Con la sentenza n. 25201 del 7 dicembre 2016 la Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro, è intervenuta sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo sposando, tra le due interpretazioni che da moltissimi anni si contendono il campo, quella che più amplia e protegge lo spazio della libertà di iniziativa economica dell’imprenditore a scapito della tutela della stabilità del posto di lavoro. Questa pronuncia si pone perfettamente in linea con le modifiche legislative che a partire dal 2012 hanno, in maniera sempre più incisiva, ridotto ed eroso le garanzie che lo Statuto dei Lavoratori aveva approntato nel lontano 1970 a tutela della “libertà e dignità dei lavoratori”.
Sebbene la legge cd. Fornero nel 2012 e il Jobs Act nel 2015 abbiano sostanzialmente ridotto la tutela in caso di licenziamento per ragioni economiche ad un indennizzo monetario e sebbene il Jobs Act abbia quantificato l’indennizzo medesimo in somme piuttosto irrisorie e predeterminate, così da consentire al datore di lavoro di preventivare il costo dell’eventuale illegittimo recesso, la Suprema Corte ha tuttavia scelto di aggiungere un ulteriore tassello al processo di riduzione delle tutele.
La fattispecie esaminata dalla Suprema Corte aveva ad oggetto il licenziamento intimato nel 2013 al direttore operativo di una società per azioni e motivato “dall’esigenza tecnica di rendere più snella la cd. catena di comando e quindi la gestione aziendale”. La Corte d’Appello di Firenze, riformando la sentenza di primo grado, aveva giudicato illegittimo il licenziamento per mancanza di prova dell’esigenza datoriale di far fronte a difficili, sfavorevoli e non transitorie situazioni economiche influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva. La Corte fiorentina aveva ritenuto insufficiente a giustificare il licenziamento l’obiettivo perseguito dalla società di mera riduzione dei costi ed incremento dei profitti, in assenza di una situazione economica e finanziaria non problematica.
La Suprema Corte ha cassato la sentenza della Corte d’appello di Firenze ritenendo erronea, per violazione di legge, l’interpretazione dalla stessa adottata.
Nella sentenza n. 25201/16 si dà atto dei due orientamenti interpretativi che da tempo si sono formati sul tema del licenziamento per ragioni economiche.
Un primo orientamento, maggiormente datato, esige ai fini della sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento e quindi della legittimità della decisione datoriale di estinguere il rapporto di lavoro, la prova dell’esistenza di situazioni sfavorevoli non transitorie che incidano in modo decisivo sulla normale attività produttiva ed impongano all’imprenditore interventi di riorganizzazione dell’azienda per una più economica gestione della stessa e quindi, ad esempio, la necessità di sopprimere determinati posti di lavoro.
Un secondo orientamento reputa legittima la risoluzione del rapporto di lavoro decisa dall’imprenditore a seguito di riorganizzazioni e ristrutturazioni aziendali dal medesimo decise nell’esercizio della sua libera iniziativa economica, quali ne siano le finalità e quindi anche al fine di un risparmio di costi o incremento dei profitti e senza che sia necessaria, a giustificare la modifica organizzativa, una condizione di difficoltà economico finanziaria della società.
Insomma, per il primo orientamento, il licenziamento di un lavoratore rappresenta l’extrema ratio ed è quindi legittimo solo ove sia inevitabile, cioè ove la modifica organizzativa con effetti di ridimensionamento del personale sia imposta da un andamento negativo non transeunte che potrebbe mettere a rischio la stessa funzione sociale dell’impresa.
Il secondo filone attribuisce potere determinante alle insindacabili scelte imprenditoriali ritenute idonee a legittimare ogni licenziamento oggettivamente ed effettivamente conseguente a tali scelte.
Per comprendere la portata e gli effetti dei due orientamenti appena richiamati e della pronuncia in commento, occorre partire da un dato normativo, cioè la disposizione che disciplina il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Questa disciplina si trova nella legge n. 604 del 1966 che all’art. 3 definisce il licenziamento per giustificato motivo (oggettivo) quello “determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Si tratta, come è pacifico, di una norma elastica o clausola generale, cioè di un tipo di disposizione a cui il legislatore ricorre quando intende rimettere al giudice il compito di definire i contenuti concreti della norma in base ai principi dell’ordinamento, agli standard esistenti nella realtà sociale e, nel caso di specie, ai principi di civiltà del lavoro.
Il legislatore attraverso le norme elastiche appena richiamate e il giudice attraverso l’applicazione concreta delle stesse contribuiscono, ciascuno per la sua parte, a individuare, il primo in termini generali e astratti, il secondo in riferimento alle singole fattispecie sottoposte al suo esame, il punto di equilibrio tra la tutela della libertà economica privata garantita dal primo comma dell’articolo 41 della Costituzione ed i limiti imposti a tale libertà dal secondo comma del medesimo articolo.
È infatti sull’articolo 41 della Costituzione che la sentenza in commento si diffonde a lungo ritenendo l’interpretazione adottata dalla Corte fiorentina, che considera il licenziamento come extrema ratio, non imposta dalla Carta Costituzionale. In particolare, si legge nella sentenza che: “L’art. 41 co. 3 della Cost. riserva al legislatore il compito di determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”; “Fermo restando il vincolo invalicabile per cui l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, essa “è libera” (art. 41, co. 1, Cost.), nei limiti stabiliti dal legislatore al quale non può sostituirsi il giudice”; “la tutela del lavoro garantita dalla Costituzione non consente di riempire di contenuto l’art. 3 della legge n. 604 del 1966 sino al punto di ritenere… imposto che…il licenziamento per motivo oggettivo possa ritenersi giustificato solo in presenza di una accertata crisi d’impresa”.
Non vi è dubbio che sia preclusa al giudice ogni valutazione sulla bontà delle scelte imprenditoriali e sui criteri di gestione dell’impresa in quanto, appunto, espressione della libertà di iniziativa economica garantita dall’art. 41 della Costituzione.
Ciò che è inspiegabilmente precluso, secondo la sentenza del 2016, è la possibilità di riempire la norma elastica dettata dalla legge del 1966 sui licenziamenti individuali di contenuti coerenti con una tutela del lavoro che comprenda la stabilità come garanzia di dignità dei lavoratori, che in base al secondo comma dell’art. 41 Cost. costituisce limite alla libera iniziativa economica, e quindi àncori il potere datoriale di licenziamento a “ragioni” che non coincidano con qualsiasi scelta imprenditoriale, a qualsiasi fine rivolta, ma che equivalgano ad una necessità di soppressione di uno o più posti di lavoro non altrimenti evitabile e razionalmente verificabile.
La Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto, con la sentenza in esame, che non possa rinvenirsi nel nostro ordinamento una forma di tutela del lavoro, imposta dalla Costituzione nazionale o dalle Carte europee, in grado di comprimere in qualche misura la discrezionalità imprenditoriale sulle scelte attinenti ai profili organizzativi e produttivi ed ha così fornito un apporto giurisprudenziale a quelle tendenze, di cui sono espressione la legge Fornero e, in misura più audace, il Jobs Act, che collocano il punto di equilibrio tra i valori tutelati dal primo e dal secondo comma dell’articolo 41 della Costituzione in danno della libertà e dignità del lavoro. Eppure, la stessa Corte di Cassazione, nel lontano 1991 avvertiva come “nel nostro ordinamento, per la legge n. 604/66 che… sancisce il principio della stabilità del rapporto di lavoro privato a tempo indeterminato, il datore di lavoro non può procedere come e quando vuole ai riassetti organizzativi in azienda. Occorre che questi riassetti integrino il giustificato motivo obiettivo di cui all’art. 3 della legge n. 604/66, perché i conseguenti licenziamenti dei lavoratori siano legittimi; non basta, in merito, un generico programma di riduzione dei costi: la tutela di quella stabilità potrebbe praticamente vanificarsi, perché la legge vuole, per il superamento della regola della stabilità stessa, “ragioni” che “giustifichino” il licenziamento, e cioè cause che col loro peso si impongano sull’esigenza della stabilità e, come tali, siano serie e non convenientemente eludibili”.
Carla Ponterio, Consigliera Corte d’appello di Bologna, Sezione Lavoro
Pubblicato lunedì 16 Gennaio 2017
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