Predrag Matvejević in una foto di Danilo De Marco

Il 2 febbraio scorso si è spento a Zagabria Predrag Matvejević, uno dei più straordinari intellettuali jugoslavi (così amava definirsi, anche dopo il crollo del Paese di Tito), profondamente slavo del sud e profondamente europeo. Non dell’Europa delle banche e dei respingimenti dei/delle migranti (e degli imprigionamenti dei/delle migranti, come nell’Ungheria postcomunista e prefascista di Orbán), ma di quella accogliente e fonte di pensiero aperto, che guarda con vivo interesse a tutte le sponde del Mediterraneo, mare comune, e non nostro. Dalla nativa Mostar in Erzegovina, egli si è diretto verso l’amata Francia e l’amatissima Italia: ma questa scelta di vita, dovuta prima a ragioni di studio e poi – negli anni Novanta – alle guerre jugoslave e al trionfo dei nazionalismi aggressivi, non è mai divenuta occidentalizzazione del pensiero né sterile conversione/pentimento, ma ulteriore europeizzazione/fusione essendo il mondo dell’Est, il mondo ex, parte integrante dell’Europa, da sempre. Le sue radici a oriente, e a Odessa (da dove proveniva suo padre), gli hanno permesso di situarsi ovunque al centro di correnti di pensiero generoso e rigoroso. Di questo spostamento verso occidente, sono stati protagonisti anche tre altri grandi recentemente scomparsi, Zygmunt Bauman, Tzvetan Todorov e Jannis Kounellis (morti rispettivamente il 9 gennaio, il 7 e il 16 febbraio scorsi), che meritano di essere ricordati in questo vivo canto funebre.

Di Matvejević piace ricordare l’adesione al modello di socialismo jugoslavo, di cui pure vedeva i limiti e le contraddizioni: vicino ai marxisti della rivista Praxis, non esitò a difendere oppositori di Tito, tra cui anche qualcuno che poi sarebbe diventato osceno protagonista delle guerre degli anni Novanta, come il poeta Rajko Petrov Nogo. Di quest’ultimo scrive Matvejević: “…A suo tempo ne presi le difese, quando a Sarajevo fu oggetto di attacchi per il suo nazionalismo serbo. In quell’epoca voleva essere considerato uno scrittore di sinistra o progressista. Nella scorsa guerra ha stabilito la sua dimora a Pale, presso il quartier generale di Karadžić, ha dato una mano al boia…”. Peraltro anche alcuni esponenti del gruppo Praxis, come il filosofo Ljuba Tadić e Mihajlo Marković, si chiusero “nelle fitte tenebre del nazionalismo”. E piace ricordare il suo appoggio a ogni dissidente del socialismo reale, da lui interpretato come regime oppressivo e liberticida. “…Ho avuto l’occasione di incontrare nell’emigrazione Aleksandr Solženycin. Mi confidò che per anni, dopo l’uscita dal gulag, continuava a mettersi un filone di pane sotto il cuscino…”, scrive Matvejevjć in Pane nostro (2009). Il pane della paura, il pane sottratto o concesso dall’aguzzino, il pane rubato dal vicino di sofferenza.

La sua voce si è ancora alzata, dopo la dissoluzione della Jugoslavia, contro i nuovi padroni (le mafie nazional-confessionali) in tutte le repubbliche sorte dalla tragedia della guerra. Esemplare il suo articolo “I nostri talebani” (ancor più netto il titolo con cui l’articolo uscì sul Piccolo di Trieste, “I talebani cristiani”), denuncia spietata – da un uomo mitissimo – dei nazionalisti croati parafascisti e revisionisti, ma anche dei troppi ducetti serbi, servi di Milošević.

In genere ognuno accusa i talebani altrui: Matvejevjć invece invita a guardare nel proprio campo per scorgere i tradimenti che vi si annidano e che, in sintonia con tradimenti più grandi, possono trascinare interi popoli verso il macello, insensibilmente, nella fase iniziale, e poi con rovinosa velocità. Per questo articolo egli fu condannato a cinque mesi: reati d’opinione, nell’Europa postcomunista delle democrature (suo conio linguistico).

Per ricordarlo a un mese dalla scomparsa il 1° marzo 2017, con il patrocinio dell’Università di Trieste e grazie a diverse organizzazioni culturali (PEN Trieste; Euromediterranea; Associazione “Tina Modotti”; Gruppo 85-Skupina 85; Casa Internazionale delle donne-Trieste; Tenda per la Pace e i Diritti; Associazione Iniziativa Europea; Amici di Predrag Matvejević) si è svolto un pomeriggio di ricordo e di riflessione.

L’incendio del Narodni dom (Casa del popolo/della nazione) messo a fuoco dalle squadracce fasciste il 13 luglio 1920

L’incontro è stato ospitato nell’Aula Magna della Scuola Interpreti (Trieste), nel palazzo che era, all’inizio del Novecento, il Narodni dom (Casa del popolo/della nazione), e cioè la casa delle culture slave di Trieste, che fu incendiato da squadracce fasciste il 13 luglio 1920: luogo simbolico per una Trieste democratica che vuole ricordare il Novecento nella sua interezza, dallo squadrismo alla politica di snazionalizzazione antislava all’invasione della Jugoslavia (6 aprile 1941) cui seguirono crimini di guerra impuniti operati dagli italiani brava gente… (da ricordare agli smemorati Napolitano, Fassino, Violante, Gasparri, per cui la storia comincia il 1° maggio del 1945 con l’arrivo delle truppe di Tito a Trieste…).

I lavori, coordinati dalla sociologa Melita Richter, hanno tentato di tratteggiare la figura di Matvejević nei suoi vari aspetti di studioso e di intellettuale che voleva vivere le contraddizioni del suo tempo. Particolarmente significativi i contributi di Sinan Gudžević – che si è anche soffermato sull’inutile polemica intorno alle condizioni di ospedalizzazione di Matvejević negli ultimi anni della sua vita, del tutto corrette (lo conferma sua moglie Mira, presente all’incontro) e invece scioccamente denunciate come inadeguate da un gruzzolo di intellettuali italiani –; di Marija Mitrović, Marina Moretti e Milan Rakovac, presenti a Trieste insieme a tante/i altre/i, ma anche di Erri De Luca, Toni Maraini e Juan Octavio Prenz, che hanno inviato preziosi messaggi.

Ecco alcune parole di De Luca: “…Così ho conosciuto Predrag Matvejević, e sua moglie Mira. Abbiamo fatto sera insieme molte volte, erano tutte buone. A Sarajevo, finito l’assedio, siamo saliti in collina una sera d’estate, a bere. C’era Izet Sarajlić, c’era Ante Zemljar, cantavano con Predrag in italiano: Non ti potrò scordare piemontesina bella / tu sei la sola stella che brillerà per me. Izet l’aveva imparata da un soldato italiano, un invasore, Ante da un compagno di lavori forzati a Goli Otok. L’oste aspettò che le voci non avessero più canti, per chiudere…”.

In fondo questo ha detto l’intenso pomeriggio dedicato a Matvejević: occorre cantare fino alla fine, fino a notte tarda, e finché si ha voce, sperando nella pazienza degli osti e dei vicini, invitati a unirsi al coro. Questo canto, il canto di Predrag come quello di Izet – il poeta di Sarajevo – e quello di Ante – il poeta partigiano dell’isola di Pago/Pag – saranno con noi fino a che dureranno la vita e la storia. Sperando che a spegnerlo non siano i calci della soldatesca o di altri fanatici, magari non in tuta mimetica ma forse ancora più pericolosi dei primi.

L’ansa della Neretva che lambisce Mostar

Di Matvejević piace ricordare, in conclusione, non pagine dei suoi splendidi Breviario mediterraneo e Epistolario dell’altra Europa, ma quelle intensissime raccolte, per la casa editrice Asterios, da Giacomo Scotti – presente al pomeriggio triestino, con i suoi meravigliosi 89 anni – con il titolo Confini e frontiere. Fantasmi che non abbiamo saputo seppellire. Il testo “Un ritorno nel paese natale” (il viaggio avvenne nel 1997) è particolarmente struggente: da Ancona, a Spalato, poi l’estuario della Neretva e Počitelj. In questo paesino musulmano “all’ingresso c’è un grande crocifisso nuovo, e ce n’è un altro, più piccolo, in cima alla fortezza turca…”, a consolidare divisioni, a creare furie future; e poi Mostar: “…Non sono andato sulla tomba dei miei genitori (…). Sono andato invece a vedere la casa dove hanno trascorso gli ultimi anni di vita, fino a questa guerra. Si trovava nel punto preciso di divisione dove si svolgevano i combattimenti: è distrutta e bruciata come del resto tutti gli edifici attorno ad essa. Davanti a casa nostra, vicino alla finestra dove si affacciava da vecchia mia madre, c’era un albero di fico. Io ne coglievo i frutti, al mattino presto, ancora freschi e quasi acerbi, e a mezzogiorno già maturi e dolci. Li regalavo ai vicini e ai miei compagni, in un cestino di canne e giunchi che crescono lungo il fiume. Non è rimasta traccia del fico, neppure delle sue radici…”. Limpida e verde la Neretva, scuro il cuore degli umani, fonte di distruzioni, forse perenni.

Sulle spalle del gigante Matvejević – gigante minuto, dagli occhi vivacissimi – possiamo e dobbiamo salire per guardare oltre queste distruzioni e darci fiducia che altre mani di bambini un giorno potranno di nuovo cogliere fichi, sacri e succulenti, da una pianta impertinente venuta a nascere proprio lì, in tempo di nuova e vera pace, dove un’altra era stata strappata dalla ferocia bellica.

Gianluca Paciucci, poeta, insegnante, saggista e traduttore