Se la geografia è la bussola per orientarsi nella storia, cominciamo a fare il punto con una serie di nozioni importanti: Schaerbeek, Molenbeek, Etterbeek, Forest non sono “sobborghi” di Bruxelles più di quanto Parella, Prati, Oregina o la Barona lo siano di Torino, Roma, Genova e Milano. Molenbeek è Bruxelles (vedi http://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/servizi/belgio-ue-medio-oriente-e-quellinquietante-traffico-darmi), così come lo è Schaerbeek, borgate permeabili, non ghetti con caratteristiche omogenee, insiemi di case, servizi pubblici ed abitanti nei quali spesso – Schaerbeek ne è l’esempio – funzionari internazionali, ristoranti di lusso, kebabbari e locali adibiti a moschee si seguono senza soluzione di continuità.
Beek significa ruscello e molti quartieri della capitale assumono il nome del corso d’acqua che anticamente li percorreva, storpiando l’antico fiammingo in due dizioni e grafie per rispettare il totale bilinguismo brussellese (francese/fiammingo). Peraltro, anche la pronuncia è importante e se Molenbeek si dice come si scrive, uno dei covi dei terroristi era appunto a “Scarbéek” e l’altro a “Foré”.
I luoghi degli attentati hanno poi, ovviamente, un loro significato. Evidente quello dell’aeroporto, che nei primi mesi dell’anno ha visto transitare oltre 3 milioni di passeggeri. Spazio di passaggio e d’incontro, Zaventem è un “lavoro in corso” perenne, tanto che negli ultimi due anni ogni partenza ed arrivo ha visto una modifica, un percorso nuovo per raggiungere il parcheggio o il gate di partenza. In questo continuo evolversi s’incrociano viaggiatori, equipaggi, familiari, operai e operatori di terra, come i famosi 50 addetti ai bagagli che oggi son detti appartenere alla rete dei fiancheggiatori più o meno espliciti dell’ISIS. È una bolgia d’incroci in cui è difficile distinguere l’uomo in partenza per Amman da quello in attesa del fratello di ritorno da Dubai, il muratore che sta costruendo il nuovo percorso verso i duty-free dal diplomatico di passaggio. Spesso sono gli abiti a fare la differenza ed una giacca e una cravatta possono evitare un controllo – anche se si è appena atterrati da Ryad – mentre una barba lunga ed una pelle più scura possono portare all’ispezione delle valige, anche se si sta semplicemente raggiungendo casa a Cipro.
Maelbeek (che si pronuncia Malbéek) è una stazione della metropolitana “del mondo di mezzo”. Stretta tra “Arts/Loi”, nodo di scambio delle due reti della capitale e “Schuman”, il centro nevralgico del potere europeo che porta al palazzo del Consiglio, al Berlaymont – sede della Commissione europea – ed al nuovo sito del Servizio di azione esterna della UE, l’ufficio di Federica Mogherini e dei diplomatici europei. A Maelbeek scendono, all’ora dell’attentato, migliaia di funzionari, giornalisti, avvocati e lobbysti che si recano negli uffici delle svariate entità pubbliche e private della galassia europea. Nel palazzo sopra la stazione hanno sede importanti uffici di rappresentanza, dalla potente associazione europea dei proprietari terrieri all’associazione europea dei managers; qualche studio legale, l’ufficio europeo della Tetra Pak, la nota multinazionale che produce gran parte dei cartoni di latte e bevande nel mondo, qualche società di consulenza. Fino a qualche anno fa, il palazzo ospitava anche la redazione d’una agenzia stampa: la mia. Bastano poche ore e la popolazione del metrò cambia, sono i genitori ed i bambini del vicino doposcuola delle istituzioni UE che entrano ed escono, parlando di compiti e maestre.
Due scelte simboliche quindi, due luoghi in cui si era certi di “far male”, perché affollati ma relativamente o per nulla protetti. Certo, nell’atrio dell’aeroporto camminavano alcuni soldati con sguardo annoiato e dito indice non lontano dal grilletto, mentre i poliziotti erano essenzialmente fuori, nel parcheggio simpaticamente chiamato “kiss&fly”, bacia e vola, impegnatissimi a far multe ai veicoli il cui conducente era andato a vedere quanto ritardo portava il volo che attendeva o ad accompagnare madri o figli con bagagli pesanti sino al check-in. Ma in quello stesso atrio passeggiavano migliaia di persone, anonime ed incontrollate, come le foto delle telecamere di sicurezza hanno ben messo a fuoco in quel fotogramma dove due terroristi, con un guanto solo ciascuno, spingono un carrello, controllati da “l’uomo col cappello”.
C’è un interrogativo che caratterizza le conversazioni dei brussellesi da allora: “ma come?”. Come è stato possibile ignorare i segnali che pure parevano evidenti? Perché il livello di sicurezza non è stato innalzato dopo la cattura di Salah Abdeslam, nonostante fosse immaginabile una reazione, magari anche convulsa ed approssimata, dei terroristi? Perché la segnalazione di un poliziotto di periferia non ha raggiunto gli organi di coordinamento ma è rimasta nel cassetto di un commissariato di provincia? Perché, come riporta la stampa, un capo della polizia si è presentato ubriaco fradicio alla riunione d’emergenza che ha seguito il primo attentato e come è possibile che i servizi d’emergenza abbiano dovuto comunicare tra loro con Whatsapp e la chat di Facebook perché la rete ASTRID, vanto del Belgio in materia di radiocomunicazioni criptate tra servizi d’intervento rapido, era inutilizzabile? Molti quesiti, poche o nessuna risposta al momento.
Una delle domande che mi è stata fatta più spesso dopo gli attentati è: “ma come hanno reagito i Belgi?”. Non c’è stata una unica replica, ci sono state risposte diverse, dalla prima ondata di sdegno, paura ed incomprensione, quella che ha portato i disegni dei bimbi, i fiori e le candele davanti all’ingresso del metrò, alle successive, nel sistema splendidamente surrealista del Regno del Belgio.
La manifestazione organizzata per dire “non abbiamo paura!” è stata vietata per motivi di sicurezza (ovvero per paura!), ma questo non ha impedito a qualche centinaio di neofascisti di disturbare, sotto l’ala protettrice della polizia, le commemorazioni pacifiche alla Borsa di Bruxelles, o l’arresto di 33 militanti della Lega per i Diritti dell’Uomo – compreso il Presidente Belga Alexis Deswaef – che si erano dati appuntamento nello stesso luogo per verificare se la manifestazione contro gli estremisti islamici organizzata dal movimento d’estrema destra “Génération Identitaire“ si stesse tenendo o meno.
C’è un’evidente frammentazione delle strutture statali, che riappare a luce meridiana dopo quel maledetto 24 giugno del 1995, in cui furono rapite, seviziate ed uccise le piccole Julie e Melissa. Se allora fu chiaro che la struttura investigativa era così scomposta da rendere impossibile ogni comunicazione, tanto da determinare la riforma della polizia, oggi è palese che tale riforma non ha funzionato. Sebbene non esistano più polizia comunale, gendarmeria e polizia giudiziaria, ma un solo servizio di “polizia integrata a due livelli”, l’impossibilità di coordinare le azioni d’informazione e d’indagine è chiara.
Al contempo è urgente rivedere il concetto stesso di servizi d’informazione, sia a livello nazionale sia a livello europeo. Gli egoismi degli Stati membri, che hanno sinora bloccato ogni tentativo di creazione di una intelligence europea, sono la principale causa di stallo. Anche la cosiddetta “Super-procura Europea”, organo di coordinamento tra inquirenti, è al palo. Sbandierata come una priorità nel corso del deludente semestre di presidenza italiana, l’organo resta una chimera, tanto che proprio l’Italia ha posto il veto alla riunione di Consiglio di dicembre, sostenendo che il risultato di un anno di trattative fosse così deludente da non meritare nemmeno un atto giuridico. Che il Ministro Orlando abbia ragione o meno, resta il fatto che dopo averne bloccato il processo a fine 2015 si è nuovamente fatto portavoce delle necessità di una procura europea antiterrorismo subito dopo gli attentati di Bruxelles. L’Italia ha proposto, con il sostegno della Francia – e ora di Belgio e Spagna – di rafforzare la normativa europea contro il traffico di beni culturali – sospettata di essere una fonte primaria di finanziamento per il terrorismo – e di punire i viaggi con finalità terroristiche all’interno dell’Unione europea. Ma è contraria ad un organo composto dai procuratori antiterrorismo degli Stati membri coordinati da un procuratore di nomina europea e quindi siamo al nulla di fatto.
Al di là degli apparati giuridici, che sono appunto principalmente strumenti ex-post, occorre ripensare alla prevenzione. Che certo abbisogna d’organi d’intelligence comune, ma deve soprattutto far leva sulla coscienza comune.
L’Italia, purtroppo, è in questo campo maestra. La nostra storia mostra come solo con la presa di coscienza del popolo, delle organizzazioni sociali, sindacali e di massa si sia potuto cominciare quel percorso che ha portato alla sconfitta del terrorismo come lo abbiamo conosciuto negli anni 70 ed 80. Più delle leggi speciali ha fatto Guido Rossa, più della creazione di reati specifici ha fatto il tagliare i ponti con quel sottobosco di simpatizzanti o ignavi che creava e manteneva attive le reti di sostentamento ed omertà.
Solo un investimento in cultura della legalità, solo un preciso piano di riabilitazione delle periferie, intese non come zone geografiche ma come “non luoghi” in cui prospera la simpatia verso l’estremismo, può efficacemente intervenire e portare risultati concreti. Non Guantanamo europee, ma dialogo, scambio, studio e risanamento culturale possono sconfiggere l’integralismo. Con un’attenzione particolare a non prestare il fianco alla propaganda populista e neofascista che approfitta biecamente di questi eventi per rafforzare il sentimento d’insicurezza e d’odio. Le foto di un eurodeputato italiano il giorno degli attentati sono sì la testimonianza che, per una volta almeno, egli era presumibilmente al posto di lavoro per cui riceve lauto emolumento mensile (già di per sé una notizia, visto il noto tasso d’assenza del suddetto), ma sono altresì indizio di come una destra senza controllo possa sfruttare la follia estremista per chiedere ulteriori limiti ai diritti civili ed alle conquiste di libertà.
Le destre europee hanno da tempo capito che occorre lavorare assieme, coordinamento e azioni comuni per portare avanti un triste piano d’involuzione. L’Antifascismo, pur essendo partito in teorico vantaggio, ha mostrato alcune forti difficoltà a coordinarsi ed a proporre soluzioni condivise e concertate.
Il documento congressuale dell’ANPI ben sottolinea questa necessità e la sfida per gli anni a venire è ora chiara e ben definita: una risposta europea verso la Pace.
Filippo Giuffrida, giornalista, Presidente ANPI Belgio, membro del Comitato Esecutivo della FIR in rappresentanza dell’ANPI
Pubblicato mercoledì 6 Aprile 2016
Stampato il 07/10/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/bruxelles-la-citta-fuori-controllo/