In un famoso scritto del 1955, in occasione del decennale della Liberazione, Piero Calamandrei denunciava i ritardi nell’attuazione della Costituzione e stigmatizzava l’atteggiamento dilatorio, i tatticismi e i più o meno velati ostruzionismi in forza dei quali le forze politiche al governo avevano determinato, nell’arco di sette anni, una situazione che il giurista fiorentino definiva non soltanto di “immobilismo costituzionale”, ma anche di “arretramento”, “non sosta su posizioni raggiunte – scriveva – ma reazione e restaurazione del passato; non inattività temporanea, in attesa di ripigliare il lavoro, ma smantellamento e macerazione anche di quella parte di lavoro che si credeva per sempre compiuta”. Entrando nel merito delle inadempienze, Calamandrei aveva stigmatizzato la distinzione, all’epoca ricorrente nella dottrina giuridica e nella giurisprudenza, tra norme costituzionali immediatamente applicabili e norme programmatiche, ritenute, queste ultime, meri auspici del legislatore costituente, che il Parlamento avrebbe potuto rendere effettivi a sua discrezione, decidendo se e quando legiferare in materia (e su tale base la magistratura poteva sostenere la compatibilità delle leggi fasciste – anche di quelle poste a fondamento dell’organizzazione totalitaria, come il codice Rocco o il testo unico di P.S. – con il nuovo ordinamento democratico); era quindi passato a elencare gli istituti previsti dalla Carta del 1948 non ancora attuati per l’inerzia del legislatore, chiamato a completare un’architettura istituzionale definita solo nelle sue linee essenziali: la Corte costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura, le Regioni, il referendum popolare e il Cnel. Sottolineava in particolare come proprio l’attivazione di quegli organismi avrebbe completato il quadro delineato dai padri costituenti e accentuato la connotazione garantista dell’ordinamento, soprattutto in ordine alla limitazione dei poteri dell’esecutivo: il giudice della costituzionalità delle leggi avrebbe potuto infatti agire in primo luogo nella direzione del progressivo smantellamento dell’insieme di norme ereditate dal fascismo, largamente utilizzate nel corso della prima legislatura repubblicana per contrastare il conflitto sociale con mezzi autoritari ma formalmente legali; il Consiglio superiore della magistratura avrebbe posto le basi per il rafforzamento dell’autonomia dei giudici, concorrendo a recidere i legami patologici che li tenevano legati al potere esecutivo, mentre le Regioni avrebbero potuto agire nel senso di una redistribuzione dei poteri e di una loro ridislocazione dal centro alla periferia.
In sede di giudizio a posteriori si può sostenere che il ragionamento di Calamandrei, per il vigore e la persuasività delle argomentazioni, concorse in modo determinante ad aprire proprio a metà degli anni 50 il periodo che fu chiamato di “disgelo costituzionale” e che diede l’avvio a una – peraltro – lenta fase di attuazione della Costituzione. Così le inadempienze allora denunciate sono state oggetto di interventi che hanno sostanzialmente completato, sia pure in un arco temporale andato ben oltre quel lontano 1955, l’architettura istituzionale disegnata dal legislatore costituente, e in tempi più recenti hanno anche apportato delle modifiche, non sempre migliorative, ad alcune sue parti essenziali, come il Titolo V, relativo all’ordinamento regionale, interamente riscritto nel 2001.
Tutto a posto allora? No di certo, e chi oggi parlasse di piena attuazione dell’ordinamento tracciato nel 1948 formulerebbe un’affermazione corretta solo da un punto di vista formale, ma inidonea a dare una risposta adeguata agli interrogativi che si pongono quando si consideri la situazione attuale, soprattutto alla luce dall’esito del referendum del 4 dicembre 2016.
Certo, le differenze tra il 1955 e oggi non sono poche: allora, la denuncia delle inadempienze nell’attuazione della Costituzione si fondava su una chiara individuazione di responsabilità e rappresentava comunque uno spartiacque politico rilevante, in quanto l’imputazione di inadempienza costituzionale costituiva un forte pregiudizio per la credibilità dei partiti di governo: il ricordo della guerra e della Liberazione era ancora recente, e se in alcune forze politiche albergavano malcontento e perfino ostilità nei confronti dei principi democratici varati appena sette anni prima, questi erano accuratamente celati dietro un ossequio nei confronti della Costituzione repubblicana; tale ossequio, anche se di facciata e condizionato da remore di varia natura, agiva comunque come una regola di comportamento vincolante per i gruppi politici rappresentati in Parlamento (con l’eccezione ovviamente dei neofascisti), oltre che come un principio di pedagogia civile, in grado di catalizzare, in un momento critico come il luglio 1960, un sentimento antifascista e di patriottismo costituzionale che le forze conservatrici avevano ritenuto a torto affievolito se non del tutto estinto.
Oggi, il tema della parziale o mancata attuazione della Costituzione ha a che fare con un profilo diverso, ma non meno rilevante, che riguarda la crescente distanza, si vorrebbe dire quasi l’estraneità, che si è andata manifestando tra i principi generali dell’ordinamento costituzionale e la legislazione ordinaria, con tutto il corollario non solo di norme secondarie ma anche di concreti comportamenti degli apparati pubblici, in alcuni comparti dei quali ancora prevale uno spirito estraneo, se non ostile al dettato costituzionale.
Un’eloquente testimonianza di questa estraniazione è fornita dalla circostanza che su ben due leggi di diretta attuazione della Costituzione, come sono le leggi elettorali, promosse tra l’altro da differenti schieramenti politici, è dovuta intervenire la Corte costituzionale, con pronunce di particolare rilievo, non solo per il merito delle censure di costituzionalità, ma per il fatto stesso che il Parlamento sia stato richiamato a una più rigorosa osservanza di un principio essenziale di qualsiasi ordinamento democratico, relativo alla effettiva rappresentatività degli organi elettivi e all’esigenza di non subordinare questo valore primario all’altro, pur rilevante ma non esclusivo, della stabilità dei governi.
Meno evidente, ma forse per alcuni aspetti più significativo, è il caso delle leggi sul mercato e sul rapporto di lavoro: qui il divario progressivamente creatosi tra dettato costituzionale e legislazione ordinaria emerge con particolare chiarezza, quando si consideri che ormai da trent’anni, anche in questo caso con la sostanziale convergenza di maggioranze politiche tra loro diverse, si è affermata una disciplina piegata unilateralmente sul versante dell’offerta di lavoro, nel presupposto che il fine ultimo della legislazione sia non già l’attuazione dei principi costituzionali posti a tutela della dignità e della sicurezza del lavoratore, bensì la creazione di condizioni di mercato quanto più possibile favorevoli ai datori di lavoro, in termini di minor salario, minori tutele e flessibilità (termine divenuto un ipocrita e anestetico sinonimo di precarietà), tanto più perniciose in quanto poste in essere in assenza di un sistema di ammortizzatori sociali a carattere realmente universalistico, idoneo a governare una situazione di crisi occupazionale di lungo periodo, e nel quadro di un netto peggioramento del sistema di sicurezza sociale, a partire dagli schemi pensionistici. Per non parlare poi della crisi profonda in cui versa il complesso degli istituti formativi: pensata dai padri costituenti come la sede privilegiata per l’attuazione del principio di eguaglianza sostanziale e di formazione alla cittadinanza, la scuola pubblica, depauperata di risorse materiali e intellettuali, e malgrado gli sforzi coraggiosi ma isolati di numerosi insegnanti, si sta progressivamente riducendo a un ruolo ancillare nei confronti di un mercato del lavoro che, quando non esclude le giovani generazioni, le costringe a svolgere attività per lo più precarie e dequalificate.
Questi pochi esempi rinviano a una considerazione di ordine più generale, relativamente al carattere della transizione politica avviata all’inizio degli anni 90 del secolo scorso, quando la crisi dei partiti politici tradizionali segnò l’emergere di forze politiche orientate a fondare la propria legittimazione non solo sul superamento delle regole costituzionali vigenti, ma anche e soprattutto sul ripensamento dell’esperienza storica nelle quali esse si radicavano: l’antifascismo e la Resistenza.
Consolidatasi in un esteso e aggressivo revisionismo storico, l’idea della “Grande Riforma” della Costituzione in senso maggioritario e decisionista, lanciata da Bettino Craxi già alla fine degli anni 70, ha potuto contare non solo sull’intraprendenza dei suoi epigoni berlusconiani e leghisti, ma anche sull’acquiescenza dei soggetti che avrebbero dovuto porsi in una linea di continuità e di sviluppo delle grandi culture politiche dell’età costituente; un’acquiescenza che si è trasformata nel tempo, così che, in luogo di una legittima e auspicabile riflessione su modalità di aggiornamento utili a rendere più efficaci e stringenti i principi della Costituzione del 1948, nell’arco di due legislature si sono succeduti due tentativi di riscrittura integrale di essa, entrambi bocciati dal pronunciamento popolare, ed entrambi nutriti, al di là delle non poche differenze di merito, da un senso comune che in ultima analisi si può definire anticostituzionale e che ha assunto un preoccupante carattere di trasversalità tra forze politiche pure tra loro antagoniste. Senza tornare sui contenuti della riforma bocciata dal referendum del 4 dicembre 2016, va però sottolineato un ulteriore elemento di valutazione: il voto popolare ha posto un freno a velleità riformatrici in contrasto con le esigenze e con la realtà di un Paese che, insieme agli altri partner europei, sta facendo i conti con gli effetti di una crisi economica di eccezionale gravità e durata, ma non sembra avere del tutto messo a tacere un latente ma diffuso sentimento di insofferenza verso regole e principi dell’ordinamento democratico, ai quali personalità politiche, del mondo economico e dell’informazione continuano pervicacemente ad attribuire la responsabilità dei ritardi e delle resistenze nei confronti di un processo di modernizzazione del Paese, concepito e auspicato, in ultima analisi, nei termini di una più stretta subordinazione della sfera istituzionale alle norme di condotta, ai comportamenti e alle esigenze del mercato globale. Né, d’altra parte, si può pensare che un sentimento diffuso di patriottismo costituzionale possa affermarsi spontaneamente, in un contesto socio-economico e culturale profondamente segnato dalla sfiducia dei cittadini verso le politiche di austerity adottate per anni dall’Unione europea, e dalla diffusione di ideologie populiste e reazionarie che investono non solo le istituzioni europee (peraltro affette da un grave deficit di rappresentatività) ma anche le istituzioni democratiche di ciascun Paese, con esiti piuttosto inquietanti, soprattutto in alcuni Paesi dell’est del continente.
Si pone quindi il problema di come andare al di là del puro e semplice rigetto di un pur pericoloso revisionismo costituzionale e porre un argine al vuoto di prospettiva politica che sta emergendo con particolare evidenza negli ultimi mesi di una legislatura particolarmente travagliata. In momenti di profondo disorientamento come quello attuale, sarebbe illusorio formulare risposte nette e definitive a interrogativi di così ampia portata, ma non c’è dubbio che la riproposizione e il ripensamento di temi e contenuti della Costituzione del 1948 possano fornire quanto meno i presupposti per la costruzione di un percorso di riflessione in grado di aprire nuove prospettive nella realtà politica, sociale e istituzionale del nostro Paese. Giunge pertanto opportuna e tempestiva l’iniziativa dell’Anpi di promuovere un ciclo di seminari per esaminare i vari aspetti della parziale o mancata attuazione della Carta costituzionale, nella prospettiva di riportare al centro di un dibatto pubblico, spesso astratto e autoreferenziale, i temi della democrazia, dei diritti della persona, dell’eguaglianza, della partecipazione, del lavoro e della cultura, con lo spirito e nei termini che hanno accompagnato la fondazione della democrazia repubblicana, settanta anni or sono.
Dopo l’appuntamento del 22 giugno: “L’inattuazione dei principi, valori e ‘spirito’ della Costituzione” nel quale tre docenti universitari, Gianfranco Pasquino, Alessandro Lassardi e Livia Bonardi, hanno dibattuto sulla relazione del Presidente nazionale dell’Anpi, Carlo Smuraglia, i seminari proseguiranno con il seguente calendario:
L’inattuazione in tema di libertà ed uguaglianza (Pisa, 6 novembre 2017):
Relatore: Prof. Carlo Smuraglia
Discussant: Proff.ri Azzena, Panizza, Romboli
L’inattuazione in tema di ambiente, patrimonio artistico e culturale (Macerata, 17 novembre 2017):
Relatore: Prof. Giovanni Di Cosimo
Discussant: Proff.ri Cerquetti, Capriotti, On. Calzolaio
L’inattuazione in tema di lavoro e dignità (Torino, 11 dicembre 2017):
Relatore: Prof. Umberto Romagnoli
Discussant: Proff.ri Angiolini, Bonardi, Dott.ssa Sanlorenzo
L’inattuazione in tema di doveri e solidarietà (Roma, 20 dicembre 2017):
Relatore: Prof. Giovanni Maria Flick
Discussant: Prof. Azzariti, dott. D’Ambrosio, Avv. Adami
L’inattuazione in tema di legalità ed etica (Milano, 9 gennaio 2018)
Relatore: Prof. Carlo Smuraglia
Discussant: Proff.ri Dalla Chiesa, Colombo, Pessina.
Pubblicato giovedì 26 Ottobre 2017
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