Tra le numerose ricorrenze che hanno costellato il 2015, anno denso di memorie per la storia d’Italia, merita di essere ricordato anche il 70° anniversario della prima riunione della Consulta nazionale, tenutasi il 25 settembre 1945 a Montecitorio: nel clima di attese e di tensione politica e morale dell’immediato dopoguerra, il palazzo parlamentare per antonomasia, già sede della soppressa Camera dei deputati, si rivelò sin dal primo momento la sede più adatta ad accogliere un organismo che, se non ebbe l’investitura e le funzioni di una Camera elettiva, ne ebbe però il tono e la dignità, per l’autorevolezza delle persone che lo componevano e per l’elevatezza delle discussioni che vi si svolsero.
La Consulta nazionale fu istituita con il decreto legislativo luogotenenziale 5 aprile 1945, n. 146, successivamente integrato dal decreto legislativo luogotenenziale 30 aprile 1945, n. 168, che ne regolò le modalità di composizione; tuttavia, di un’assemblea consultiva che affiancasse l’operato del governo, si era cominciato a parlare già molto tempo prima, all’indomani dell’8 settembre 1943. La rivendicazione di un tale organismo – costituito sul modello dell’Assemblée consultative francese, istituita ad Algeri il 17 settembre 1943 – assunse poi un particolare rilievo nel gennaio 1944, durante l’assemblea di Bari dei CLN, nel momento di più acuto contrasto tra i partiti antifascisti e il governo regio. Concordi nel reclamare l’istituzione di un organo collegiale consultivo, i partiti gli attribuivano però un diverso significato: secondo le componenti moderate e conservatrici, nella crisi di regime in corso, esso avrebbe dovuto restituire voce e legittimazione istituzionale soprattutto alle personalità dell’Italia prefascista, come aveva auspicato Carlo Sforza (futuro presidente della Consulta) nel suo intervento al consesso barese, mentre alcune delle formazioni di sinistra (in particolare azionisti e socialisti) vagheggiavano una sorta di Convenzione rivoluzionaria che avrebbe dovuto sancire la decadenza della monarchia e l’attribuzione dei pieni poteri ad un governo formato esclusivamente dai partiti antifascisti.
La svolta di Salerno e la politica di unità nazionale, determinando un diverso assetto dei rapporti tra CLN, monarchia ed Alleati, modificarono in parte il senso della proposta, presente peraltro nei programmi dei due governi Bonomi, nel giugno e dicembre 1944. In particolare, nei mesi successivi alla liberazione di Roma, si manifestò sull’argomento una diversa sensibilità tra i partiti che iniziavano a caratterizzarsi per un esteso radicamento sociale – comunisti, socialisti e cattolici – e quelli che mantenevano un carattere elitario: i primi, infatti, pur non contrastando la proposta di istituire un’assemblea consultiva, guardavano soprattutto alla scadenza dell’elezione dell’Assemblea Costituente come banco di prova per misurare il rispettivo livello dei consensi conquistati sia nell’Italia liberata che nei territori occupati, mentre i secondi – azionisti, liberali e demolaburisti – privi di canali efficienti di comunicazione con la società civile, confidavano che le pubbliche discussioni di un organismo di tipo parlamentare potessero svolgere un ruolo importante per la diffusione delle rispettive posizioni, oltre che, più in generale, per la rieducazione politica e morale di una società narcotizzata da venti anni di regime totalitario.
Il dibattito sulla Consulta subì una certa accelerazione nel novembre 1944, per iniziativa del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale: questo organismo, all’indomani della liberazione di Firenze, aveva proceduto alla nomina delle principali cariche pubbliche nel territorio da esso controllato, ottenendo, non senza difficoltà, la conferma del proprio operato da parte del Governo militare alleato; questo, a sua volta, si era avvalso più volte della collaborazione del Comitato, al quale aveva riconosciuto un ruolo consultivo, ricorrendo ad esso specialmente nella gestione dell’ordine pubblico e degli approvvigionamenti alimentari della popolazione. Da questa esperienza, il Comitato toscano (CTLN) aveva tratto spunto per indicare nei CLN locali, a livello provinciale e regionale, gli organismi che avrebbero dovuto presidiare e promuovere la nuova democrazia italiana e, nel Memoriale presentato al Governo italiano nel novembre 1944, aveva ipotizzato l’assegnazione ai CLN regionali di compiti di studio per la preparazione del futuro assetto regionale dello Stato; soprattutto, aveva proposto la costituzione di un organismo consultivo nazionale composto da delegati nominati dai CLN provinciali. La proposta del Comitato toscano fu accolta con una certa freddezza dal Governo centrale. Se da un lato essa valorizzava l’esperienza resistenziale nel corso della quale i Comitati avevano assunto vere e proprie funzioni di governo, dall’altro però sembrava non tenere adeguatamente conto della realtà di un Paese sconfitto e diviso, con situazioni territorialmente e politicamente molto differenziate nelle zone già liberate, e fortemente condizionato dall’occupazione militare alleata. Non mancava, inoltre, tra i gruppi dirigenti dei principali partiti, la preoccupazione che la creazione di un organo nazionale di rappresentanza dei CLN potesse compromettere la tenuta del quadro politico, alterando il fragile equilibrio creatosi con gli Alleati e con la monarchia nell’ambito della tregua istituzionale, con conseguenze non facilmente prevedibili.
Malgrado le non poche riserve sulla posizione del Comitato toscano (CTLN), nel dicembre 1944 il secondo governo Bonomi affidò ad un comitato di ministri composto da Togliatti, De Gasperi, Brosio e Ruini, il compito di mettere a punto una proposta per l’istituzione di un’assemblea consultiva. Sulla base del lavoro svolto dalla commissione, pochi mesi dopo, il Consiglio dei ministri varò il decreto legislativo n. 146, istitutivo della Consulta nazionale: in esso, e nel successivo decreto legislativo n. 168, l’impianto ciellenistico prospettato nella proposta toscana venne lasciato cadere, e la designazione dei consultori (di nomina governativa) fu affidato ai partiti antifascisti componenti del CLN, secondo il principio di pariteticità, nonché, in misura quantitativamente più limitata, ad altri partiti antifascisti, alle organizzazioni sindacali dei lavoratori e alle organizzazioni dei datori di lavoro, alle associazioni combattentistiche, e a quelle di carattere professionale. Al Governo era infine data facoltà di nominare non più di ottanta tra ex deputati della XXVII Legislatura collocati all’opposizione del governo fascista dopo il 3 gennaio 1925 e tra i senatori del Regno nominati prima del 28 ottobre 1922, che dopo il 3 gennaio 1925 avessero mantenuto una posizione di opposizione al Governo o si fossero semplicemente astenuti dall’esercizio delle loro funzioni. Erano inoltre membri di diritto della Consulta gli ex presidenti del Consiglio in carica prima del 22 ottobre 1922, i presidenti della Camera e del Senato nominati (con un titolo peraltro puramente onorifico) dopo la liberazione di Roma e coloro i quali, dopo la stessa data, fossero cessati da cariche di governo. A completare il quadro istituzionale, con il decreto legislativo luogotenenziale 31 luglio 1945, n. 443, fu istituito il Ministero della Consulta, con il compito di predisporre le norme riguardanti la nuova assemblea e le misure volte ad assicurarne il funzionamento; ne furono titolari il liberale Manlio Brosio e successivamente l’azionista Emilio Lussu, che, dopo la soppressione del Ministero nel dicembre 1945, fu preposto come ministro senza portafoglio ad un Ufficio per le relazioni con la Consulta, istituito presso la Presidenza del Consiglio, poi guidato dall’azionista Alberto Cianca fino allo scioglimento della Consulta, il 1° giugno 1946.
Gli atti istitutivi venivano dunque a definire il carattere tecnico-politico della nuova assemblea, la cui funzione consultiva avrebbe dovuto essere esercitata essenzialmente nell’ambito delle dieci commissioni permanenti (affari esteri, affari politici e amministrativi, giustizia, istruzione e belle arti, difesa nazionale, finanze e tesoro, agricoltura e alimentazione, industria e commercio, lavoro previdenza e assistenza, ricostruzione, lavori pubblici e comunicazioni) incaricate di esprimere il parere sui disegni di legge che l’Esecutivo avrebbe deciso di sottoporre loro, fermo restando l’obbligo del Governo stesso di richiedere il parere della Consulta sui bilanci preventivi e sul rendiconto consultivo, sulle leggi elettorali e su quelle in materia fiscale. Era riconosciuta ai componenti della Consulta la titolarità del diritto di interrogazione e di interpellanza nei confronti del Governo, e di proporre provvedimenti legislativi. In quest’ultimo caso, però non vi era un obbligo del Governo di avviare il procedimento legislativo, di cui era titolare ai sensi del decreto legge luogotenenziale n. 151 del 1944, (la cosiddetta “prima costituzione provvisoria”, che aveva tradotto in legge i termini della tregua istituzionale delineata con la svolta di Salerno nell’aprile 1944).
Per il modo in cui fu composta e per il ruolo assegnatole, la Consulta operò dunque come un tipico organismo di transizione da un regime ad un altro, e svolse i suoi compiti con scrupolo, dando vita, nella sua sede plenaria, a dibattiti degni di essere ricordati per la rilevanza degli argomenti trattati e per l’elevato livello degli interventi. Occorre sottolineare che la prevalenza quantitativa accordata ai partiti del CLN (37 consultori per ciascun partito, in ragione di 222 membri sul totale di 430 di cui risultò composta alla fine la Consulta) anticipò, in una certa misura, uno dei tratti dell’assetto del sistema politico destinato a caratterizzare un lungo periodo di storia repubblicana, mentre, dal punto di vista dei rapporti tra le diverse componenti, l’accento posto sulle rappresentanze tecniche e professionali concorse a determinare la prevalenza di un orientamento politicamente moderato in seno all’assemblea e alle commissioni, peraltro poco visibile, in quanto la gran parte delle deliberazioni furono adottate con maggioranze molto ampie.
Anche se l’attività consultiva si svolse prevalentemente nell’ambito delle Commissioni permanenti, nelle poche occasioni in cui si riunì l’assemblea plenaria, i consultori si mostrarono consapevoli dell’importanza e della novità costituita dal fatto che un’assemblea dotata di una certa rappresentatività (ancorché non elettiva) dibattesse in pubblico i principali problemi del Paese, ripristinando forme di vita politica ed istituzionale che il precedente regime aveva brutalmente soppresso.
Cosciente di questa realtà, Ferruccio Parri avvertì l’esigenza di presentare il proprio governo alla Consulta, in una discussione svoltasi dal 27 settembre al 2 ottobre 1945, nella quale furono affrontati i grandi temi della ricostruzione economica e politica dell’Italia appena uscita dalla durissima prova della guerra e durante la quale Benedetto Croce polemizzò con il presidente del Consiglio, contestando le affermazioni di quest’ultimo sul carattere non democratico dei passati governi liberali; ai temi della politica estera ed alle linee di condotta del Governo in occasione della discussione sul trattato di pace fu poi dedicata la discussione sulle comunicazioni del presidente del Consiglio e ministro degli esteri Alcide De Gasperi, svoltasi dal 12 al 21 gennaio 1946, e seguita nei due giorni successivi, da un dibattito sulla politica economica conclusa dal ministro del tesoro Epicarmo Corbino.
Né si può tacere l’impegno della Consulta sui principali profili normativi della transizione costituzionale; in particolare, dall’11 al 23 febbraio 1946, si svolse in sede plenaria un’approfondita discussione intorno alla legge elettorale per l’Assemblea Costituente, sulla quale riferì come relatore il democristiano Giuseppe Micheli che, ventisei anni prima, come deputato del Partito popolare, era stato relatore alla Camera sulla legge del 1919 che aveva introdotto il sistema proporzionale. L’ultimo dibattito in assemblea plenaria si svolse sullo schema del decreto legislativo luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98, poi ricordato come seconda costituzione provvisoria: un provvedimento importantissimo, che tracciò la strada degli eventi a venire. Con esso, infatti, si stabiliva la simultaneità tra il referendum istituzionale e l’elezione dell’Assemblea Costituente; la limitazione dei compiti dell’Assemblea stessa, alla quale veniva demandata la materia costituzionale e l’approvazione delle leggi elettorali e di ratifica dei trattati internazionali, fermo restando il diritto del Governo di sottoporre all’Assemblea qualsiasi altro provvedimento, e la responsabilità del Governo di fronte all’Assemblea. Il dibattito sulla seconda costituzione provvisoria, un testo che concludeva una lunga discussione tra le forze politiche con un compromesso che segnava un sostanziale successo della linea moderata del premier De Gasperi, fu l’ultimo della Consulta; con l’approvazione del parere e la decisione di affiggere nelle sedi comunali d’Italia l’acclamato discorso conclusivo di Vittorio Emanuele Orlando, l’assemblea chiuse i propri lavori il 9 marzo 1946, mentre le Commissioni permanenti proseguirono la loro attività fino al 1° giugno dello stesso anno.
In un breve periodo di esistenza, la Consulta assolse ai suoi compiti con notevole senso delle responsabilità istituzionale, cosciente di essere stata chiamata a svolgere un ruolo vicario di un organismo parlamentare, di cui non ebbe né le funzioni né la legittimazione, ma di cui seppe preparare l’avvento. Essa si mostrò degno predecessore dell’Assemblea Costituente soprattutto per la capacità di dare al popolo italiano tangibile prova del fatto che la classe dirigente emersa dalla guerra di Liberazione aveva consapevolezza della rilevanza e della difficoltà del compito di ricostruzione che si accingeva ad assolvere.
In questo senso la Consulta va considerata a pieno titolo come un importante momento della vita istituzionale italiana nel processo di transizione dal regime fascista all’ordinamento repubblicano, alla fondazione del quale apportò un contributo politico e morale che merita di essere ricordato ancora oggi.
Pubblicato mercoledì 23 Dicembre 2015
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