e munizioni: il Belgio. Nel registro dell’ONU sul commercio di armamenti (Global Reported Arms Trade), l’Arabia risulta aver importato, lo scorso anno, il 43% di tutti i missili messi in commercio sul globo terracqueo ed il 6,1% dell’export di armi italiane, classificandosi al secondo posto dopo gli Emirati Arabi Uniti (11,5%).
Cosa ne facciano il Regno di Arabia Saudita ed i 7 Emirati di tutte queste armi è la domanda che potremmo/dovremmo porci; come queste armi siano utilizzate, quante restino effettivamente sul territorio di prima destinazione e quante rientrino in Europa o passino ulteriori frontiere per sostenere “altre cause” è un dato che ci piacerebbe avere.
Secondo la CIA, che di certe cose sembra intendersene, l’ISIS è il gruppo eversivo più ricco della storia, potendo contare sul ricavato della vendita del petrolio dei pozzi situati nel territorio controllato e su una parte di finanziamenti indirizzati ad Al Qaeda (di cui è diretta emanazione) che si aggirano, sempre secondo la stessa fonte, attorno al centinaio di milioni di dollari l’anno.
La relazione tra quantità di armi in circolazione e propensione marginale al consumo di alcuni soggetti dovrebbe indurre una domanda: esiste un modo per rivedere questo approccio vagamente autolesionistico?
La risposta è, evidentemente, “sì”: basterebbe applicare la legislazione esistente.
La legge italiana n. 185/1990, ad esempio, pone condizioni ben precise per l’esportazione d’armi, stabilendo il divieto di vendita in presenza di gravi violazioni dei diritti umani nei Paesi d’importazione accertate dall’ONU, la UE o il Consiglio d’Europa. Ma basta interpretare il precetto in maniera restrittiva per stabilire che il Paese di prima destinazione “non vìoli” e disinteressarsi dei successivi transiti.
Il “Trattato internazionale sul Commercio delle Armi” è entrato in vigore il 24 dicembre 2014, pur senza la ratifica di USA, Russia, Cina, India e Pakistan, ma con quella dell’Italia. L’articolo 6 prevede il divieto d’esportazione qualora si sia a conoscenza di un possibile utilizzo per commettere atti di genocidio, crimini contro l’umanità, gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra del 1949, attacchi diretti a obiettivi o a soggetti civili protetti o altri crimini di guerra. L’articolo 7 dello stesso Trattato stabilisce che per autorizzare l’export, lo Stato debba valutare se tali armamenti possano contribuire a minacciare la pace e la sicurezza internazionale, commettere o facilitare atti di terrorismo, commettere o facilitare atti della criminalità organizzata transazionale. Nel valutare, lo Stato dovrà prendere in considerazione il rischio che le armi possano essere utilizzate per facilitare o commettere atti di violenza di genere o contro donne e bambini. Vi sono due termini importanti: “possibile utilizzo” e “possano contribuire”. Non occorre la prova, come nella legislazione italiana, basta il rischio.
Quando il Ministro Pinotti dichiara che non avere rapporti commerciali con alcuni Paesi arabi in cui fondazioni private raccolgono finanziamenti per i terroristi equivarrebbe a sostenere che non bisogna avere rapporti con l’Italia perché c’è la mafia (fonte: agenzia Reuters) potrebbe non avere tutti i torti. Il problema è che, salvo prova contraria, non essendo lo Stato italiano in rapporti commerciali con la mafia, il paragone non regge.
Torniamo a Bruxelles, nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi. Perché è qui che parte di quegli strumenti di morte riapprodano, attraverso le nuove o le antiche rotte del contrabbando. La nemesi è in agguato; lo stupore e lo sdegno cedono il passo al ragionamento e la logica suggerirebbe una seria riflessione sui percorsi e sugli attori di tali cammini.
«Oggi il patto di sicurezza deve prevalere su quello di stabilità» dice Manuel Valls, Primo ministro francese, arrivando a teorizzare lo scorporo delle spese di difesa dai parametri di calcolo dei bilanci europei. Un regalo perfetto per il Natale dei “fabbricanti di sicurezza”.
Ma la risposta alle periferie degradate, alle armi facili, è certamente un’altra. Applichiamo innanzitutto le norme esistenti e sottraiamo ai vincoli di stabilità le spese d’istruzione, cultura, assistenza. Creiamo luoghi sicuri non attraverso il filo spinato e le ronde, ma facendo crescere chi quei posti li vive, li anima e li può proteggere.
Molenbeek è uno dei tanti luoghi dell’anima sparsi sul Vecchio continente, portiamoci “quei prodotti che servono ad effeminare gli animi” secondo Cesare, proponiamo cultura e sottraiamo alle spire dei falsi Dei che approfittano dell’altrui ignoranza quei ragazzi che oggi, stereotipi a parte, non chiedono altro che una ragione per fare.
Filippo Giuffrida, giornalista, Presidente ANPI Belgio, membro del Comitato Esecutivo della FIR in rappresentanza dell’ANPI
Pubblicato mercoledì 2 Dicembre 2015
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