“Odio gli indifferenti” scriveva Antonio Gramsci e voleva significare così il suo disprezzo per chi non prende parte, non soffre per le vicende della umanità, finge un distacco che spesso assumeva e assume il volto del cinismo, quando non degenera in opportunismo e collaborazione con gli oppressori di turno contro gli oppressi.
Non casualmente quelle parole cadevano in una stagione segnata dalla viltà, dalla indifferenza verso le azioni delle squadre in camicia nera, dalla sostanziale compiacenza che gli apparati dello Stato, ed anche non pochi giornalisti ed intellettuali, riservarono al nascente fascismo, convinti come erano che la “violenza purificatrice e qualche ettolitro di olio di ricino avrebbero rimesso in riga i “rossi” e restaurato l’ordine sociale ed economico.
Gli indifferenti, allora come oggi, sono l’esercito di riserva di ogni rivoluzione passiva, per restare nel linguaggio gramsciano.
Il loro silenzio o comunque il fingere di non sapere e di non vedere rappresentano il terreno ideale per ogni avventura.
Del testo basterebbe rileggere le cronache dei giorni immediatamente precedenti al ventennio nero per riassaporare lo sgradevole gusto della complicità e della sostanziale omertà con le quali la politica di allora, e non pochi giornali, accolsero i primi assalti alle Camere del lavoro, ai municipi, ai giornali non allineati: dall’Avanti! all’Unità, dal Lavoratore di Trieste all’Ordine Nuovo di Torino, per citarne solo alcuni.
I fascisti di ogni tempo e stagione hanno sempre avuto in odio le organizzazioni dei lavoratori, i partiti, le istituzioni democratiche, e quei giornali e giornalisti che rivendicavano e rivendicano il diritto ad informare senza bavagli e senza dover sottostare alle autorizzazioni preventive tipiche dei regimi.
Non casualmente la legge con la quale Mussolini mise la museruola ai giornali, sciolse il sindacato dei giornalisti, istituì l’obbligo del riconoscimento governativo per svolgere la professione del giornalista, fu emanata dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti ed è stata consegnata alla storia con il giusto appellativo di “legge fascistissima”.
Da quel momento quel poco di libertà d’informazione che ancora resisteva, venne distrutta, confinata al massimo in qualche pagina dedicata alla cultura e, come tale, ritenuta non pericolosa per un pubblico sempre più incapace di riconoscere il vero dal falso.
Le leggi fascistissime comportarono licenziamenti, chiusure dei giornali sgraditi, defenestrazione dei direttori non allineati, aggressioni a politici ed editorialisti come Antonio Gramsci, Piero Gobetti, i fratelli Rosselli, Giovanni Amendola che, in seguito alle botte ricevute da una squadraccia, perse la vita.
Molti altri scelsero la strada della connivenza, dell’autocensura, del quieto vivere, che, allora, era almeno giustificato dalla paura di perdere il posto di lavoro ed anche la libertà personale.
La fiamma del pensiero critico e del libero giornalismo fu tenuta accesa da chi operava all’estero, dai gruppi antifascisti organizzati, dai loro fogli, spesso scritti a mano, ciclostilati in poche copie, ma che segnalavano la volontà di non cedere, di mantenere in vita un pensiero critico, premessa per la libera circolazione delle opinioni e dunque del giornalismo.
Per queste ragioni, già dentro i giorni della Resistenza, e nell’attività del Comitato di Liberazione Nazionale, un posto di riguardo fu assegnato alla ricostruzione della libera stampa, alla promozione di nuove testate non compromesse, alla individuazione di nuove professionalità maturate anche nel corpo a corpo con i nazifascisti.
Questi saranno poi i nuovi giornalisti, quelli “non indifferenti” che dovranno, tuttavia, convivere con gli indifferenti di sempre, quelli che, dopo aver amoreggiato con il fascismo, hanno ripreso a tessere la tela del cinismo, della subalternità ai poteri di turno: politici, economici, finanziari, con o senza il cappuccio delle logge.
La nuova stagione della democrazia, le lotte politiche e sociali, i valori racchiusi nell’articolo 21 della Costituzione, rappresentano conquiste che hanno inciso profondamente e positivamente sugli scenari del presente; eppure sarebbe un errore non vedere i rischi della stagione presente.
La spinta alla semplificazione e al trasferimento di poteri verso gli esecutivi tende a ridurre il ruolo e la funzione dei poteri di controllo: dalla magistratura alla informazione.
Il ruolo prevalente esercitato dai gruppi economici e finanziari, internazionali e nazionali, nel controllo dei media tende a ridurre la selezione dei punti di vista e ad emarginare chi non condivide le “magnifiche e progressive sorti” del pensiero unico ed omologante.
I servizi pubblici radiotelevisivi rischiano di essere trasformati in agenzie governative.
Persino Papa Francesco diventa “urticante” quando osa sfidare lo spirito dei tempi in materia di muri, di razzismo, di analisi dei fenomeni di sfruttamento e di alienazione.
In questi casi non scatta tanto la censura, che oggi non ha nulla a che vedere con la stagione del Miniculpop del ventennio, quanto l’autocensura, il desiderio di non scontentare, di navigare sull’onda, di sentirsi “moderni e contemporanei”, come usano dire i pifferai in servizio permanente attivo.
Per non scontentare nessuno i suonatori ambulanti intonano il loro coro celebrativo nei confronti del sovrano di turno, a prescindere dal colore e dalla natura del regime.
Per fortuna non ci sono solo costoro, ma anche donne e uomini, e non sono pochi, che credono nel loro lavoro, che inseguono le verità possibili, che contrastano malaffare e corruzione, che scoprono le “Terre di mezzo” delle mafie e della corruzione.
Sono oltre 500 i cronisti che, nel solo 2015, stando ai dati dell’associazione Ossigeno, hanno ricevuto minacce per la loro attività professionale.
Quasi nessun altro Paese europeo conosce numeri simili.
Molti dei cronisti minacciati operano in terra di mafia e di camorra, spesso sono giovani precari, lasciati senza garanzia alcuna e talvolta circondati dallo scetticismo, quando non dall’ostilità di una parte del politica e di quei giornalisti “indifferenti”, i medesimi che non hanno mai apprezzato gli Impastato, i Siani, i Fava, considerati alla stregua di rompiscatole, incapaci di adeguarsi allo “spirito dei tempi”.
Questi sono oggi i protagonisti di una nuova stagione di Resistenza civile e professionale, nel significato ampio e profondo che l’ANPI ha saputo dare a questa parola che non può essere relegata nella soffitta dei ricordi da rimuovere.
Sono cronisti, spesso giovani, ma non solo, che hanno scelto di essere partigiani, o meglio di prendere parte, nell’unica direzione possibile per un giornalista degno di questo nome: quella della libertà di informazione e del dovere di “illuminare” tutte le periferie del mondo, a cominciare da quelle oscurate perché sgradite alle oligarchie di turno.
Giuseppe Giulietti, giornalista, già parlamentare, oggi presidente del Federazione Nazionale Stampa italiana
Pubblicato venerdì 22 Aprile 2016
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