Prigionieri di guerra italiani

La guerra, voluta da Mussolini, doveva finire nell’estate del 1940 con la resa dell’Inghilterra. In breve ci si sarebbe messi al tavolo della pace e l’uomo di Predappio avrebbe svolto il ruolo di mediatore tra le sconfitte democrazie occidentali e il leone tedesco. Secondo certe leggende, stando dalla parte del vincitore, Mussolini avrebbe dovuto svolgere un ruolo di contenimento alle pretese quasi illimitate della Germania.

Ma, contro ogni aspettativa, la Gran Bretagna resistette e tutto ciò non avvenne; il nostro Paese dovette così affrontare una guerra a cui non era assolutamente preparato.

Le inevitabili sconfitte cui andò incontro portarono, tra lutti e rovine, anche a lasciare nelle mani del nemico oltre 700.000 militari prigionieri che furono dispersi in tutte le regioni del mondo. Prigionieri italiani furono detenuti per la maggior parte dalla Gran Bretagna (circa 400.000), dagli Stati Uniti (circa 125.000), dalla Francia (circa 50.000) e dall’Unione Sovietica il cui numero, al termine del conflitto, risultò essere di circa 12.000 prigionieri anziché i previsti 60-80.000. A questa massa di uomini – il fior fiore delle classi di leva – si andarono ad aggiungere altri circa 650.000 militari italiani, catturati dai tedeschi dopo l’armistizio ed internati in Germania.

La gestione dell’uscita dalla guerra fu così disastrosa che dovemmo pagare anche questo enorme prezzo in termini di sofferenze e privazioni. In più i militari catturati dai tedeschi non ebbero nemmeno lo status di prigionieri secondo la convenzione di Ginevra del 1929, ma lo status di «internati», essendo considerati «non belligeranti» non essendoci nel settembre 1943 tra Italia e Germania uno stato di guerra dichiarato.

Questa enorme massa di prigionieri, che coinvolgeva tantissime famiglie in Italia, non poteva non avere, al momento del rimpatrio, un suo peso ed una sua valenza sulle scelte che il nostro popolo andò ad affrontare per darsi una vita istituzionale rispondente alle proprie necessità. In altri termini i prigionieri di guerra e gli internati, che nel loro totale, secondo la relazione Facchinetti del 1947, ammontarono a 1.350.000 considerando tutti gli aspetti in cui la prigionia italiana si articolò nella seconda guerra mondiale, al momento del loro ritorno in Patria portarono un loro contributo diretto o indiretto alla rinascita della vita politica del nostro Paese. Dal maggio 1945 al febbraio 1947 quasi tutti i prigionieri italiani furono restituiti all’Italia e ognuno ebbe la possibilità di partecipare alle decisioni di quegli anni difficili e determinanti. Così, a seconda dell’esperienza vissuta, i prigionieri di guerra poterono dare un loro contributo.

Il documento di un militare italiano prigioniero degli inglesi (da http://m.coratolive.it/rubriche/334/ seconda-guerra-mondiale-lettere- dalla-prigionia-di-soldati-coratini)

Iniziamo da quelli più numerosi, quelli in mano alla Gran Bretagna. La prigionia inglese fu severa, non certamente piacevole, ma corretta. Gli italiani ebbero modo di vedere da vicino il modo di essere degli inglesi nel mondo e come stavano gestendo il loro Impero. Una esperienza sicuramente positiva fu quella dei prigionieri in Kenya, in Sud Africa, a Ceylon, in Australia e, in parte, in India; un po’ meno per quelli che inizialmente furono tenuti nel Nord Africa ed in Palestina o inviati in Inghilterra dove anche questi ultimi ebbero modo di vedere lo stile di vita anglosassone. In linea generale ne trassero insegnamenti favorevoli ed un senso di ammirazione – non certo elevato ma sostanzialmente reale – del modo di vivere inglese. Saranno costoro che in Italia – in linea di massima – aderiranno con sincerità ai principi democratici di stampo occidentale.

Lo stesso discorso vale per i soldati italiani prigionieri degli Stati Uniti. Gli statunitensi al momento della cattura avevano assunto – e questo non solo nei confronti degli italiani ma anche dei giapponesi e dei tedeschi – un atteggiamento pedagogico. Erano convinti che questi soldati, educati nel clima della dittatura, potessero essere orientati su principi democratici; sicuramente se messi in contatto con il sistema di vita americano, i prigionieri, una volta rientrati nel loro Paese, sarebbero stati ottimi veicoli di propaganda per gli Stati Uniti.

Con questo atteggiamento la prigionia negli Stati Uniti fu umana, accettabile e, se paragonata a tutte le altre, la migliore.

Sbarco di prigionieri italiani provenienti dai Paesi anglo-americani

II segno cambia completamente con le altre due prigionie, quella sovietica e quella francese. Quella sovietica diede vita nel 1945-’47 a roventi polemiche che incisero molto nella vita politica di quegli anni. Da una parte si sosteneva che le tesi espresse dall’URSS erano accettabili, dall’altra si era convinti, davanti alla mancanza di informazioni, che grandi masse di italiani erano ancora tenute prigioniere nell’Unione Sovietica, senza nessuna possibilità di restituzione.

Nella realtà – ormai è acclarato – oltre il 90% dei prigionieri caduti, dopo la ritirata del gennaio 1943, in mano sovietica, morì nei mesi di febbraio, marzo, aprile e maggio 1943.

Le cause di ciò sono ben descritte da chi subì la prigionia russa fin dagli anni 50: condizioni ambientali orrende, tifo, mancanza di alimentazione, malattie, interminabili marce nella neve, campi di concentramento in condizioni igieniche pessime; tutto contribuì ad elevare il tasso di morte dei nostri prigionieri. E ciò senza colpe specifiche da attribuire ai sovietici impegnati in una guerra per la sopravvivenza; non c’era spazio per attenzioni o risorse da dedicare ai prigionieri nemici. In Italia rientrarono circa 12.000 soldati dalla Russia dei previsti 60-80.000.

Le polemiche che, come detto, accompagnarono questi rientri, misero un po’ in ombra l’altra grande tragedia: quella dei prigionieri italiani in mano francese.

Giuridicamente i francesi di De Gaulle non avrebbero dovuto tenere prigionieri soldati italiani in quanto l’Italia con la Francia aveva concluso un armistizio. Ma De Gaulle dettò le sue regole e non solo trattenne come prigionieri quei soldati italiani che le sue truppe avevano catturato in Nord Africa, ma pretese – per l’economia dell’Algeria e della Tunisia, disse – altri 15.000 soldati italiani catturati da americani ed inglesi. Questa prigionia francese fu veramente crudele. Rifacendosi alla cosiddetta «pugnalata alla schiena» del 1940 i francesi commisero sui nostri connazionali ogni sorta di sopruso, non accettando nemmeno in linea teorica di avere gli italiani come loro collaboratori, come invece fecero americani ed inglesi, e usando nei campi un trattamento che non è secondo a quello dei campi tedeschi. Sia per i reduci dalla prigionia russa che da quella francese, si manifestò, una volta arrivati in Italia, un’avversione così radicata verso i loro detentori. Saranno questi reduci che – imputando le loro sofferenze a chi nel 1940 dichiarò la guerra – negli anni del dopoguerra, opteranno per una scelta rinnovatrice e democratica.

Si può anche dire che se l’Italia non è scivolata nella guerra civile, nello scontro armato – come era facile accadesse soprattutto nel momento di massima crisi con l’attentato a Togliatti – in parte lo si deve anche al senso di misura e di equilibrio di questa massa di giovani e meno giovani ex combattenti, che attraverso le sofferenze della guerra e della prigionia non era più disposta a risolvere i contrasti interni con l’uso delle armi.

L’epoca delle avventure, che loro avevano pagato duramente, era per fortuna terminata.

Da “Patria indipendente” n. 10/11 del giugno 1996


NOTE:

(1) Per questo particolare aspetto vedasi il volume di M. Coltrinari – E. Orlanducci: «I prigionieri militari italiani nella seconda guerra mondiale in Francia e nei territori francesi», Edizioni ANRP, Roma, 1995.

(2) Degli stessi autori, per la prigionia statunitense, vedasi: «I prigionieri militari italiani nella seconda guerra mondiale degli Stati Uniti», Edizioni ANRP, Roma 1996.

Dal 1996 molto lavoro di ricerca sugli internati è stato realizzato dall’ANRP – Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia. dall’internamento, dalla guerra di Liberazione e loro familiari – e continua tutt’oggi. I volumi pubblicati possono essere richiesti o visionati nella modernissima biblioteca nella sede nazionale della ANRP in Via Labicana 15A – 00184 Roma. Il catalogo è quasi tutto on line, consultabile da http://www.anrp.it/pubblicazioni/