Nel corso della campagna elettorale presidenziale si è profilata una vera e propria crisi del sistema democratico degli Stati Uniti.
È un fatto senza precedenti che entrambe le candidature dei due principali partiti sono menomate – la parola americana che le descrive è flawed, difficile da tradurre – da cospicui conflitti d’interessi che si accentuerebbero, in caso di elezione. È un altro fatto che le stesse candidature risultano invise a quasi due terzi dell’elettorato potenziale, secondo responsi univoci dei principali sondaggi d’opinione in corso. In altre parole, la maggioranza dei voti conseguibili sia da Hillary Clinton, per ora nettamente favorita, che da Donald Trump, sarebbero voti contro il rispettivo avversario o, per dirla alla Montanelli, offerti dagli elettori “tappandosi il naso”.
Il caso di Trump è relativamente scontato. Un multimiliardario fortemente indebitato, privo di precedente esperienza politica, al punto da richiamare alla memoria la discesa in campo di Silvio Berlusconi, ma con un’ostentazione provocatoria della sua ignoranza reazionaria estranea al suo quasi sosia italiano. Essa gli ha consentito di intercettare quella parte della sofferenza sociale (la crescente ineguaglianza, accentuata dalla crisi economica del 2007 costituisce il tema dominante di tutta la campagna elettorale, a partire dalle primarie) che risponde a stimoli brutalmente isolazionisti, ma consolida la candidatura della Clinton quale “male minore” agli occhi dell’elettorato moderato. Il flusso continuo di notizie, fornite e alimentate dalla stampa moderatamente progressista, sulla scarsa trasparenza delle informazioni riguardanti i suoi affari, l’elusione d’imposte, stato di salute, mancato servizio militare all’epoca della guerra nel Vietnam fanno il resto. Le minacce agli alleati della NATO, condite dal flirt con Putin, e le vaghezze sulla possibilità di usare le armi atomiche sono le ciliege sulla torta, oltre che un avvertimento oggettivo al vigile complesso militare-industriale, nel caso non sapesse come schierarsi (cioè, paradossalmente, dalla parte dell’altra candidata).
Più interessante è la menomazione della candidatura di Hillary Clinton, per mesi confinata alla campagna elettorale di Sanders (vittorioso in 23 stati) e alle sue mail via via come apparse e commentate su internet, ma ora affrontata in prima pagina dal New York Times, icona stampata del liberalismo ufficiale, ad oggi suo principale sostenitore (cfr. in particolare, International New York Times, “Fondazione e donatori complicano la candidatura di Clinton”, 22 agosto; “La questione delle mail potrebbe gettare la sua ombra sulla Clinton fino al giorno delle elezioni”, 24 agosto). Di che cosa si tratta? Vale la pena ospitare testualmente le frasi d’apertura del primo articolo, data la reticenza di quasi tutta la stampa italiana (dove sono i miei amici corrispondenti da New York, scrupolosi lettori del Times?):
“Il Regno dell’Arabia Saudita donò più di dieci milioni di dollari. Fece altrettanto, per il tramite di una fondazione, il genero di un ex presidente dell’Ucraina (di orientamento filo moscovita, n.d.r.) il cui governo è stato ampiamente criticato per corruzione e assassinio di giornalisti. Un imprenditore edile libanese-nigeriano, con grandi interessi d’affari, ha contribuito fino a 5 milioni di dollari.
Per anni la Fondazione Bill, Hillary e Chelsea Clinton ha prosperato largamente grazie alla generosità di stranieri che hanno donato centinaia di milioni di dollari alla ong globale, ma ora che la signora Clinton si è candidata alla Casa Bianca il finanziamento di questa filantropia crescente è diventato un tallone d’Achille per la sua campagna elettorale e, se dovesse risultare vittoriosa, anche per la sua Amministrazione”.
L’articolo prosegue con conferme e imbarazzate smentite, elencando meritorie opere benefiche della Fondazione, ma soprattutto altri emolumenti da parte di alcuni Stati del Golfo, con l’Arabia Saudita, ormai scomodi alleati in quando largamente sospettati di finanziare le diverse incarnazioni del terrorismo islamista. In che modo sono stati premiati dalla ex segretaria di Stato o potrebbero esserlo, se sollecitata o ricattata, dall’eventuale Presidentessa?
Insomma, la questione mail sul server privato di Hillary Clinton non è più soltanto conseguenza di un’estrema trascuratezza come definita dall’inchiesta del FBI. La questione è tutt’altro che conclusa poiché il giudice James E. Boasberg della Corte Federale di Washington D.C. ha ordinato al Dipartimento di Stato di consegnare tutte le mail, comprese quelle a suo tempo non sottoposte all’inchiesta del FBI e che in parte già circolano su internet, per opera di Wikileaks, Snowden, hackers russi o non si sa chi (cfr. INYT, 24 agosto). Proprio nei mesi precedenti il voto di novembre.
Gli affari poco chiari di Trump configurano anch’essi un grosso conflitto d’interesse, né Hillary Clinton ha mai voluto rendere pubblici i tre discorsi a suo tempo pronunciati e profumatamente pagati dai banchieri di Goldman Sachs che ne sono sicuramente in possesso. È impossibile prevedere quale sia l’effetto di tutto ciò ai fini del destino elettorale dei due candidati. Anche se Hillary Clinton resta la favorita, occorre non dimenticare che Al Gore fu a suo tempo sconfitto a causa di una terza candidatura verde che, anche questa volta, potrebbe intercettare una parte della protesta di sinistra con esiti incerti. Inoltre Trump potrebbe modificare il suo stile d’intervento, smettendo la parte oggettivamente sostenuta di utile idiota della propria avversaria.
È, invece, certo che due candidature così fragili perché soggette a palesi conflitti d’interesse e potenziali ricatti, accanto a numerose contestazioni ancora pendenti sulla correttezza della gestione delle primarie democratiche (di nuovo gli hacker hanno rivelato mail che documentano la parzialità dell’apparato del partito a favore della Clinton), segnalano una crisi profonda di uno dei sistemi democratici più solidi dell’Occidente. Né la questione si limita alla competizione presidenziale che anche in passato ha sollevato dubbi e contestazioni.
È nota la sentenza della Corte Suprema che rimuove ogni ostacolo a contributi di qualsiasi dimensione a qualsiasi campagna elettorale anche congressuale. Soprattutto (cfr. di nuovo: INYT, 24 agosto), numerosi Stati, sollecitati da grandi interessi finanziari (in prima linea i famigerati fratelli Koch) e centri studio conservatori, intendono avvalersi dell’art. 5 della Costituzione vigente che consente ai 2/3 degli Stati dell’Unione di convocare una Convenzione per la riforma della stessa Costituzione. Scopo dichiarato (ma potrebbero essercene altri) è quello di introdurvi una norma che precluda il deficit del bilancio federale. L’effetto, come ben sappiamo, sarebbe quello di ostacolare la spesa pubblica e la salvaguardia di diritti e investimenti sociali così consolidando l’egemonia crescente della finanza sull’economia e sullo stesso Stato. Come noto, una fetta cospicua della spesa pubblica viene mangiata dal cosiddetto complesso militare-industriale, difficilissimo da ridurre per motivi politici (Obama ci ha provato, ma Putin ha prontamente soccorso la maggioranza repubblica del Congresso, schierato in sua difesa).
L’ormai noto documento della Banca J.P. Morgan – la stessa che funge da dominus della ristrutturazione in atto del Monte dei Paschi – nel maggio 2013, auspicava la riforma delle costituzioni eccessivamente democratiche scaturite dalla conclusione della Seconda guerra mondiale, il primo luogo quella italiana. E se si trattasse di una linea di ordine più generale che abbia lo scopo di consolidare interessi favoriti da processi di globalizzazione che penalizzano poteri pubblici nazionali? In questa direzione si muovono Ungheria, Polonia, Turchia, il dibattito in corso in Italia sulla riforma costituzionale, la crisi del processo di unificazione dell’Europa, per non parlare di quanto sta avvenendo in America Latina. Perché non gli stessi Stati Uniti che ne sono stati il modello? Gli antidoti esistono. La gigantesca redistribuzione del reddito in atto dall’inizio degli anni Ottanta, con l’impoverimento dei ceti medi, ne costituiscono il presupposto. Ma il tempo stringe. Occorrono forze democratiche organizzate, in Europa come in America, che raccolgano la sfida.
Gian Giacomo Migone, iscritto alla sezione ANPI “Dante Di Nanni” di Torino; già Presidente della Commissione Affari Esteri del Senato (1994-2001)
Pubblicato giovedì 8 Settembre 2016
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