Su iniziativa del comitato provinciale dell’Anpi di Udine il 24 novembre scorso si è svolto un interessante convegno su un aspetto della Resistenza di cui forse non si era finora adeguatamente parlato. Si tratta di quella Resistenza che ha supportato l’inevitabile lotta armata non utilizzando armi ma prestando principalmente la propria opera in ambito sanitario.
Argomento, quello sanitario, che assume anche una particolare rilevanza nella nostra attualità se consideriamo la recente situazione pandemica, la condizione nella quale versa, da anni, il sistema sanitario pubblico e soprattutto per i recenti fatti che evidenziano, ancora una volta, il non rispetto delle convenzioni internazionali che sanciscono particolari tutele, anche in caso di guerra, alle strutture, al personale sanitario e ai pazienti.
In particolare il convegno ha trattato la straordinaria esperienza costituita dall’ospedale partigiano “Franja”. Straordinaria esperienza perché costruito, in maniera eroica, dai partigiani sloveni in una profonda e inaccessibile gola scavata dal torrente Černščica nel territorio comunale di Cerkno in Slovenia. Un’esperienza straordinaria anche per la durata della sua attività che dal dicembre 1943 si è protratta fino al maggio del 1945; per l’opera di assistenza sanitaria offerta, oltre che nei confronti dei partigiani jugoslavi, anche alle formazioni partigiane italiane della Divisione d’Assalto “Garibaldi Natisone” operanti in zona, a partigiani di altre nazionalità e a soldati anglo-americani. Straordinaria, infine, anche per l’appoggio fornito dalle popolazioni locali che hanno protetto la segretezza della localizzazione e rifornito per quanto possibile la struttura sanitaria.
Il convegno (qui il link e in calce il video) si è svolto a Cividale del Friuli nella sala sociale della Società Operaia col significativo titolo di “Franja, solidarietà e internazionalismo in un ospedale partigiano”, col supporto di GO2025! (Nova Gorica e Gorizia, la città slovena e quella italiana nel 2025 saranno, in tandem, capitali europee della cultura), della Regione Friuli-Venezia Giulia e con il contributo organizzativo delle associazioni partigiane slovene ((Zveza Združenj Borcev za vrednote Narodno Osvobodilna Borba, in sigla Zzb-Nob) dell’area della Serverna Primorska, il litorale nord sloveno.
L’argomento è stato trattato dal professor Jože Pirjevec (docente, storico, accademico autore di importanti ricerche storiche pubblicate anche in lingua italiana), dal presidente Zzb-Nob dei comuni sloveni di Tolmin/Tolmino, Kobarid/Caporetto e Bovec/Plezzo, Rok Uršič (autore di una approfondita ricerca storica sulla rete sanitaria partigiana del litorale nord sloveno) e dalla dottoressa Milojka Magajne, responsabile del Dipartimento museale di Cerkno/Circhina nell’ambito del quale si trova la struttura dell’ospedale partigiano “Franja“. Assente, per motivi di salute, il dottor Miha Kosmač, direttore del Museo della città di Idrija. Presente all’incontro anche il presidente della Zzb-Nob, Serverna Primorka Mirko Brulc, già parlamentare sloveno ed ex sindaco di Nova Gorica, il quale ha rivolto al numeroso pubblico un cordiale saluto.
Il professor Pirjevec, approfondendo il tema della particolarità del sistema sanitario sloveno nella guerra partigiana, ha significativamente iniziato il suo intervento con queste parole: “In questi giorni vedo su Al Jazira le immagini spaventose provenienti dalla striscia di Gaza, penso ai nostri partigiani che hanno vissuto durante la seconda guerra mondiale una situazione simile: anche loro furono attaccati in modo durissimo dalle truppe d’occupazione e i loro feriti in Bosnia, in Erzegovina, in Montenegro e in Croazia furono eliminati in maniera atroce”. Il docente ha poi proseguito: “In Slovenia le cose sono andate diversamente”.
“Nelle regioni meridionali della Jugoslavia, legate alle tradizioni del periodo ottomano, c’era l’usanza di non abbandonare i feriti in combattimento”, dice il professore. “Era tipico della lotta contro i turchi che le piccole bande guerrigliere portassero via con sé i feriti negli scontri. Un comportamento analogo fu tenuto dalle truppe partigiane nel corso della Seconda guerra mondiale, l’esercito dei combattenti era molto numeroso e anche i feriti e gli ammalati, specialmente di tifo, erano tantissimi. In condizioni di scarsa attenzione per l’igiene, il tifo si diffondeva rapidamente grazie anche all’azione delle pulci. I partigiani serbi e musulmani erano spesso colpiti dal tifo, una malattia difficile da guarire che lasciava segni pesanti e i malati erano portati via in barella e altri mezzi di fortuna”.
Vladko Velebit, uno dei maggiori collaboratori di Tito, croato e dopo la guerra importante diplomatico jugoslavo, disse che quando Tito si ritirava da una zona si portava dietro un macigno legato al collo rappresentato da migliaia di malati e feriti. La loro presenza ostacolava la mobilità e la rapidità delle truppe. L’impatto psicologico di questo modo di agire sulle truppe e sui malati era enorme perché i partigiani sapevano che, una volta feriti o malati, non sarebbero stati abbandonati e che i loro compagni avrebbero avuto cura di loro.
Da sottolineare che la guerra partigiana nelle varie regioni della Jugoslavia, unica nazione europea completamente occupata che si è liberò dal nazi-fascismo con le proprie armate partigiane, assunse caratteristiche molto diverse a seconda delle varie nazioni, etnie e religioni che componevano la Jugoslavia in quel momento. A questo proposito è fondamentale il lavoro del professor Pirjevec “Partizani”, una monumentale opera che spezza l’idea monolitica della Resistenza jugoslava (presente soprattutto nel pubblico italiano) che indaga in maniera approfondita sulle sue caratteristiche, peculiarità e differenze e della quale si attende la traduzione in lingua italiana.
Sostiene Pirjevec: “La lotta partigiana in Jugoslavia non fu, al di là della guida comunista, un movimento unitario. Rappresentò invece un variopinto mosaico, specchio della complessa frammentazione etnica, religiosa e culturale dei popoli jugoslavi. Credo di non esagerare nel sostenere che il mio libro, per la prima volta, abbracci per intero questa diversità, prestando contemporaneamente attenzione alle forze dell’Asse in campo e ai loro rispettivi contrasti interni, in primo luogo fra tedeschi e italiani. Viene altresì messa a fuoco la politica conflittuale di inglesi e americani da una parte e sovietici dall’altra, in una sorta di anticipo della Guerra fredda. Il mio intento è stato quello di ricostruire le velleità e le crudeltà di una guerra atroce, esaltando al contempo la resilienza e la volontà di resistere del popolo minuto”.
Nell’intervento del professore si evidenzia anche il fatto che: “… in Slovenia, fin dall’inizio della guerra di Liberazione nel 1941, quando la direzione del Fronte di Liberazione fu spostata da Lubiana nella Dolenska e nelle foreste di Kocevje, fu data molta attenzione alla cura dei feriti ed ammalati, tanto che si costruì vicino un ospedale ben fornito e attrezzato, con materiale sanitario proveniente da Trieste e da altre zone d’Italia. Durante l’offensiva italiana dell’estate del 1942 questo ospedale fu scoperto e distrutto, ma i feriti ricoverati furono sgombrati poco prima dell’attacco e portati in nascondigli preparati in precedenza con perdite minime. Furono costruiti poi ben 200 ospedali, grandi e piccoli, nascosti così bene da non essere scoperti. Erano baracche collocate in aree di difficile accesso e gli stessi infermieri, medici e feriti trasportati in ospedale, prima di accedere all’ospedale erano bendati per evitare che, se fossero caduti in mano tedesca, potessero dare informazioni utili a rintracciare la struttura sanitaria”.
L’efficienza sanitaria di questi ospedali fu molto buona grazie alla presenza di tanti giovani medici associati alla lotta partigiana. All’inizio della guerra c’erano in Slovenia circa 720 medici e, di questi, circa 200 collaborarono attivamente nella lotta di Liberazione. Quasi tutti i medici che aderirono alla lotta partigiana erano giovani perché la guerra partigiana, con le sue difficoltà e le sue asprezze, non poteva essere praticata, fra i monti e nei boschi, da persone sopra i 35-40 anni. La guerra partigiana in Slovenia fu condotta dal Fronte di Liberazione che era un’ associazione di forze cristiane, liberali e comuniste con intellettuali che hanno lasciato una forte impronta nella vicenda partigiana slovena.
L’ospedale partigiano di Franja in virtù della sua collocazione e della rete solidale degli abitanti, nonostante molti tentativi, non venne mai scoperto dal nemico, ma se ciò significò la sua salvezza in tempo di guerra, oggi si è rivelata il principale problema per la sua conservazione. Nel corso del 2023, infatti, la struttura costituita da baracche in legno e da un sentiero di accesso alla stretta gola montana, ha subito gravissimi danni a causa dell’alluvione e della tempesta di vento che hanno pesantemente colpito anche la vicina Repubblica di Slovenia.
La sanità partigiana non era solo costituita dall’ospedale di Franja e, come detto, la particolarità della Resistenza slovena determinò anche la particolare efficienza del servizio sanitario partigiano assistendo i bisognosi di cure con una rete di punti di soccorso. Tra il personale sanitario erano presenti sanitari italiani e l’ospedale e la rete delle strutture di soccorso consentirono di assistere pazienti di varie nazionalità, dimostrandone la natura solidale e internazionalista. A Franja morì il Partigiano cividalese Rino Blasigh (Medaglia d’Argento al VM) assistito in quella struttura negli ultimi giorni della sua giovane vita.
Un aspetto che andrebbe maggiormente divulgato è il collegamento tra queste zone e l’Italia del Sud già liberata dalle Forze alleate, collegamento esistente per il fondamentale tramite della Resistenza jugoslava. Periodicamente, infatti, un certo numero di pazienti venne ricoverato nelle strutture pugliesi per il tramite di un ponte aereo.
In particolare fu necessaria un’evacuazione nell’agosto del 1944 a causa del sovraffollamento delle strutture sanitarie dovuta alle pesantissime offensive nazifasciste, durate mesi, miranti alla distruzione e contenimento dell’azione dell’esercito partigiano a seguito del ripiegamento del nemico dai Balcani (ricordiamo che in quel periodo si crearono numerose Zone Libere nell’interno della Jugoslavia e anche nel nord Italia e si ipotizzava, da parte degli alleati, uno sbarco in Istria. Di lì a poco, nell’autunno del 1944 Belgrado sarebbe stata liberata dai partigiani con l’aiuto dell’Armata Rossa).
L’evacuazione coinvolse un centinaio di pazienti provenienti dagli ospedali Franja e Pavla che, protetti dalle Brigate partigiane (un migliaio i partigiani coinvolti nel lungo tragitto dei quali anche 200 Partigiani italiani incaricati al compito logistico del trasferimento) dovevano raggiungere l’aeroporto di Nadlesk nel Municipio di Loška Dolina, nella Carniola slovena al confine con la Croazia. Un itinerario di un centinaio di chilometri percorso dagli ammalati in diverse settimane e con notevoli difficoltà. L’evacuazione aerea avvenne a più riprese dal 31 agosto al 6 settembre 1944. Complessivamente, nel corso della guerra, da quell’aeroporto partirono, per raggiungere Bari, 608 feriti e ammalati.
Nel meridione d’Italia esistevano infatti diversi ospedali militari gestiti dalle Forze alleate. In particolare nel Comune di Gravina in Puglia operava una base dell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo con annessa struttura ospedaliera, presenza ancora oggi testimoniata da una lapide posta in quella località dal Comune a ricordo della “generosa opera di assistenza medica profusa al popolo nel 1944-45 durante la permanenza in questa terra” dagli jugoslavi.
È indispensabile ricordare il ruolo di primo piano svolto delle donne e il loro apporto alle professioni mediche e infermieristiche, ruolo rimarcato dal nome dato ai tre più importati ospedali partigiani sloveni: Franja, nei pressi di Dolenj Novaki, prende il nome dalla dottoressa Franja Boic Bidovec, Pavla nella foresta di Tarnova nei pressi di Vojsko, dalla dottoressa Pavla Jerina Lah e Vera nei pressi di Erzelj, nella Valle della Vipava, dal nome di Vera Brecelj, fidanzata del dottor Jože Bežek direttore di quella struttura.
Rok Ursic è intervenuto ricordando: “Prima che i due ospedali diventassero operativi, (Franja e Pavla) all’inizio del movimento partigiano, era comunque necessario prendersi cura dei partigiani feriti nel corso di feroci combattimenti e battaglie”. Così in un primo momento i feriti furono accolti in fattorie isolate, “ma divenne ben presto chiaro che le loro ferite necessitavano di cure specialistiche. Anche dopo che i due ospedali erano già in grado di accogliere i feriti, alcune zone erano troppo distanti. Per questo motivo, nelle zone più remote della Primorska (Litorale sloveno), i dirigenti partigiani organizzarono unità ospedaliere che potremmo definire stazioni sanitarie e prendevano il nome dai loro responsabili”.
La maggior parte di queste stazioni sanitarie vennero organizzate dopo importanti azioni militari, come ad esempio dopo gli scontri con i tedeschi sul fronte di Gorizia nel settembre 1943, dopo la marcia della XXX divisione in Benečja (Valli del Natisone e del Torre), dopo gli scontri della brigata Gregorčič nell’agosto 1944 sotto il Krn (Monte Nero). C’erano più di dieci stazioni sanitarie e ognuna poteva accogliere fino a 20 feriti, vi operava un infermiere o infermiera, a volte qualche persona del posto che aveva una certa esperienza nella cura del bestiame o un abitante del villaggio che sapeva medicare le ferite. Le stazioni sanitarie venivano vistate da un partigiano-medico che dava istruzioni sui trattamenti necessari, si occupava dei casi più gravi, eseguiva piccoli interventi chirurgici per estrarre una pallottola, ridurre le ferite, immobilizzare gli arti fratturati ecc. I casi più gravi li inviava nei due ospedali di Franja e Pavla. In quel caso era necessario trasportare il ferito, passando attraverso le postazioni tedesche e attraversare fiumi e strade.
Il trasporto dei feriti era un’attività complicata dalle loro condizioni, dalla distanza, dall’asprezza del territorio, dalle condizioni climatiche e meteorologiche, dalla necessità di usare vie il più possibile non presidiate dal nemico, dal rischio di essere intercettati. Per questa ragione si adottavano particolari cautele e grande attenzione nel mantenere la segretezza dei luoghi ove si trovavano le strutture ospedaliere, fondamentale era l’appoggio fornito della popolazione. Nonostante tutte queste pericolose variabili, nessun trasporto di feriti è mai stato intercettato dal nemico e i soli morti si sono registrati a causa della gravità delle loro ferite. Il metodo di prima cura e trasporto è descritto da Franc Bidovec “Frenk”, all’epoca vicecapo della sezione medica del IX Korpus sloveno. La prima attività sanitaria inizia già sulla linea di battaglia con la ricerca dei feriti e il loro trasferimento in ricoveri più sicuri da dove poi vengono smistati a seconda della gravità delle ferite o delle patologie in luoghi più strutturati per la loro assistenza.
L’accesso a Franja è occultato, mascherato e curato in maniera maniacale: le singole tracce del passaggio dei Partigiani vengono cancellate, soprattutto nel periodo invernale, nella neve, non si dovevano lasciare tracce, a tale scopo venivano utilizzati tronchi d’albero trasportati dai buoi seguendo le tracce lasciate nella neve. L’acceso all’ospedale avviene nella stretta gola attraversata dalle acque del torrente Černščica che qualche decina di metri prima di immettersi nel piccolo slargo della gola, che contiene le baracche, forma una cascata che è necessario superare con un ponte levatoio.
La situazione nelle zone confinanti con la Slovenia del Friuli orientale era alquanto diversa, nel periodo della Zona Libera del Friuli orientale (luglio-settembre 1944). In questo territorio esisteva una struttura sanitaria partigiana a Gradischiutta di Faedis (UD) condotta dal dott. Felice Camillo Davilla nome di battaglia “Stalin”. Grande fu il contributo dei medici operanti nelle strutture ospedaliere civili di Udine, Gemona del Friuli, Cividale del Friuli e dalla rete dei medici condotti. Ricordiamo qui alcune figure: il dottor Gino Pieri, primario all’ospedale civile di Udine, il dottor Oliviero Fabris, il dottor Saverio Perrini, il dottor Gino Pittioni, primario chirurgo all’ospedale civile di Cividale del Friuli, Manlio Fruch medico condotto a Pulfero.
Nel suo intervento Rok Uršič ha ricordato anche altri nomi: “Anche altri medici italiani hanno portato aiuto ai partigiani feriti, addirittura medici militari. Citiamone alcuni: Giuseppe Marangon a Kobarid, Giuseppe Montaneri a Čepovan, Annibale Beriglia a Kanal ob Soči, Piero Garibaldi di Galzigna ad Anhovo, Alberto Gentilli e Tranquilo Villa a Most na Soči, Pasquale Calabro a Tolmin”.
Particolare menzione va fatta per i medici Antonio Cicarelli “Anton”, Sigismund Osser “Paolo”, Leo Levi “Galeno”. Caso davvero particolare quello del cividalese d’adozione dottor Mario Cordaro, medico militare presso il campo d’internamento per civili sloveni e croati di Gonars, che si prodigò per rendere meno dura la detenzione degli internati perseguitati dall’occupazione e dalla repressione fascista. Fatto questo che gli valse la riconoscenza dei numerosi internati che poterono usufruire della sua protezione e che sapevano a quali gravi rischi personali egli si esponesse. Nikolaj Pirnat, pittore e scultore sloveno, nato a Idrija nel 1903, uno dei molti intellettuali internati a Gonars, strinse un legame di amicizia con il dottor Cordaro che durerà anche nel dopoguerra. Pirnat, che morì nel 1948, realizzò un busto dedicato al dottor Cordaro conservato presso il Museo Nazionale di Storia Contemporanea di Lubiana e, fino a pochi anni fa, visibile nelle bacheche dedicate all’occupazione italiana della Slovenia.
Da sottolineare la presenza al convegno, della responsabile del dipartimento museale di Cerkno, presenza gradita e utile che ha illustrato, attraverso molte immagini, i gravi danni subiti dall’ospedale “Franja” nel corso dell’alluvione e della tempesta di vento di quest’estate e i progetti per il ripristino delle baracche e della via di accesso distrutta.
Un ulteriore legame che unisce la città di Idrija a Cividale del Friuli, oltre ai numerosi nostri Caduti partigiani, è la comune appartenenza al patrimonio Unesco. Idria è infatti ricca di beni culturali legati alla sua storia e di siti naturalistici. Il castello ove ha sede il Museo, le miniere di Mercurio, ma anche il patrimonio artigianale e culinario è di tutto interesse. Del Museo cittadino fa parte il Dipartimento museale di Cerkno, non meno interessante per la sua parte storica ed etnografica nonché per le diramazioni sul territorio costituite dalla tipografia partigiana “Slovenija”, dall’ospedale partigiano “Franja”, dalla casa dello scrittore Franc Bevk. Toccante è stato l’intervento della professoressa Lia Bront, nipote dei pittori cividalesi Giacomo e Luigi Bront. Quest’ultimo molto legato alla Resistenza dipinse in un suo quadro l’ospedale partigiano Franja e, in occasione di una visita della dottoressa Franja, per un incontro organizzato dall’Udi-Unione Donne Italiane, a Cividale del Friuli realizzò un suo ritratto, che è ora conservato al Museo della Città di Idrija, recentemente riscoperto e del quale si temeva la perdita.
Riportiamo infine uno stralcio dell’intervento, pervenuto dal direttore del Museo della città di Idrija, dottor Miha Kosmač: “Il monumento si trova in un’area estremamente sensibile dal punto di vista naturalistico e quindi fin dall’inizio si è dovuto confrontare con eventi naturali di diversa gravità (inondazioni, frane e slavine) che a causa dei cambiamenti climatici sono purtroppo sempre più frequenti. Dal 1989 è già la terza volta che dobbiamo affrontare eventi con conseguenze pesantissime. Nel mese di gennaio del 1989 la strada di accesso e alcune baracche sono state sepolte da una frana di pietre scesa dai pendii del Veliki Njivč. I restauri sono stati molto impegnativi e hanno richiesto un anno mezzo di lavoro. Oggi è difficile immaginare che i detriti furono trasportati fuori dalla gola con i camion. Nel mese di settembre del 2007 la nostra zona è stata colpita da forte maltempo con precipitazioni molto copiose. I detriti, trasportati dall’acqua, hanno creato uno sbarramento nella gola. L’ondata d’acqua, seguita alla rottura della diga, ha letteralmente travolto le strutture di legno che sono andate distrutte tutte, tranne una. Assieme alle baracche è andato distrutto anche tutto l’inventario originale. Sono stati necessari tre anni per rinnovare tutto e nel mese di maggio 2010 l’ospedale partigiano è stato riaperto al pubblico. Durante i restauri seguiti alle due catastrofi si è verificata una grande solidarietà, con raccolte di denaro sia in Slovenia che in Italia e Austria. Possiamo dire che Franja crea un legame tra di noi anche come monumento. Un grazie sincero a tutti”.
Il comitato provinciale dell’Anpi di Udine promuove una raccolta di fondi per aiutare il restauro dell’ospedale di “Franja”, iniziativa questa, che vuole essere un segnale di restituzione di parte di quella solidarietà e assistenza ricevuta a suo tempo da molti bisognosi oltre che per il contributo offerto nell’alleviare le sofferenze delle popolazioni e a quello fornito alla lotta di Liberazione.
Per questa ragione lanciamo un appello a tutti gli iscritti Anpi e simpatizzanti e ci facciamo promotori per una generosa raccolta di fondi. Chi fosse interessato può contattare il Comitato provinciale Anpi all’indirizzo e-mail: info@anpiudine.org o versare al provinciale Anpi Udine un contributo tramite Iban: IT91 J076 0112 3000 0001 7980 335 indicando nella causale “Solidarietà per Franja”.
Chi volesse saperne di più e conoscere una bellissima storia di fraternità partigiana, che non ha mai conosciuto confini, ecco la registrazione curata da Simone Scognamiglio del convegno promosso:
Luciano Marcolini Provenza, Anpi Cividale del Friuli, componente presidenza Anpi provinciale Udine
Bibliografia
AA.VV. – Partizanska bolnišnica “Franja” 23.12.1943-5.5.1945 – Mestni muzej Idrija 1983;
Lino Argenton – I medici durante la Resistenza nella Regione Friuli (1943-1945) – Storia Contemporanea in Friuli n°21 – 1990;
Giacomo Scotti – Tre storie partigiane. Dalla Macedonia alle Alpi, dappertutto italiani – Ed KapaVu – 2006;
Patria Indipendente, edizione cartacea, inserto, n.7 del luglio 2011;
Jelka Peterka, Rok Uršič – Čas človečnosti – Partizanske sanitete postaje med narodnoosvobodilnim bojem v Posočju – Tolmin – 2016;
Paola Bristot (a cura di) – Album 1942-43 – I disegni del campo di concentramento di Gonars. Collezione Cordaro – Associazione Viva Comix/Gaspari Editore – 2016;
Laura Matelda Puppini – Carnici che scrissero la storia della democrazia: Manlio Fruch, medico, figlio del noto poeta Enrico di Ludaria di Rigolato – www.nonsolocarnia.info –
Maria Mezzina – Il Doktor Anton, medico italiano e partigiano in Slovenia – Patria Indipendente, n. 126, 6 settembre 2023;
www.anpicividale.eu – Scheda numero 5 su Leo Levi medico, partigiano, perseguitato perché di origine ebraica – I luoghi della memoria della Resistenza e dell’antifascismo a Cividale del Friuli;
Luciano Marcolini Provenza – Uniti nella Lotta, quel confine orientale dove italiani e sloveni insieme combatterono i nazifascisti – Patria Indipendente n. 123, 28 giugno 2023
Pubblicato venerdì 15 Dicembre 2023
Stampato il 14/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/franja-lospedale-partigiano-della-solidarieta-e-dellinternazionalismo/