
I Cervi erano peraltro già conosciuti come antifascisti: Aldo era stato incarcerato durante il servizio militare e nel 1933 aveva aderito al Pci clandestino; l’anno successivo aveva istituito, insieme ad altri antifascisti di Campegine, una biblioteca popolare poi chiusa dal regime; nel 1939 Gelindo era stato arrestato e ammonito per “frasi antifasciste e disfattiste”; nel 1942 Gelindo e Ferdinando erano stati arrestati per una decina di giorni per non avere ottemperato alle norme sull’ammasso dei prodotti agricoli.
Già nel 1942 i Cervi attuavano azioni di sabotaggio, stampavano e distribuivano l’Unità e volantini clandestini, ospitavano soldati stranieri e sbandati italiani, nel luglio del 1943 organizzarono, per festeggiare la caduta del fascismo, la distribuzione di pastasciutta nella piazza del paese e nell’ottobre tentarono di avviare la Resistenza nelle montagne dell’appennino reggiano.
Quali furono gli aspetti che concorsero a farne una storia esemplare della Resistenza italiana? In primo luogo la abnormità della vicenda: era stata sterminata l’intera nuova generazione maschile di una famiglia. Si considerino inoltre le modalità attraverso le quali il vecchio padre Alcide uscì dal carcere e vennero scoperti i corpi dei sette fratelli, in tutta fretta inumati dai fascisti in un cimitero secondario di Reggio Emilia. Il bombardamento alleato del 7 gennaio 1944 fece crollare le mura del carcere e disseppellì i sette fratelli; ciò contribuì ad suscitare nell’immaginario popolare un’aura leggendaria intorno alla loro figura.

Non va dimenticato inoltre che i Cervi furono contadini innovativi, i quali negli anni trenta si erano emancipati dalla condizione di mezzadri ed erano diventati affittuari. Nella zona furono i primi a livellare la terra, ad acquistare un trattore, ed erano assidui lettori di riviste agricole; “contadini di scienza”, come disse il padre Alcide. Come furono innovatori, estrosi ed originali nella loro attività lavorativa, così lo furono nelle pratiche antifasciste e nella lotta partigiana: per non consegnare il latte all’ammasso marchiarono con un ferro da stiro le loro vacche, per farle ritenere affette da afta epizootica; così come per le stesse ragioni, nascosero sotto la letamaia il proprio grano e quello di contadini della zona.
Favorirono la sottrazione alla leva militare di numerosi giovani della zona, distribuendo pastiglie di simpanima ed essi stessi conseguirono l’identico esito “socializzando” l’ernia di Agostino e la figlia, nata fuori dal matrimonio, di Aldo. Per sviluppare il sabotaggio operaio all’industria, barattavano salame e burro con pezzi di materiale bellico. Tra l’otto settembre e la data del loro arresto, i Cervi ospitarono almeno ottanta ex militari italiani e stranieri. Furono tra i primi, come recita la motivazione delle sette medaglie d’argento al valore militare, ad avviare la resistenza armata al fascismo, quando ancora i partiti antifascisti erano alla ricerca di forme organizzative comuni.
Peraltro i Cervi rappresentarono la dimensione sociale e popolare, contadina e rurale, non strettamente militare della Resistenza italiana; nella loro storia si incontrarono virtuosamente la tradizione cattolica, impersonata dai genitori, e la innovazione del comunismo italiano.

Ma ciò che contribuì in maniera determinante alla costruzione e diffusione del loro mito è rappresentato dalla continuità dei superstiti della famiglia: il vecchio padre Alcide, le quattro mogli e gli undici figli dei sette fratelli (la madre Genoeffa infatti era sopravissuta ai propri figli solo un anno) continuarono a coltivare la stessa terra e a vivere nella stessa casa assaltata dai fascisti. Ad Alcide in particolare toccò il compito innaturale e tragico di testimoniare la memoria dei propri figli. Visse fino a novantaquattro anni e diventò Papà Cervi, icona della Resistenza italiana con il suo corpo minuto e sofferto e la sua parlata arguta e profetica. Presenziò a molteplici iniziative commemorative; celebre, ad esempio, la sua partecipazione alla manifestazione nazionale del ventennale della Resistenza, a Milano nel maggio 1965.

Dall’immediato dopoguerra, e in particolar modo dopo l’uscita del libro I miei sette figli, casa Cervi divenne meta di pellegrinaggi laici di massa; militanti antifascisti ed ex partigiani, intere famiglie, giovani pionieri e pensionati, andavano a visitare i luoghi della vita e dell’azione politica dei sette fratelli e a rendere omaggio al vecchio Alcide.
Queste visite continuarono anche dopo il 1970, anno della morte di papà Cervi, e tuttora casa Cervi, nel frattempo diventata museo, biblioteca specializzata, Istituto di ricerca e formazione, sede di rassegne teatrali e convegni, è frequentata da militanti, cittadini, scolaresche, studiosi, ecc…
È ancora abitata da Luciana, figlia di Agostino, e dalla sua famiglia e, da diversi anni, ogni 25 luglio, è luogo della riproposizione della pastasciutta che i Cervi donarono ai propri concittadini nel lontano 1943; inventando così una tradizione di antifascismo determinato e risoluto ma, al tempo stesso, originale e popolare. Proprio come fu quello dei sette fratelli Cervi.
Marco Cerri, sociologo, studioso del lavoro e del welfare, autore di numerosi saggi. Ha pubblicato nel 2013 “Papà Cervi e i suoi sette figli”, editore Rubbettino
Pubblicato venerdì 15 Gennaio 2016
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