
I curdi vivono prevalentemente sul territorio di quattro Stati (Turchia, Siria, Iraq e Iran) e sono rappresentati da una galassia di sigle di partito e organizzazioni che risultano per molti un rompicapo. Oggi di curdi si parla troppo poco nel dibattito politico nostrano eppure stanno accadendo delle cose in Medio Oriente dove il loro posizionamento politico, in ciascuno degli Stati dove abitano, ha un peso che non si può trascurare.

In Iraq il partito di maggioranza curdo, il KDP, che guida il governo della Regione autonoma del Kurdistan iracheno sogna ancora l’indipendenza ma ha dovuto per il momento accantonarla dopo aver indetto e vinto il referendum nel 2017, però represso con la forza militare dal governo centrale iracheno, con il benestare di Turchia, Iran e Stati Uniti. I rapporti tra Erbil e Baghdad sono tesi per il ritardo cronico dei pagamenti da parte della capitale irachena ai dipendenti pubblici del Kurdistan iracheno ma ancor più per la questione dei territori contesi, ossia quelle regioni e distretti del Paese che ciascuno rivendica per sé e che sono strategicamente molto rilevanti. Il KDP mira a dare alla Regione del Kurdistan iracheno un’autonomia economica che però Baghdad ostacola per tramortire il disegno indipendentista.
Più a ovest, sotto l’autorità del governo centrale iracheno, si trovano poi i curdi del campo profughi di Makhmur che con i curdi del KDP non vanno proprio d’accordo. Si tratta di famiglie curde che hanno lasciato la Turchia negli anni Novanta del secolo scorso a seguito della distruzione dei loro villaggi da parte di Ankara. Fuggiti dalla repressione, Saddam Hussein aveva assegnato loro un fazzoletto di terra dove rifugiarsi a Makhmur. Il campo viene ciclicamente messo sotto assedio dalle forze militari irachene e dal 2019 subisce un embargo da parte del governo del Kurdistan iracheno. Perché? Per aver dichiarato il proprio diritto all’autodeterminazione e aver realizzato il nuovo paradigma politico pensato da Abdullah Ocalan, fondatore del PKK, ossia il confederalismo democratico, che non piace né a Baghdad né a Erbil.
Il confederalismo democratico prevede la fine degli Stati-Nazione attraverso un processo democratico che deve saper trascinare il consenso dal basso, supportato da un lavoro politico e culturale fortemente organizzato. Ocalan è dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso che ha abbandonato l’idea di costruire uno Stato curdo indipendente perché sostiene che gli Stati-Nazione portano al nazionalismo e il nazionalismo produce conflitti armati. La sua analisi si concentra sul Medio Oriente e propone un sistema democratico su base confederale dove l’autodeterminazione dei popoli si coniuga con una democrazia radicale secondo il modello bottom-up (1), con la demolizione del sistema patriarcale e con il sostegno a una società ecologica. Tale modello manda in fibrillazione tutti e quattro gli Stati dove la presenza curda è importante, nonostante rappresenti sempre una minoranza, perché questi governi sono energicamente nazionalisti, assai poco rispettosi delle minoranze, soprattutto se rivendicano diritti, e i poteri sono fortemente centralizzati.

In Turchia i curdi sono stati lungamente perseguitati e prova ne sono le prigioni del Paese che parlano di migliaia di loro gettati in una cella per essersi espressi contro il sistema politico repressivo di Ankara. Ocalan lo scorso ottobre ha accolto l’appello lanciato dal leader del partito islamista estremista e alleato di Erdogan, Devlet Bacheli, ad aprire un nuovo processo di pace. Attualmente però questo si trova in una fase di stallo perché a fronte della decisione assunta dal PKK con il suo ultimo congresso, tenutosi il mese scorso, favorevole al dissolvimento dell’organizzazione qualora siano avviati i percorsi di democratizzazione internamente alla Turchia, dal governo turco non si è ancora visto o sentito nulla che vada in quella direzione e la repressione verso i dissidenti politici si è fatta più aspra, con la rimozione anche di molti dei sindaci curdi eletti durante le scorse elezioni amministrative e sostituiti con commissari nominati dal governo.
Nel frattempo la Siria ha avuto il suo scossone con la caduta di Bashar al-Assad e la presa del potere da parte del leader della formazione jihadista Ahmad al-Shara, sostenuto da Ankara, il quale ha dichiarato immediatamente che la Siria sarà uno Stato centralizzato e nessuna forma di autonomia amministrativa sarà concessa. Ovviamente al-Shara quando esprimeva la linea politica della Siria che ha in mente guardava dritto negli occhi i curdi dell’Amministrazione Autonoma Democratica del Nord-Est della Siria, la DAANES, che dal gennaio del 2014 si governano, insieme agli altri popoli del Rojava, nel rispetto del contratto sociale che hanno siglato e che è l’espressione concreta del confederalismo democratico.

Delle negoziazioni tra al-Shara e Abdì, comandante delle SDF, le Forze di difesa siriane che difendono il territorio del Rojava e la DAANES, ci sono state ma il primo con azioni politiche successive ha parzialmente disatteso gli impegni assunti, impedendo il riassorbimento delle tensioni in corso. Poiché al-Shara è un alleato di Erdogan e il presidente turco vuole la fine della DAANES, che tiene sotto pressione anche attraverso le milizie proxy del SNA, per i curdi del Rojava la situazione è molto critica, in considerazione anche del fatto che l’alleato statunitense non è mai stato così inaffidabile come da quando Trump è ritornato alla Casa Bianca.


E poi ci sono i curdi dell’Iran, anche loro oppressi da un regime che nel settembre del 2022 ha ucciso una giovane curda iraniana, Mahsa Amini, per non aver indossato il velo nel modo prescritto dalla legge islamica. La morte di Mahsa ha scatenato la rivolta di tante giovani e tanti giovani che hanno coniato lo slogan “Jin Jiyan Azadi”, ossia “Donna Vita Libertà”, con il quale gridano la loro rabbia ma esprimono anche la loro resistenza contro un regime che soffoca le libertà e che se la prende in modo più violento con le donne e le minoranze.

Sentire Benjamin Netanyahu pronunciare “Jin Jiyan Azadi” rivolgendosi al popolo iraniano per incitarlo a sollevarsi contro il regime degli Ayatollah e così fare un favore a Israele, speranzoso in un cambio di regime nel Paese, è stato un insulto alla battaglia coraggiosa che uomini e donne stanno facendo per conquistare la democrazia. Netanyahu, colui che verrà ricordato dalla storia per le migliaia di donne (e bambini, ma anche uomini) morte a Gaza, trasformata da lui e dal suo governo in un inferno, che ha fatto trascinare Israele davanti alla Corte penale internazionale dal Sud Africa con l’accusa di crimine di genocidio e che è destinatario di un mandato di arresto internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità forse ha pensato che bastasse ripetere come un pappagallo “Jin Jiyan Azadi” per ottenere la simpatia del popolo iraniano, il quale aveva già iniziato a morire sotto le sue bombe.
Il PJAK, il Partito della Vita Libera del Kurdistan, a seguito dell’aggressione di Israele all’Iran ha rilasciato un comunicato stampa il 14 giugno scorso con il quale lucidamente afferma che “questa è una guerra di potere e di interessi in conflitto, non una guerra di liberazione dei popoli e delle nazioni” e aggiunge che “l’alto numero di vittime civili, soprattutto donne e bambini, in Iran e Israele durante questi attacchi evidenzia una triste realtà: per gli Stati le vite delle persone non contano”. Il comunicato prosegue lanciando un appello all’unità e alla collaborazione democratica “tra chi crede nella libertà, le forze democratiche, i combattenti nazionali, le donne e i movimenti identitari” perché “il popolo iraniano non dovrebbe essere costretto a scegliere tra la guerra e un regime dittatoriale”. Il PJAK considera “un dovere storico la cooperazione tra i partiti curdi e la transizione dal governo partitico all’autogoverno popolare in Kurdistan” e invita “tutte le forze, i partiti e le organizzazioni della società civile, con le donne iraniane in prima linea, ad avviare una nuova fase della rivoluzione ‘Jin Jiyan Azadi’”. Gli fa eco la dichiarazione del 18 giugno del KJAR, la Società delle donne libere del Kurdistan dell’Est, che dopo aver espresso con chiarezza “che questa guerra non è una guerra di liberazione della società e tantomeno delle donne” sottolinea come i movimenti delle donne lavorino per liberare la società in tutti i suoi segmenti e che “per raggiungere questi obiettivi è necessario abbandonare centralismo, dogmi religiosi, patriarcato e nazionalismo”.

I curdi in Iran temono che questa guerra scatenata da Israele porterà a una maggiore repressione da parte di Teheran nei confronti degli oppositori e delle minoranze e si stanno organizzando per resistere all’ondata di violenza che si aspettano. Temono che dopo l’Iraq, la Libia e la Siria, con gli interventi occidentali che hanno prodotto conflitti permanenti, adesso sia venuto il momento dell’Iran. Il modello che offrono per venire fuori dal caos mediorientale è ancora una volta il confederalismo democratico, il quale permetterebbe di costruire e mantenere la pace attraverso il principio della solidarietà tra i popoli e consentirebbe di sciogliere le contraddizioni create ad arte dagli Stati facendo leva sulla religione e sulle provenienze etniche per mantenere il dominio sui popoli.
Carla Gagliardini, vicepresidente Anpi provinciale di Alessandria e componente del direttivo dell’Associazione Verso il Kurdistan odv
NOTE
(1) Si tratta di un modello che attribuisce lo spazio politico-decisionale alle periferie, organizzate su base cittadina e, nelle città più grandi, sulle assemblee di quartiere.
Pubblicato giovedì 26 Giugno 2025
Stampato il 26/06/2025 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/i-curdi-nel-caos-mediorientale/