Con il 48,4% (57 milioni voti) Lula non vince al primo turno le elezioni presidenziali contro il presidente uscente Bolsonaro che si attesta (contro tutti i sondaggi che lo davano inchiodato in una forbice tra 36-39%) al 43,2% (51 milioni di voti). Il sogno di una vittoria per la sinistra brasiliana al primo turno è svanito. Tutto rimandato al ballottaggio del 30 ottobre, in un Paese fortemente polarizzato. Intanto, il dato politico è che il bolsonarismo ha pervaso la società brasiliana, infatti secondo i media locali al Congresso nazionale sarebbero stati eletti ben 99 parlamentari vicini a Bolsonaro, il numero più alto da 24 anni.
Nello specifico, Luiz Inácio Lula da Silva ha vinto in tutti gli Stati del nordest, mentre Bolsonaro ha conquistato l’intera regione del centro-ovest. La sua più grande vittoria è avvenuta nel Mato Grosso, affermandosi anche negli stati di Rio de Janeiro, San Paolo e Paranà. Per gli analisti le elezioni si decideranno a San Paolo e Minas Gerais, e Lula proprio lì ha deciso di concentrare gli sforzi nelle prossime quattro settimane. Proseguendo nella demonizzazione dell’avversario, Bolsonaro non si è smentito: «C’è voglia di cambiare, ma certi cambiamenti possono essere in peggio».
La scelta per i brasiliani era netta, tra welfare e neoliberismo, tra scienza e negazionismo, tra un sistema pienamente democratico e uno tendente all’autoritarismo.
Il Brasile che è andato alla urne è ancora uno dei Paesi con la maggiore disuguaglianza sociale e di reddito al mondo, secondo un nuovo studio pubblicato dal World Inequality Lab, co-diretto dall’economista francese Thomas Piketty. Il World Inequality Report 2022 si riferisce al Brasile come “uno dei Paesi più diseguali al mondo” e afferma che il divario di reddito nel Paese “è segnato da livelli estremi da molto tempo”. Il testo afferma che le differenze salariali sono state ridotte dall’anno 2000, grazie principalmente alla politica di trasferimento dei redditi della Bolsa Família e all’aumento del salario minimo.
Tra gli oltre cento Paesi analizzati nel WIR, il Brasile è uno dei più diseguali. Dopo il Sud Africa, è il secondo con le maggiori disuguaglianze tra i membri del G20, ha detto Lucas Chancel, coautore del report e altro condirettore dell’istituto. Negli ultimi anni, anche a causa della drammatica gestione dell’emergenza Covid da parte del presidente Jair Messias Bolsonaro, gli indici di povertà sono nuovamente schizzati in alto, tanto che più di trentatré milioni di brasiliani soffrono una situazione di insicurezza alimentare. Oggi la metà più povera della popolazione brasiliana guadagna solo il 10% del reddito nazionale totale. In pratica, ciò significa che il 50% più povero guadagna ventinove volte meno del 10% più ricco del Brasile. In sostanza cinquanta milioni di brasiliani vivono in condizioni di povertà e circa dodici milioni di estrema povertà.
Sono note le vicende che hanno portato all’impeachment e alla successiva destituzione della presidente Dilma Rousseff e al processo penale contro Inacio Lula, che si sono rivelate essere delle vere operazioni politiche, dei golpe istituzionali, come ha dimostrato l’epilogo della vicenda giudiziaria con la sentenza del Tribunale supremo federale, che nel marzo 2021 ha annullato tutte le sentenze di condanna in capo a Lula, e il cui disegno era stato svelato ancora prima grazie alle rivelazioni di The Intercept Brasil nel giugno 2019. Il sito americano di inchiesta infatti pubblicò un intenso scambio di messaggi tra i pm dell’accusa di Lula – e degli altri casi dell’operazione politico-giudiziaria “Lava Jato” (Autolavaggio) – e il magistrato giudicante Sérgio Moro (poi promosso ministro della Giustizia da Bolsonaro) che, nelle conversazioni, dava suggerimenti su come svolgere le indagini.
Nell’ambito della “Lava Jato” l’ex presidente era stato condannato per corruzione a dodici anni e incarcerato nell’aprile 2018. Dopo più di diciannove mesi di prigione, all’inizio di novembre 2019 Lula viene scarcerato a seguito di una decisione della Corte Suprema, che stabilisce che un imputato poteva essere incarcerato solo dopo aver esaurito tutti i ricorsi possibili e all’ex presidente ne mancava ancora uno.
Parlando dell’inchiesta giudiziaria che nel 2018 gli impedì di candidarsi alle elezioni presidenziali Lula sottolineò che: «In un contesto di normalità democratica, Bolsonaro non avrebbe vinto le elezioni. Tutti i sondaggi prevedevano la mia vittoria con largo vantaggio. Lui non sarebbe stato eletto se non fosse per le circostanze eccezionali create dal golpe contro la presidente Dilma Rouseff, la demonizzazione della politica democratica, la persecuzione del Pt e la mia prigione illegale».
Al di là dell’esito elettorale, Lula e Bolsonaro rappresentano due mondi, due visioni contrapposte e inconciliabili della società.
La storia personale di Lula coincide con quella di gran parte della popolazione. In questo senso è emblematico il Programa Bolsa Familia (Pbf), unico nel suo genere, avviato nel 2003 durante il primo mandato presidenziale. Un programma di trasferimento diretto del reddito, rivolto alle famiglie in condizioni di povertà ed estrema povertà in tutto il Paese. Con elementi di assistenzialismo, il suo obiettivo principale era combattere la fame, la povertà e promuovere la sicurezza alimentare e nutrizionale; inoltre, rafforzare l’accesso ai diritti fondamentali e ai servizi di salute, istruzione e assistenza sociale.
Bolsa Família è stata riconosciuta a livello mondiale come modello per i programmi conditional cash transfer (trasferimento contanti condizionato, Cct). Pbf ha raggiunto più di 11 milioni di famiglie (oltre 46 milioni di persone) all’anno, rendendolo il più grande programma Cct al mondo. Grazie alle politiche socio-economiche realizzate durante i due mandati presidenziali di Lula (2002-2006 e 2006-2010) la percentuale della popolazione che viveva al di sotto della soglia di povertà internazionale, secondo la Banca Mondiale, è scesa da tredici punti percentuali a tre (circa sette milioni di persone).
Il presidente Bolsonaro, sperando di strappare voti a Lula proprio tra i suoi sostenitori, recentemente ha più che raddoppiato il sussidio del governo alle famiglie più indigenti, ribattezzando il programma di sostegno del suo avversario “Auxilio Brasil”.
Il bolsonarismo
In questi quattro anni di presidenza, il filo-trumpiano Bolsonaro ha applicato una politica neoliberista. Messias, benedetto dalla potente comunità cristiano-evangelica (controllava un quinto della Camera dei deputati, rappresentando circa un terzo della popolazione), e appoggiato dall’ultradestra e dall’agrobusiness, ha favorito le industrie estrattive e agricole e ha sottovalutato l’emergenza climatica, così come la pandemia di Covid-19, considerata una semplice influenza, ma che invece fino a oggi ha causato la morte di circa 680mila brasiliani.
Ex capitano dell’esercito, ha dato incarichi di governo a più di seimila ufficiali occupando tutti i livelli dell’amministrazione e sin dal 2019 ha imposto la commemorazione del 31 marzo (anniversario del golpe) in omaggio alle Forze armate, negando di fatto la tragedia della dittatura vissuta dal popolo brasiliano con 434 assassinati o desaparecidos, 20mila persone arrestate e torturate, e oltre 10mila esiliate. D’altronde, come dimenticare che sulla porta di vetro del suo ufficio da parlamentare era esposto un cartello con la scritta: “Chi cerca le ossa è un cane”, citazione tratta da un ex maggiore dell’esercito che negli anni Settanta aveva comandato le operazioni di tortura, sterminio e sparizione dei corpi degli oppositori politici alla dittatura militare.
Nel corso degli ultimi anni il Brasile ha assistito a notevoli avanzamenti di posizione nella società del pensiero guidato dal proclama reazionario “difesa dell’ordine”, basato su precisi dettami, quali tradizione, famiglia, prosperità, incitamento all’odio contro le minoranze, le donne, i movimenti sociali e i sindacati, l’esaltazione del mercato come spazio per realizzazione delle libertà, oltre alla persecuzione e criminalizzazione di professori e professoresse. Non è un caso se la campagna elettorale è stata funestata dalla violenza dei sostenitori del presidente che ha causato l’assassinio di quarantacinque politici nei primi sei mesi dell’anno.
Tutto questo è frutto del clima instaurato dallo “stile Bolsonaro”. Si tratta di un modo di comunicare, di ammiccare, di non condannare apertamente certe frange estremiste o gli abusi costantemente perpetrati nella foresta amazzonica ai danni delle popolazioni indios o verso gli afrodiscendenti. La violenta verbosità bolsonarista di stampo fasciopopulista, intrisa di machismo sessista, ha creato in questi anni in Brasile un clima che legittima le violazioni dei diritti umani, gli attacchi al sistema scolastico e ai suoi docenti, gli ammonimenti verso alcuni giornalisti.
Nei momenti in cui l’eloquenza conflittuale del presidente ha cercato di mobilitare i suoi sostenitori, Bolsonaro si è espresso senza mezzi termini: «Questa è una dannata guerra». E ancora. «Sappiamo che dobbiamo combattere una lotta tra il bene ed il male. Un male che durò 14 anni (in riferimento al periodo di governo del partito di Lula, il Partito dei lavoratori (Partido dos trabalhadores) che quasi distrusse il nostro paese e che ora vuole tornare sulla scena del delitto. Non torneranno! Il popolo sta con noi dalla parte del bene» ha proclamato Bolsonaro in un atto pubblico durante la celebrazione del duecentesimo anniversario dell’indipendenza del Brasile dalla madre patria portoghese. In tipico stile populista ha costante delegittimato alcuni organismi istituzionali, inoltre in questi mesi, con piglio trumpiano, il presidente si è rifiutato in più occasioni di assicurare che rispetterà il risultato delle elezioni, minacciando la sollevazione dei suoi sostenitori, e mettendo in discussione, tra le altre cose, il sistema di voto e denunciando la possibilità di brogli legata all’uso di sistemi elettronici.
«È un errore dire che l’Amazzonia è un patrimonio dell’umanità e un errore, come attestano gli scienziati, dire che la nostra foresta è il polmone del mondo». (J. Bolsonaro, 74ma Assemblea generale Onu, 24 settembre 2019)
Già molto tempo prima, anche nel 1998, aveva predicato la decimazione delle popolazioni indigene: «La cavalleria brasiliana era molto incompetente. Competente, sì, era la cavalleria nordamericana, che in passato ha decimato i suoi indiani e oggi non hanno questo problema nel loro paese». Ventidue anni dopo, nel 2020, Bolsonaro è tornato sull’argomento affermando – senza il minimo cenno di vergogna – che «l’indiano è sempre più un essere umano come noi».
I caratteri della politica bolsonarista sono stati stigmatizzati anche dal Rapporto 2020 di Human Rights Watch, che si concludeva così: «durante il suo primo anno di mandato, il presidente Jair Bolsonaro ha intrapreso un’agenda contro i diritti umani, adottando misure che metterebbero maggiormente a rischio le popolazioni già vulnerabili».
È un fatto che le occupazioni e devastazioni delle terre indigene hanno raggiunto un record di 305 casi nel 2021, come rivela un rapporto del Consiglio Missionario Indigeno (Cimi). Si è registrata un’impennata di occupazioni negli ultimi quattro anni: la media è stata di 275 casi all’anno dal 2019, il 212% in più rispetto alla media annuale di 88 nei tre anni precedenti l’attuale amministrazione (2016-2108). Inoltre il numero di indigeni assassinati durante il governo Bolsonaro è anche il più alto mai registrato dal Cimi, sulla base dei dati ufficiali del ministero della Salute. Ci sono stati 113 casi nel 2019, 182 nel 2020 (il più alto mai registrato) e 176 nel 2021, una media annua di 157. Il numero è superiore del 30% alla media annuale di 121 verificati tra il 2016 e il 2018. Anche il numero dei suicidi indigeni è conosciuto un drammatico record: 148 casi nel 2021.
L’Amazzonia è l’altro buco nero del bolsonarismo. I dati dell’Istituto nazionale per la ricerca spaziale (Inpe), divulgati nel mese di agosto, mostrano che più di 8.500 chilometri quadrati sono stati distrutti nella foresta pluviale amazzonica tra agosto dello scorso anno e luglio di quest’anno, tanto che l’area devastata dal 2021 ad oggi è la terza più grande mai registrata. Tutti i record di deforestazione finora registrati sono avvenuti durante l’amministrazione bolsonarista, infatti secondo gli scienziati dell’Osservatorio sul clima, «Jair Bolsonaro è finora l’unico presidente, dall’inizio del monitoraggio satellitare della foresta (nel 1988), a vedere crescere la deforestazione per tre anni consecutivi del suo mandato».
Tutti i record di deforestazione finora registrati sono avvenuti durante l’amministrazione di Bolsonaro nella presidenza della repubblica, tanto che l’area devastata dal 2021 ad oggi è la terza più grande mai registrata, solo dietro a quanto osservato negli anni tra il 2019 e il 2020, e tra il 2020 e il 2021. Anche il futuro dell’Amazzonia si deciderà il 30 ottobre.
Andrea Mulas, Fondazione Basso
Pubblicato lunedì 3 Ottobre 2022
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