Colpo di scena in Senato sulla vicenda dei fucilati italiani durante la Prima guerra mondiale, ci cui si è recentemente parlato proprio su Patria Indipendente (http://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/servizi/la-grande-guerra-i-fucilati-e-la-giustizia-sommaria/).
Nella seduta del 2 novembre, il presidente della Commissione difesa del Senato, Nicola Latorre (PD), ha illustrato, in qualità di relatore, la nuova formulazione del disegno di legge n. 1935, “Disposizioni concernenti i militari italiani ai quali è stata irrogata la pena capitale durante la Prima guerra mondiale” elaborata dal Comitato ristretto costituito in seno alla Commissione stessa il 18 ottobre, per l’esame del testo trasmesso dalla Camera dei deputati. L’Assemblea di Montecitorio aveva licenziato pressoché all’unanimità (333 voti a favore e un astenuto, su 334 presenti) il testo, di cui è primo firmatario il deputato del PD Gian Piero Scanu, nella seduta del 21 maggio 2015.
La notevole dilatazione dei tempi dell’esame parlamentare offre già un indizio significativo rispetto alla radicale diversità di visione che separa i due testi, esemplificata nelle numerose obiezioni avanzate dal presidente Latorre al testo varato dalla Camera. Queste obiezioni possono così riassumersi: con il ricorso all’istituto della riabilitazione per i fucilati durante la Grande guerra, si utilizza uno strumento giuridico per formulare un giudizio di valore su eventi del passato, attribuendo così una funzione impropria alla legge; inoltre, il testo varato dalla Camera potrebbe presentare un profilo di incostituzionalità, contrastando con il principio di difesa della Patria sancito dall’articolo 52; inoltre esso, se approvato definitivamente, porrebbe i caduti nell’adempimento del dovere o addirittura i decorati sullo stesso piano di coloro che si sono sottratti a quel dovere.
Nel presentare il nuovo testo, il presidente della Commissione difesa del Senato ha fatto presente che esso – citiamo qui il resoconto sommario della seduta – «mira a superare le criticità emerse nel dibattito e nelle audizioni togliendo ogni riferimento all’istituto della riabilitazione, non introducendo alcun giudizio di valore ed operando sul piano esclusivamente storico e morale, sia attraverso il riconoscimento del sacrificio dei cosiddetti “fucilati per l’esempio”, ingiustamente condannati senza alcun processo, sia con il perdono offerto a coloro che, pur condannati a seguito di regolare processo, pagarono con la vita l’applicazione di una legislazione militare eccessivamente dura e non più rispondente alle attuali sensibilità».
In effetti, l’articolo unico elaborato dal Comitato ristretto (e fatto proprio dalla maggioranza dei gruppi politici presenti in Commissione) esordisce affermando: “La Repubblica riconosce il sacrificio degli appartenenti alle Forze armate italiane che, nel corso della Prima guerra mondiale, vennero fucilati senza che fosse accertata a loro carico, a seguito di regolare processo, un’effettiva responsabilità penale”, salvo poi prevedere l’affissione di una targa nel complesso del Vittoriano così concepita: «Nella ricorrenza del centenario della Grande guerra e nel ricordo perenne del sacrificio di un intero popolo, l’Italia onora la memoria dei propri figli in armi fucilati senza le garanzie di un giusto processo. A chi pagò con la vita il cruento rigore della giustizia militare del tempo offre il proprio commosso perdono». Il riferimento al “cruento rigore”, peraltro, nella sua ambiguità, si presta a una vera e propria legittimazione di decimazioni e procedimenti sommari, evocando la sinistra figura dell’obbedienza dovuta, in nome della quale più volte, in passato, gli autori di crimini di guerra si sono sottratti o hanno cercato di sottrarsi alle loro responsabilità.
La contraddizione è palese, ed è logica, ancora prima che politica: non si vede infatti per quale ragione la Repubblica italiana dovrebbe concedere (e non chiedere, come sosteneva il testo della Camera) il proprio perdono a persone che, per esplicito riconoscimento del legislatore, vennero fucilate “senza che fosse accertata a loro carico, a seguito di regolare processo, un’effettiva responsabilità penale”: e non a caso è stato presentato già in Commissione un emendamento soppressivo della disposizione relativa all’iscrizione da apporre al Vittoriano, sul quale il relatore ha espresso parere positivo, forse nella tardiva consapevolezza del pasticcio nel quale ci si stava cacciando.
Ma l’impianto del testo del Senato è contraddittorio anche rispetto ai propri presupposti, poiché sostituisce un generico ed inefficace “riconoscimento del sacrificio” dei militari giustiziati al procedimento giudiziario previsto all’articolo 1 del testo licenziato dalla Camera, che circoscrive con chiarezza i destinatari del provvedimento di riabilitazione e dispone che esso sia adottato all’esito di una valutazione compiuta da un organo della magistratura militare. Solo a conclusione di questo procedimento e alla dichiarazione di riabilitazione, sempre secondo il testo varato dall’Assemblea di Montecitorio, si colloca infatti, la richiesta di perdono da parte della Repubblica, quale atto di riparazione a fronte dell’accertata ingiustizia compiuta ai danni di persone innocenti.
Non sembrano dunque del tutto immotivati lo sconcerto e il profondo dissenso che hanno accompagnato la presentazione di un testo come quello adottato dalla Commissione del Senato. Quest’ultimo, tra l’altro, ignora disinvoltamente le richieste recentemente avanzate dal mondo della cultura, e autorevolmente avallate in varie occasioni dal Capo dello Stato, affinché una pagina dimenticata della Grande guerra venisse riaperta e riesaminata alla luce delle nuove acquisizioni e dei numerosi motivi di riflessione da tempo prospettati dalla ricerca storica, al fine della rielaborazione di un discorso pubblico in sintonia con una visione più ampia e problematica di quegli eventi, in grado di sottrarli alla retorica nazionalista che ne ha accompagnato la celebrazione durante il fascismo e successivamente, anche se in termini diversi, negli anni della Guerra fredda.
In un articolo apparso sul la Repubblica del 6 novembre, Paolo Rumiz ha parlato di uno schiaffo istituzionale senza precedenti ed ha stigmatizzato in particolare il fatto che il rigetto dell’istituto della riabilitazione sia stato giustificato in nome della necessità di non mettere sullo stesso piano i caduti nell’adempimento del dovere e, come si legge nel citato resoconto parlamentare “di coloro che – pur con tutta l’umana comprensione – si sono sottratti a quel dovere”.
In verità, occorre dire che, anche per questo aspetto, l’intento manifestato dalla Commissione difesa del Senato, di operare per la difesa della memoria storica, viene apertamente contraddetto dalle formulazioni normative adottate. Queste sembrano infatti prescindere dal fatto che la vicenda dei fucilati della Prima guerra mondiale non attiene soltanto a un’applicazione particolarmente rigida della legislazione penale militare dell’epoca, ma ad una concezione e ad una pratica della disciplina in seno all’esercito che favorì in modo premeditato la moltiplicazione di atti di arbitrio e l’adozione di misure punitive del tutto sproporzionate: già il 28 settembre 1915, a pochi mesi dall’entrata in guerra, il “Reparto disciplina, avanzamento e giustizia militare” del Comando Supremo, con la circolare 3525, firmata dal comandante supremo Luigi Cadorna (che per tali materie si affidava sovente al parere del suo consulente psicologico, padre Agostino Gemelli), poneva le basi per la generalizzazione della prassi delle fucilazioni sommarie, dettando la procedura per l’intervento di repressione di fronte all’apparire di gravi sintomi di “indisciplina individuale o collettiva nei reparti al fronte”. Al punto terzo delle circolare 3525 era scritto che “… il superiore ha il sacro diritto e dovere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi. Per chiunque riuscisse a sfuggire a questa salutare giustizia sommaria, subentrerà inesorabile quella dei tribunali militari”. Era, peraltro, una brutalità con cui lo stesso Cadorna copriva la sua inettitudine militare, sostenuta peraltro già all’epoca non da esponenti del neutralismo, ma da convinti interventisti: “Tu non hai voluto cambiare il Cadorna e questi persevera nell’errore iniziale, che ti ho più volte segnalato, dei suoi attacchi frontali, bestiali, tardivi, che ci conducono ad enormi sacrifici di sangue, con risultati gonfiati ad arte, ma non efficaci”. A parlare con tanta franchezza all’allora Presidente del Consiglio Paolo Boselli era Fortunato Marazzi, deputato conservatore interventista e ufficiale operativo durante il conflitto con il grado di tenente generale.
Senza addentrarsi ulteriormente nelle ricostruzioni storiche, risulta evidente quanto poco convincente suoni la distinzione tra chi compì il proprio dovere e chi trovò la morte, incolpevole, per mano dei propri commilitoni, e per effetto di una visione brutale e terroristica della giustizia militare, riconosciuta e stigmatizzata già all’epoca e alla quale, dopo Caporetto, si cercò di apportare tardivi e parziali correttivi, a partire dalla rimozione di Luigi Cadorna dal comando supremo.
In questa vicenda, l’esercito italiano, come abbiamo ricordato in un precedente articolo, vantava un triste primato quanto a numero di militari passati per le armi a seguito di processi e di atti di giustizia sommaria, se paragonato con gli eserciti, peraltro più numerosi, degli altri Paesi belligeranti, in molti dei quali, peraltro, si è provveduto negli anni passati ad atti riparatori anche con il varo di norme legislative finalizzate a riabilitare le vittime dei tribunali militari.
Secondo fonti di agenzia, “in ambienti dello Stato maggiore non si accetterebbe l’idea di una magistratura che possa mettere ora in discussione le decisioni militari dell’epoca” contrastando in tal modo “lo spirito e la disciplina militare”. Un tale orientamento da parte dei vertici delle Forze Armate, ove confermato, risulterebbe non solo dannoso ma anche autolesionistico, poiché l’adozione di un provvedimento di riabilitazione, presidiato dalle garanzie proprie del procedimento giudiziario, rafforza e non indebolisce l’omaggio reso alla memoria dei combattenti del 1915-’18 dalla Repubblica democratica, la cui Costituzione, è bene ricordarlo, reca tra i suoi principi fondamentali il ripudio della guerra.
La costruzione di un discorso pubblico quanto più possibile condiviso sulla Grande guerra, come su altri accadimenti del secolo trascorso, deve prescindere da qualsiasi forma di negazionismo e da più o meno volontarie rimozioni, e misurarsi invece con la complessità degli eventi e delle diverse circostanze in ci essi si svolsero, nell’incessante e scrupolosa ricerca della verità quale condizione primaria per sanare ferite che il molto tempo trascorso non ha ancora chiuso.
Pubblicato venerdì 18 Novembre 2016
Stampato il 16/10/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/da-un-atto-riparatore-a-un-pasticcio-in-forma-di-beffa/