Le più grandi riserve di petrolio del pianeta. La più grande sfida politica all’ordinamento economico dominante. La più grande frattura tra gli imperi in attività (gli Stati Uniti declinanti, la Cina emergente, ciò in cui la Russia si è trasformata). La preda è là e si chiama Venezuela, la sua economia in ginocchio, la sua società spaccata in due, la sua politica incapace di sottrarsi alla corsa verso il baratro, mentre in resto del mondo si divide in sfere di influenza. Bentornati nella Guerra fredda.
La crisi del Venezuela è esplosa il 23 gennaio scorso, quando il semi-sconosciuto presidente del parlamento Juan Guaidó si è proclamato presidente ad interim durante l’ennesima manifestazione anti-governativa. Ma dietro quel giorno che ha acceso la miccia ci sono anni di conflitti politici, economici e sociali, tutti permeati da ciò che rende la lettura dello scontro un affare inestricabile: l’ingerenza degli Stati uniti. Le incredibili pressioni a cui Washington ha sottoposto la “rivoluzione bolivariana” inquinano ogni giudizio su torti e ragioni. Se non su un punto: quella del Venezuela è la storia di un aggressore e di un aggredito.
Meno di venti giorni dopo l’auto-proclamazione di Juan Guaidó, il Paese è una polveriera. Il presidente costituzionale Nicolas Maduro è ancora in carica e governa in uno stato di eccezione permanente.
L’esercito venezuelano gli è rimasto fedele con poche eccezioni e fino ad oggi un solo alto grado, un generale dell’aeronautica, ha pubblicamente appoggiato l’opposizione.
Il “presidente” autonominato Guaidó è stato invece riconosciuto da decine di potenze estere: gli Stati uniti immediatamente, seguiti a ruota da molti Paesi americani retti da governi di destra, da molte nazioni europee – prime tra tutte Francia e Gran Bretagna – ma non dalla Ue, in buona parte per il rifiuto dell’Italia. L’economia del Paese è e resta in ginocchio e la situazione è incrudelita da nuove sanzioni degli Stati Uniti. Le scorte di cibo e farmaci sono una crisi nella crisi che sta assumendo proporzioni drammatiche, e sull’invio di aiuti umanitari si combatte una guerra di propaganda che vista da fuori sembra inspiegabile.
Come si è arrivati a questa situazione?
Il conflitto in Venezuela inizia all’indomani dell’elezione alla presidenza di Hugo Chavez, un militare di sinistra con un tentativo di golpe nella biografia e un programma che lui definisce socialista e gli avversari pupulista. È il 1998, sono i primi anni della “ola rosa”, l’ondata di governi progressisti latinoamericani che sembra rivoluzionare il continente: il Venezuela “saudita”, con le sue scorte di petrolio e la nuova politica redistributiva del “Movimento Quinta repubblica”, ne diventa una punta avanzata. Chavez avvia profonde riforme, e vara leggi contro la grande proprietà che vanno dalla nazionalizzazione del petrolio alla lotta alla povertà (l’87% dei venezuelani era povero, il 47% poverissimo) a quella al latifondo (in un paese dove il 10% dei proprietari possiede l’80% delle terre). Ciò che non fa è affrancare il Paese dalla monocoltura del petrolio, che ieri come oggi forma oltre il 90% delle rendite del Venezuela. Negli anni del greggio a 100 dollari al barile, Caracas finanzia decine di programmi sociali che liberano milioni di persone da analfabetismo, fame, malattie. Poi l’oro nero scende a picco e con esso i dividendi pubblici del Venezuela. La maledizione dell’“estrattivismo” crea le condizioni per cercare il cambio di potere.
Quando Chavez muore di cancro, nel 2013, il Movimento ormai diventato Partito socialista segue le sue indicazioni e sceglie Nicolas Maduro come successore. Ma il leader che si spegne a Caracas non è facilmente sostituibile, e il pur navigato Maduro – un ex autista che però è già stato ministro degli esteri e vicepresidente – non ha il carisma per opporsi alla cinica svolta politica dell’opposizione e di chi dall’estero la sostiene: in sostanza, affamare il Paese fino a provocarne la rivolta. Centinaia di milioni di dollari vengono iniettati nell’opposizione venezuelana da organismi pubblici statunitensi come il Ned (National endowment for democracy) e Usaid, mentre le sanzioni americane scavano nell’economia del Venezuela. Il governo decide di fissare un cambio politico con il dollaro e un prezzo politico per molti generi alimentari e sanitari, e si svena per sostenerli. Si rivelerà un errore enorme: la speculazione aggredisce e spolpa il bolivar fino a tassi di inflazione a molti zeri, cibo e medicinali spariscono dai mercati legali per riapparire sulla borsa nera. Le occasionali retate anti-profittatori servono solo a definire le dimensioni del problema: un capannone con 14 milioni di siringhe e 2 milioni di guanti chirurgici scoperto là, un altro con un milione e mezzo di assorbenti qua, un terzo con 360 tonnellate di detersivi…
Anche Voluntad Popular, il partito di destra di Juan Guaidó, prende i dollari del Ned, e con quelli affronta le urne. Contro Maduro vengono rivolte le stesse accuse di assolutismo che bersagliavano Chavez, e il fatto che quest’ultimo abbia vinto 16 delle 17 elezioni a cui ha preso parte (e abbia riconosciuto la sola sconfitta comportandosi di conseguenza) sembra non importare. Persa in furibonde divisioni interne e persino in un fallito tentativo di golpe nel 2002 – quando il capo della confindustria Pedro Carmona e il cardinale Antonio Velasco Garcia cercarono senza successo di ottenere le dimissioni di Chavez, preso prigioniero per 48 ore – l’opposizione venezuelana perde ogni elezione che affronta, tranne le ultime parlamentari in cui tra l’altro viene eletto Guaidó, e contesta le presidenziali del 2018, tenutesi dopo un estenuante tira e molla per fissare data, condizioni, partecipanti. Alcuni sono in esilio, altri si tirano indietro all’ultimo momento, altri ancora sono in carcere: un brutto spettacolo. Ma vale solo per il Venezuela. Cosa dire del Brasile il cui candidato strafavorito – Lula – viene mandato in galera dallo stesso uomo che diventerà ministro della giustizia del governo di ultradestra di Jair Bolsonaro? Ma non importa, nessuna istanza internazionale apre bocca.
Le stesse invece si precipitano a riconoscere Juan Guaidó quando si autoproclama presidente, appigliandosi a un articolo della costituzione che però parla di morte o impedimento del titolare (ma nessuno sembra tenerne conto), ottenendo il via libera la notte prima dal vicepresidente degli Stati Uniti Mike Pence, che lo rivela tranquillamente via Twitter. E fra tweet e interviste a canali amici come Fox News, Washington guida la rivolta: “Stiamo parlando con grandi compagnie petrolifere americane”, dice il capo della Sicurezza nazionale John Bolton. “Abbiamo una speciale responsabilità per questo emisfero”, dice Pence. “Amnistia per i militari che disertano”, promette il segretario di stato Mike Pompeo.
E mentre decine di Stati si allineano agli Stati uniti nel riconoscere Guaidó, gli Usa “sequestrano” il principale asset venezuelano sul suolo americano, la compagnia petrolifera Citgo, e ne assegnano i ricavi a Guaidó (è un colpo doppio: l’80% del petrolio venezuelano viene venduto proprio agli Stati uniti). La Banca d’Inghilterra rifiuta di restituire al governo di Caracas l’oro depositato nei suoi caveau, per oltre mezzo miliardo di dollari. E nuove sanzioni americane rendono impossibile per il Venezuela di Maduro accedere al mercato del credito in dollari.
Affamato, isolato, destabilizzato, il governo Maduro è tuttavia ancora in piedi. Lo sostiene la Russia, che ha messo 17 miliardi di dollari nella compagnia petrolifera pubblica Pdvsa e non vorrebbe perdere sia l’alleato che i soldi. Lo sostiene la Cina, per motivi analoghi. Lo sostengono – per ora – anche i vertici militari, e sono soldati quelli che Maduro ha schierato sul ponte al confine con la Colombia per impedire l’ingresso di aiuti umanitari così smaccatamente politicizzati che la Croce rossa, la Mezzaluna rossa e l’Onu si sono rifiutati di trasportarli (ma anche questo sembra non importare a nessuno).
A cercare difficili mediazioni sono due Paesi, Messico e Uruguay, non a caso disallineati nella nuova edizione della guerra fredda, governi di sinistra che hanno promosso una difficile trattativa per tornare alle urne sotto un controllo internazionale. Il presidente messicano Lopez Obrador di elezioni fraudolente sa qualcosa: a lui e al suo partito sono state rubate almeno tre presidenziali, ma nessuno ha mai mosso un dito. Sia Maduro che Guaidó hanno fatto appello anche al Papa, ma il presidente costituzionale ha chiesto a Francesco di mediare, quello autoproclamato gli ha chiesto di schierarsi dalla sua parte – e dopo il cardinale golpista del 2002, la chiesa venezuelana non è molto credibile come istanza equidistante.
Chi non medierà mai è il nuovo special envoy degli Stati Uniti per il Venezuela. Si chiama Elliott Abrams, ed è senza alcun dubbio il principale sostenitore di ogni regime latinoamericano di destra negli ultimi 40 anni. Salvador, Nicaragua, genocidi in Guatemala, Iran-Contra, Panama… la sua biografia mette paura.
Lo scopo è esattamente questo.
Roberto Zanini, giornalista, già redattore capo de “il Manifesto”
Pubblicato mercoledì 20 Febbraio 2019
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