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Una volta scrutinati i voti del 25 settembre scopriremo il primo Parlamento sforbiciato, effetto dello tsunami populistico preteso dai 5Stelle e votato a larga maggioranza. La riforma costituzionale varata nel 2020 ha infatti ridotto da 630 a 400 il numero dei deputati e da 315 a 200 quello dei senatori e le prime conseguenze “tecniche” riguarderanno la natura e la composizione delle Commissioni permanenti del Senato: alcune verranno accorpate e diminuirà sensibilmente la presenza dei raggruppamenti medio/piccoli in queste stanze strategiche, luogo di elaborazione delle leggi prima della loro discussione in Aula. A Palazzo Madama passeranno da 14 a 10, con l’accorpamento tra Esteri e Difesa, Ambiente e Lavori Pubblici, Industria e Agricoltura, Lavoro e Sanità, con tutte le probabili ricadute in termini di funzionalità dei lavori parlamentari. I partiti più piccoli potranno contare su uno o due senatori in ciascuna Commissione e la necessità di dover legiferare su ambiti di intervento divenuti così vasti non faciliterà certo la loro attività.

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La nuova composizione dei due rami del Parlamento produrrà però sconvolgimenti sta già producendo sconvolgimenti, di vario ordine e grado, ben prima del giorno del voto. La rinnovata ripartizione dei collegi – varata con decreto legislativo il 23 dicembre 2020 – ha infatti scompaginato le carte, costringendo partiti e coalizioni a complicati calcoli sulle probabilità di elezione, tenendo conto in primo luogo della cervellotica legge elettorale rimasta in vigore e poi della fluidità dei consensi elettorali tra uno schieramento e l’altro (e al loro interno) per effetto della caotica situazione politica.

Con la nuova norma, i collegi uninominali – assegnati con il sistema maggioritario – sono diventati 221 (147 alla Camera e 74 al Senato) mentre quelli plurinominali sono complessivamente 367, di cui 245 alla Camera e 122 al Senato. A questi si aggiungono i 12 collegi riservati ai deputati e ai senatori eletti all’estero (8 alla Camera e 4 al Senato).

Le cronache raccontano di fibrillazioni indotte dall’applicazione, nel nuovo contesto, del Rosatellum. L’imperfetto sistema ibrido che riprende il nome dal parlamentare di Italia Viva, non prevede voto disgiunto e obbliga, scegliendo una lista, a votare necessariamente anche il candidato uninominale collegato; mentre, scegliendo soltanto quest’ultimo, tutti i voti “esclusivi” verranno comunque redistribuiti proporzionalmente tra le liste di sostegno.

“Non occorrono raffinate simulazioni per comprendere un semplice dato di fatto – ha osservato sul manifesto Antonio Floridia, docente di Istituzioni e processi politici all’Università di Firenze “Cesare Alfieri” – se una coalizione otterrà il 40-45% dei voti, in maniera abbastanza omogenea in tutto il territorio nazionale, e se, dall’altra parte, i suoi contendenti saranno divisi tra due o tre coalizioni e alcune liste ‘isolate’, è del tutto evidente che la coalizione vincente conquisterebbe gran parte dei 147 seggi uninominali, e poi una percentuale dei seggi proporzionali analoga alla percentuale dei voti ottenuti”. Con una conseguenza lampante e pericolosa: “Quella coalizione si avvicinerebbe a quei due terzi di parlamentari che possono approvare modifiche costituzionali senza ricorrere al referendum”.

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D’altro canto, la sinistra diffusa, a proposito del proprio destino, offre una chiave di lettura complessa e preoccupata, puntando il dito contro il segretario del Pd, avendo Enrico Letta posto il veto a un’ampia alleanza, comprendente i 5 Stelle di Giuseppe Conte. Agli immediati albori della campagna elettorale ferragostana, Tomaso Montanari e Francesco Pallante avevano tracciato sul Fatto quotidiano un’accidentata strada in quella direzione: “All’estrema destra rappresentata da Fratelli d’Italia, Lega e (in posizione ancillare) Forza Italia, dovrebbero contrapporsi due distinte alleanze, una di centro-destra (o di Agenda Draghi, se si preferisce) composta da Pd, Azione, Più Europa, Italia viva, e una di sinistra composta dal Movimento Cinque Stelle di Conte, Articolo Uno, Sinistra Italiana, Possibile e dall’Unione Popolare di De Magistris. Queste due alleanze dovrebbero essere concorrenziali nel proporzionale, ma stipulare un patto tecnico di desistenza nei collegi uninominali, in modo che contro a ogni candidato di estrema destra se ne schieri solo uno di questo patto costituzionale. E siccome non si può chiedere a un elettore di sinistra di votare Renzi o Gelmini, né a uno di centrodestra di votare De Magistris o Fratoianni, i leader dovrebbero candidarsi nel proporzionale, lasciando i collegi uninominali a personalità riconosciute, o almeno non così divisive”.

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Uno scenario rivelatosi presto in netto contrasto con la realtà, efficacemente descritta dall’ex magistrato Domenico Gallo sul suo blog: “Sembra che l’Italia sia un Paese collocato su Marte, indifferente ai problemi reali della vita sulla Terra. Evidentemente i leader dei principali partiti sono convinti di vivere nel migliore dei mondi possibili e sfoggiano l’ottimismo di Pangloss, il precettore del giovane Candido di Voltaire”. Da Marte lo sguardo risulta certo offuscato e non si sono intraviste né la strada di un’ipotetica “alleanza costituzionale” contro le destre né il ricorso a quei cartelli elettorali che ben interpretano lo spirito del Rosatellum.

Come limitare il danno, dunque? Rispolverando il vecchio adagio “marciare divisi per colpire uniti”, ha ipotizzato Marco Revelli, intervistato dal Fatto Quotidiano. Come si appresterebbero a fare i 5Stelle da un lato e le forze di sinistra cosiddetta radicale dall’altro.

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Insomma, il difficilissimo quadro di riferimento enfatizza la principale preoccupazione segnalata dal professor Floridia: una sconfitta elettorale con le dimensioni della disfatta “può porre certamente a rischio la Costituzione”. Grido d’allarme che fa un tutt’uno con la sparata di Silvio Berlusconi, intervistato da Radio Capital il 12 agosto: “Auspico che la riforma costituzionale si faccia, l’ho proposta fin dal 1995”, si tratterebbe di “un sistema perfettamente democratico che consente al popolo di scegliere direttamente da chi essere governato” e financo di preparare le valigie all’attuale inquilino del Colle. Perché se la riforma entrasse in vigore “Mattarella dovrebbe dimettersi, per andare all’elezione diretta di un Capo dello Stato che, guarda caso, potrebbe essere anche lui”.

L’originale della Costituzione (Imagoeconomica)

Scongiuri a parte, i difensori della Repubblica parlamentare avrebbero di che preoccuparsi anche semplicemente visionando i sondaggi che si susseguono l’un l’altro. Sempre il 12 agosto è stato diffuso quello di ‘Youtrend-Cattaneo Zanetto & Co’ per AGI: la mappa dei collegi uninominali da nord a sud appare come un’immensa distesa di centro-destra, eccezion fatta per una piccola porzione di Toscana ed Emilia-Romagna; mentre risulterebbero “contendibili” soltanto la parte restante delle due Regioni “rosse”, la Liguria attorno a Genova, le alte Marche, le zone “ztl” di qualche grande città e una piccolissima parte del Piemonte e della Campania. Una catastrofe annunciata, mentre i grandi organi di informazione si sono affrettati a puntualizzare il ruolo che potrebbe esercitare il duo Calenda/Renzi qualora dovesse sfiorare il 10% dei voti, spostando gli equilibri nelle zone elettoralmente più incerte. L’ipotesi è irrealistica, ma la dice lunga su come il dibattito pubblico sia stato orientato a partire dalle convulsioni dei due leader neocentristi: “Tutto il rilievo e l’enfasi che sono stati dati a queste due figure – ha tagliato corto a riguardo Marco Revelli – con degli ego ipertrofici ma con una sostanza politica tutto sommato residuale, sono il segno di un degrado della sfera pubblica”. In una democrazia normale, “quelle che li riguardano sarebbero notiziole, non temi da prima pagina: vengono considerati caratteri forti – ha chiosato Revelli sul duo Calenda/Renzi – ma in realtà sono due caratteriali, mosche cocchiere fastidiose”.

L’ambizione dei neocentristi è proprio quella di limitare la forza d’urto di Meloni e dintorni – magari scommettendo sulla loro incapacità a far decollare un governo o ad affrontare la drammatica crisi sociale alle porte – per riproporre l’Agenda Draghi riconducendo rapidamente il Paese sotto la cappa della BCE e delle ricette neoliberiste. E come la storia più o meno recente ci insegna, i “Responsabili” in Parlamento si trovano sempre.

Paolo Repetto