Quando c’è un vaso, prima o poi c’è la goccia che lo fa traboccare. È forse il caso della vicenda della “festa nazionale” di CasaPound, con tutto ciò che ne è conseguito: Milano, Castano Primo, e così via. La goccia è essenzialmente questa: davanti a iniziative che, in modo diretto o indiretto, si richiamano all’ideologia, alla pratica o all’organizzazione tipica del partito fascista, come si comporta lo Stato italiano? In che modo incarna lo spirito costituzionale, che si manifesta in ogni parola della Carta, ispirata ad un arcobaleno di valori esattamente opposti a quelli del fascismo? Come mette in pratica il primo capoverso della XII Disposizione finale della Costituzione (“È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”)?
I fatti: informato delle due iniziative pressocchè contemporanee di Forza Nuova a Cantù e di CasaPound a Milano, il 2 settembre il Presidente nazionale dell’ANPI Carlo Smuraglia invia una lettera al Presidente della Repubblica, ai Presidenti delle Camere, al Presidente del Consiglio e al Ministro degli Interni. Smuraglia richiede l’immediato intervento delle istituzioni, “perché il primo compito e primo dovere d’intervento spettano alle Istituzioni democratiche che devono sapere, e far sapere, che i diritti di libertà trovano un limite imprescindibile nella natura democratica e antifascista del nostro Stato”.
Laura Boldrini, Presidente della Camera, risponde per iscritto il 9 settembre, asserendo che “nella mia veste istituzionale non ho alcun potere di intervento diretto al riguardo, spettando ad altri organi dello Stato valutare con attenzione, in base a considerazioni di ordine pubblico e sicurezza, la liceità e l’opportunità dello svolgimento di manifestazioni e di altre iniziative politiche”. E aggiunge, opportunamente, la straordinaria distanza, sul piano politico, fra le sue convinzioni e le posizioni di movimenti che si richiamano in varie forme al passato fascista. Conclude elogiando la Resistenza e il sacrificio “di quanti hanno combattuto per restituire al nostro Paese la dignità e la libertà perdute”.
Laura Boldrini, dunque, si fa protagonista di una doppia (e pregevole) operazione: in primo luogo prende carta e penna e risponde alle preoccupazioni del Presidente dell’ANPI. In secondo luogo, rifacendosi al movimento partigiano, prende le distanze in modo inequivocabile da iniziative di sapore neofascista come quelle programmate. Ma – e questo è il punto – riconosce che la materia non è di sua competenza dal punto di vista istituzionale. Certo, spetta ad “altri organi”. Quali? La Presidenza del Consiglio, il Ministero degli Interni. Si potrebbe andare avanti: le Prefetture, le Questure, la Magistratura, i Presidenti di Regione, i Sindaci, la stessa Corte Costituzionale.
Eppure, a settant’anni dalla Liberazione, la questione della legittimità e della legalità di iniziative chiaramente ispirate al neofascismo non sembra per nulla risolta. Viceversa, si assiste da troppo tempo a un susseguirsi di eventi che, sia pur in modo contraddittorio e contrastato, rappresentano una struttura dello Stato spesso inerte, impotente, persino – qualche volta – implicitamente favorevole, davanti ad iniziative riconducibili a simpatie dichiarate verso il fascismo. Certo, vi sono sentenze della Corte di Cassazione che contrastano giuridicamente il neofascismo. Certo, vi sono due leggi (Scelba e Mancino), che normano tale contrasto. Eppure non si sfugge all’impressione che la costruzione dello Stato italiano come Stato antifascista sia un fondamentale nodo ancora irrisolto.
Le ragioni di questo ritardo sono presumibilmente da ricercare nella particolare genesi del processo di unità nazionale, nella mancanza di un vero testo costituzionale unitario fino al 1948 (lo Statuto Albertino era un’eredità del Regno di Sardegna e si configurava come una “gentile concessione” del re), nella difficoltà di composizione e amalgama del Paese in particolare fra nord e sud, difficoltà che, dai tempi dell’unità si trascinano ai nostri giorni come confermato dal recente rapporto Svimez, nella particolarissima condizione “geopolitica” data dalla “questione romana”, nel fallimento della gestione liberale dell’Italia unita, nella conseguente vittoria del fascismo e dunque nella distruzione del tessuto democratico che si era fino ad allora disseminato. Lo Stato nato dopo il 25 aprile, la Repubblica, paga lo scotto di un non detto, del continuo rischio di un ritorno all’indietro, di un’idea corporativa e censitaria dell’organizzazione sociale e statuale mai dichiarata ma spesso praticata, di una nostalgia verso il mito del Ventennio che ha covato (e cova ancora) anche in parti delle strutture dello Stato. Insomma, di una Costituzione mai pienamente applicata e quindi di una mancata riforma delle strutture dello Stato.
Questa contraddizione si legge in controluce nella lettera del Presidente della Camera: si ammette una mancanza di potere rispetto alle specifiche responsabilità del suo incarico istituzionale, ma nel contempo, sul piano politico e personale, si dichiara una condivisione delle parole di Smuraglia, e un pieno sostegno all’idea dello Stato democratico e antifascista. Questa contraddizione va a merito della sensibilità di Laura Boldrini, ma indica anche un terreno prioritario di lotta politica e di riforma istituzionale. L’alternativa è pessima: uno Stato assente, o, peggio, pilatesco da un lato; dall’altro un’idea di antifascismo “fai da te”, con l’alibi dell’assenza dello Stato. Si vince traducendo nella lingua del tempo d’oggi la logica della Liberazione e della Costituente. Quella che portò alla Repubblica democratica, fondata – non dimentichiamolo mai – sul lavoro. E quella che potrebbe portare finalmente ad una profonda riforma delle strutture dello Stato. La goccia che fa traboccare il vaso: può essere, dopo la tormentata vicenda di CasaPound, che ci si svegli. Perché i mostri generati – com’è noto – dal sonno della ragione, in determinati periodi storici indossano il fez, portano il manganello e in qualche caso gridano anche “Heil Hitler!”.
Pubblicato lunedì 14 Settembre 2015
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