«E che sia benedetto l’umorismo, il modo migliore per resistere a tutto questo. Se riusciamo a ridere del Coronavirus, in realtà stiamo dicendo che non ci ha ancora portati alla paralisi totale. Che dentro di noi c’è ancora libertà di movimento nell’affrontarlo. Che stiamo continuando a combatterlo e che non siamo solo la sua vittima indifesa (più precisamente, in realtà siamo la sua vittima indifesa, ma abbiamo inventato un modo per aggirare l’orrore di tale consapevolezza e persino per divertirci con essa)» scrive lo scrittore David Grossman in un suo recente intervento sul Corriere della Sera.
Certo, non c’è niente da ridere, si direbbe. L’impatto del Covid19 ha dei numeri ben poco umoristici. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro – agenzia delle Nazioni Unite – andranno in fumo talmente tante ore lavorate che potrebbero essere cancellati 195 milioni di posti in tutto il mondo. In Italia le ripercussioni potrebbero riguardare 900mila occupati, se il blocco dovesse prorogarsi fino a giugno. Le conseguenze di questo rischiano di incidere gravemente anche sulla natalità. Secondo le stime dell’Istituto nazionale di statistica, la pandemia provocherà 2mila nuovi nati in meno rispetto alle previsioni del 2020 e una forte contrazione nel 2021, che potrebbe portare le nascite sotto i 400mila nati annui, un dato previsto nel 2032 “nell’ipotesi più pessimistica”. Per non parlare delle oltre 30mila vittime, ad oggi, solo in Italia.
A questo si aggiungono i dati di un’indagine sulla popolazione italiana condotta dall’Istituto Piepoli per il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi secondo cui il 62% degli italiani pensa che avrà bisogno di un supporto psicologico per affrontare il ritorno alla normalità, dopo i due mesi di lockdown. Non solo per la paura del contagio, ma anche rispetto alle preoccupazioni per il futuro.
Eppure di umorismo ci sarebbe un gran bisogno. Dovrebbe essere un farmaco fornito gratuitamente dal servizio sanitario nazionale, o distribuito in farmacia al pari delle mascherine di cui in questo momento non si può fare a meno. La risata costituisce un meccanismo importante di comunicazione sociale e di reazione al trauma, “l’unico vaccino contro la paura” sostengono gli psicologi. Proviamo allora a fare un discorso serio sul ridere.
La storiografia rende noto quanto l’uomo si sia rivolto all’umorismo – e ai suoi generi come comicità, ironia e satira – nelle più disparate fasi tragiche della storia. Nel Medioevo, il riso era bandito dalla chiesa che lo contrapponeva al salvifico pianto. Ma c’erano dei giorni in cui l’ordine si sovvertiva: a Carnevale l’allegria e i piaceri terreni la facevano da padroni, mentre i ricchi e i poveri erano indistinguibili perché mascherati. Una volta terminate le feste, il rigore e l’ordine tornavano imperanti nella società. E d’altra parte, nel nostro tempo della mascherina, non è forse il mascheramento l’elemento caratterizzante del carnevale antico e moderno? Dal 1500 – e per diversi secoli successivi – il popolo di Roma fece abbondante uso delle pasquinate: cartelli anonimi che nella notte venivano appesi al collo della statua di Pasquino e sui muri circostanti. Erano messaggi di satira dotta e popolare contro i papi e il loro governo tirannico, contro cardinali e curia e contro chiunque meritasse il biasimo. Una sorta di meme (immagini, citazioni che condividiamo sui social networks) ante litteram.
C’era spazio per la comicità anche all’interno dei lager nazisti. Alcuni cabarettisti ebrei che animavano le serate berlinesi prima del nazismo e delle leggi razziali, vennero deportati nei campi di concentramento. «I trasporti per Auschwitz naturalmente ci stavano – e ci stavano ogni martedì – ma intanto bisognava anche ridere!» racconta Jetty Cantor, fra le poche sopravvissute della compagnia teatrale Gruppe Bühne di cui faceva parte, nel libro “Ridere rende liberi” della storica dell’antropologia Antonella Ottai (Quodlibet Edizioni, 2016). La brutale paradossalità di questa affermazione dimostra quanto sia lecita la risata in un contesto di dolore nel quale avrebbe dovuto essere interdetta. E soprattutto sulla sua normalità in un contesto di eccezione. Perché all’inganno che il lavoro potesse essere l’unica via per evadere dalla realtà dei campi di concentramento (Arbeit macht frei – il lavoro rende liberi – era scritto sui loro cancelli) il popolo ebraico si è opposto con la sua comicità e il suo proverbiale senso dell’umorismo, cercando la propria libertà anche all’inferno.
Sarà capitato a tutti di leggere in questi giorni di lockdown meme divertenti. Da “Prenderemo una quarantena di chili”, “Una buona notizia: l’infedeltà è scesa del 99,9%”, “Andrà tutto bene in un modo o nell’alcool” fino a ironizzare sui prezzi dell’Amuchina, paragonata al nuovo champagne. Dopo l’approvazione del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 26 aprile, il termine “congiunto” è stato non solo oggetto di polemiche, ma anche il più ricercato sul web e protagonista assoluto dell’ironia. Una delle migliaia di meme recita: “Vendesi congiunto (marito) usato pochissimo. Termoautonomo: già capace di vivere senza la mamma. Ideale per portare fuori la spazzatura”.
Anche il contributo dell’arte è stato notevole. Chi non si è imbattuto in Amore e Psiche di Antonio Canova trasformata in Amore e Psicosi, nella Monna Lisa di Leonardo da Vinci con la mascherina o nell’Amuchina che unisce le due mani della Creazione di Adamo di Michelangelo Buonarroti?
Allo stesso modo il Museo degli Uffizi di Firenze ha ironizzato sui divieti dettati dal Covid19, caricando dei brevi video sull’applicazione Tik Tok, utilizzata principalmente dagli adolescenti.
Uno di questi ha come protagonista la Sacra Famiglia – conosciuta anche come Tondo Doni – di Michelangelo Buonarroti che dice “Quando sei in quarantena e non hai attrezzi per fare workout” mentre la Madonna esercita i bicipiti sollevando il Bambino a suon di musica techno.
«Serve ad avvicinare le opere a un pubblico diverso da quello cui si rivolge la critica ufficiale, ma anche a guardare le opere in modo diverso e scanzonato. In un momento difficile come questo, è importante, ogni tanto, concedersi un sorriso e un po’ di autoironia. E se è possibile farlo grazie alla grande arte, ancora meglio» ha spiegato il direttore del museo Eike Schmidt.
Utilizzare l’umorismo come strategia per fronteggiare quanto di spaventoso sta avvenendo intorno a noi, permette di moderare le emozioni negative, mantenendo una prospettiva realistica e maggiormente gestibile. Questo, è bene sottolinearlo, non vuol dire sminuire o dimenticare i problemi. Significa “autodistanziamento”, affermava lo psichiatra e filosofo Viktor Emil Frankl, fondatore dell’analisi esistenziale, metodo che ha evidenziato il nucleo profondamente umano e spirituale dell’individuo. Autodistanziamento inteso non come quello che ci viene imposto per evitare il contagio, ma come «la capacità di prendere le distanze nei confronti di se stesso e dei propri problemi» che incoraggia la resilienza, intesa come «forza di resistenza dello spirito identificata come la capacità di distanziarsi sia da se stesso che dall’ambiente tramite una modalità eroica, come può essere quella di mantenere la propria integrità spirituale nei campi di concentramento, o anche attraverso l’umorismo e l’autoironia» scriveva Frankl (Uno psicologo nei lager, Ed. 2009).
La relazione tra umorismo e resilienza è quindi a tutti gli effetti un fattore di protezione e sviluppo di quest’ultima. Ridere è un toccasana non solo a livello cognitivo per i motivi appena descritti, ma anche a livello fisiologico perché, secondo numerosi studi, stimola la produzione di endorfine, i neurotrasmettitori del piacere, che contrastano il cortisolo prodotto dall’ansia, riequilibrando il nostro sistema immunitario e determinando una forte sensazione di benessere. Sperando che di virale diventi solo la risata.
Mariangela Di Marco
Pubblicato martedì 12 Maggio 2020
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