Il 2 giugno 1946 il popolo italiano, attraverso il primo voto del dopoguerra, abbracciava la Repubblica con il referendum istituzionale. Contestualmente elesse l’Assemblea costituente composta da 556 deputati, espressione di tutte le forze antifasciste che avevano alimentato la resistenza e l’opposizione al regime di Mussolini.
L’Assemblea si riunì per la prima volta il 25 giugno 1946 con Giuseppe Saragat alla Presidenza con compiti specifici: elezione del Capo dello Stato provvisorio (Enrico De Nicola), stesura della Costituzione, approvazione della legge elettorale, ratifica dei trattati internazionali, deliberare sui disegni di legge trasmessi dal governo.
La redazione della Costituzione fu affidata a una Commissione di 75 membri presieduta da Meuccio Ruini che si organizzò in tre sottocommissioni: la prima doveva occuparsi dei diritti e doveri dei cittadini, la seconda dell’organizzazione costituzionale dello Stato e la terza dei rapporti economici e sociali. Inoltre, veniva istituito un Comitato di redazione (il Comitato dei 18 composto dall’Ufficio di presidenza della Commissione dei 75 e allargato ai rappresentanti di tutti i partiti) che svolse il compito di coordinare i lavori delle sottocommissioni.
Il testo della Costituzione fu votato a scrutinio segreto il 22 dicembre del 1947 e approvato con 453 voti favorevoli e 62 contrari e promulgato dal capo provvisorio dello Stato il 27 dicembre del 1947 per entrare in vigore il 1° gennaio 1948.
Nel biennio dei lavori della Costituente quell’Assemblea sembrò essere in Italia l’unico luogo nel quale ci si sforzasse di mantenere una solida unità d’intenti per allontanare definitivamente il Paese dalla tragica esperienza del regime totalitario fascista aprendolo a una nuova era di democrazia e libertà. Al di fuori di essa, in verità, predominavano le divisioni, sempre più profonde e laceranti sul terreno politico, su quello economico e all’interno di un tessuto sociale sfibrato e prostrato.
Mentre i Costituenti cercavano difficili terreni di equilibrio tra le diverse culture politiche del tempo (la cattolica, la comunista, la socialista, la liberale, l’azionista, la repubblicana) per dare corpo e sostanza al nuovo assetto costituzionale e agli indirizzi economici, sociali e valoriali della nascente Repubblica, l’unità antifascista andava in mille pezzi, sia a livello politico che governativo con l’uscita dei comunisti e dei socialisti dal Governo (maggio 1947) cedendo il passo a nuovi e vecchi contrasti.
L’Italia era un Paese uscito distrutto, economicamente e moralmente, dalla guerra; una guerra per la quale portava una tragica responsabilità, che il consenso al regime fascista trasformava in una responsabilità diffusa, popolare. L’occupazione degli eserciti alleati l’aveva privata della sovranità nazionale, mentre il collasso economico e sociale l’aveva affamata e impoverita. L’occupazione nazista, con l’attiva collaborazione dei repubblichini, l’aveva straziata di stragi e deportazioni durante un biennio di vera guerra civile, per usare le parole di Claudio Pavone. La Resistenza del centro nord aveva sancito il protagonismo di “un’altra Italia” che per valori e progetto politico si opponeva al fascismo: aveva riscattato il Paese attraverso i partigiani, gli operai, i contadini, gli uomini e le donne che avevano deciso di scendere su un terreno di scontro aperto, militare e sociale, con il vecchio regime per affermare un anelito di libertà e riscatto che il ventennio non era riuscito a spegnere definitivamente. Lo scontro sancì una divisione nella convivenza civile che non si sarebbe esaurita con la fine della guerra ma avrebbe proiettato le sue ombre sulla storia della Repubblica. Il sud del Paese non aveva vissuto l’esperienza della Resistenza e nei fatti non riusciva a condividere, a livello popolare, l’ethos e le idealità di quelli che con la Resistenza si accreditavano alla guida del Paese e della ricostruzione economica e politica dello stesso, alimentando una divisione che aveva avuto la sua sanzione storica con il Risorgimento.
Le campagne e le città rimanevano mondi che comunicavano poco e male, resi sospettosi l’uno contro l’altro dalle vicende della guerra e del mercato nero.
Le stesse grandi famiglie politiche sembravano incapaci di contenere progetti unitari: monarchici e repubblicani si affrontavano in un confronto inesauribile; una parte della popolazione rimaneva fascista o nostalgica, distante e ferocemente avversa alla “nuova” Italia; i partiti si dividevano in correnti politiche quando non vivevano vere e proprie scissioni come capitò al partito socialista o addirittura si sciolsero come il Partito d’Azione.
Su questo panorama di divisioni scese la Cortina di ferro. La guerra fredda divise ideologicamente le culture del Paese in una incomunicabilità profonda, rancorosa, diffidente.
Eppure i Costituenti, sui quali le pressioni si fecero via via sempre più forti, proseguirono il loro lavoro, alla ricerca dei difficili compromessi che tenessero insieme i principi della tradizione liberale, la tutela delle libertà civili e politiche i grandi valori di giustizia sociale e le sollecitazioni solidaristiche. Riuscirono a garantire i meccanismi della partecipazione popolare e il riconoscimento della centralità della persona e dei suoi diritti conferendo, contestualmente, alla Carta un indirizzo sociale ed economico quasi socialisteggiante.
Forgiarono l’unità valoriale della Costituzione nelle fiamme di un Paese diviso.
Come disse Giuseppe Dossetti, “è stata la guerra il grande crogiolo che ha determinato, in quasi tutti, una disposizione degli animi più profonda ed equa che, al di là delle frange estremiste e delle singole tesi spesso divergenti od opposte dei Costituenti, ha portato alla conclusione di un Patto che è stato approvato con una maggioranza del 90% dei membri dell’Assemblea costituente. Cioè un patto che non è stato un qualunque compromesso o un semplice effimero espediente, ma veramente un solido edificio, in cui hanno confluito in sinergia costruttiva (al di là dei contrasti politici anche molto aspri e talvolta persino cruenti) le tre grandi componenti ideali, cioè la tradizione liberale, quella cattolica e quella socialcomunista”.
Edmondo Montali, dottore di ricerca in Storia del movimento sindacale, ricercatore della Fondazione Giuseppe Di Vittorio
Pubblicato venerdì 17 Giugno 2016
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