Soffia da est il vento xenofobo e populista che contagia l’intera Europa. Alle elezioni legislative di inizio aprile Viktor Orbán ha stravinto conquistando la maggioranza dei due terzi del Parlamento ungherese proprio basando la sua campagna elettorale sui discorsi d’odio contro i migranti e sui presunti piani di sostituzione etnica orditi dai cosiddetti nemici dell’Ungheria.
Orbán, 54 anni, ormai è un politico esperto: è stato alla guida del Paese dal 1998 fino al 2002 ed è tornato a governare nel 2010. Con questa vittoria – 49,5% dei consensi – inizia il suo terzo mandato consecutivo a capo del partito Fidesz, formazione politica che fa parte del Partito popolare europeo (Ppe), lo stesso di Angela Merkel, e ha i seggi necessari per cambiare la costituzione.
Il Partito Jobbik (Movimento per un’Ungheria migliore) arriva al 20% risultando secondo: di destra estrema, xenofobo e antisemita, ora trasformatosi in formazione di centrodestra. L’alleanza socialisti-verdi ha ottenuto invece il 12%. Secondo gli osservatori internazionali dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) non ci sono state violazioni dei diritti umani durante le operazioni di voto, ma i partiti di opposizione sono stati sfavoriti nella campagna elettorale, per esempio la televisione statale non è stata imparziale.
Una settimana dopo il voto, a Budapest, migliaia di persone, tra cui molti giovani, sono scese in piazza per contestare i risultati elettorali: hanno attraversato la scenografica Andrássy út scandendo slogan a favore della democrazia e dello stato di diritto, per chiedere modifiche alla legge elettorale e misure che tutelino la libertà di stampa. Non sfilavano soltanto i filoeuropeisti, ma anche militanti del partito Jobbik arrivati in pullman da fuori città. Orbán ha parlato di punizioni contro i dimostranti presunti traditori della patria.
La crisi dei profughi del 2015 – con centinaia di migliaia di persone in fuga dalla guerra che hanno attraversato l’Ungheria per raggiungere la Germania e il tentativo di Bruxelles di imporre delle quote di richiedenti asilo a ogni Paese – è stata utile al discorso del leader magiaro per sfruttare la paura dell’immigrazione e dell’Islam diffusa nel suo elettorato.
Orbán ha portato avanti il messaggio della destra nazionalista in Europa e ha trovato un potente alleato nel partito Diritto e giustizia (Pis) al potere in Polonia. Entrambe le formazioni (Fidesz e Pis) fanno la voce grossa contro l’Europa in patria, ma poi sono i primi beneficiari degli aiuti economici in quanto Paesi giovani dell’Ue; l’Ungheria, per esempio, riceve ogni anno quasi 5 miliardi di euro in più rispetto a quanto versa nelle casse di Bruxelles.
I recenti scandali di corruzione a ridosso delle elezioni avevano fatto pensare a una qualche flessione del partito al potere, ma Orbán è arrivato al traguardo: ora tutto è nelle sue mani. Con queste elezioni l’opposizione ha fallito.
L’uomo forte dell’Ungheria – grazie alla sua retorica aggressiva – con questa vittoria ha inoltre innescato un rafforzamento dell’asse di Visegrád, cioè l’alleanza composta da quattro Paesi dell’Europa centrale (Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica ceca) all’Interno dell’Unione europea. Questi Paesi non sono favorevoli a una politica dei rifugiati basata sulle quote per ogni singolo membro dell’Ue.
C’è da notare che il premier ungherese appartiene alla generazione scesa in politica dopo il crollo del blocco comunista ed è passato quindi dal promuovere il cambiamento e la transizione democratica a ergersi, negli ultimi anni, ad alfiere del populismo nazionalista.
Come si legge su Politico.ue, dalla vittoria di Orbán si può trarre la lezione che le campagne anti-immigrazione sono estremante efficaci: lo abbiamo visto anche in Italia. Agitare continuamente lo spettro dell’immigrazione incontrollata – senza volutamente tener conto dei dati reali del fenomeno – ha fatto guadagnare voti alla Lega di Matteo Salvini oppure a Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni (che in campagna elettorale è volata in Ungheria a stringere la mano a Orbán). Inoltre, il controllo dei mezzi di informazione gioca ancora un ruolo fondamentale per spostare il consenso e la narrazione a proprio favore. Il leader ungherese ha parlato alla pancia degli elettori, ha capito il momento di incertezza e di paura e lo ha sfruttato.
Nel primo mandato, un giovane Orbán portò il Paese nella Nato e preparò l’ingresso nell’Unione europea; nel suo ultimo incarico di governo, invece, il premier ha promosso una legge restrittiva sui mezzi di comunicazione e multe salate in caso di violazioni.
Sotto la guida di Orbán dal 2010 al 2014, per di più, ci sono stati tagli al budget per l’università del 30% ma, come riporta il New York Times, sono stati trovati i fondi per sostenere due nuove istituzioni accademiche: un college (Università nazionale del servizio pubblico) per formare impiegati statali, poliziotti ecc. cioè fedeli burocrati della macchina governativa molto vicini al partito del premier, Fidesz, e una think tank di nome Veritas che, invece, ha la missione di fornire interpretazioni revisioniste della storia ungherese del ventesimo secolo, anche sul periodo di Miklós Horthy, l’autocrate al potere in Ungheria durante la seconda guerra mondiale. Per esempio, la deportazione degli ebrei sotto il regime di Horthy, nel 1941, viene descritta come una mera operazione di polizia contro gli stranieri.
Di mandato in mandato Orbán, l’uomo solo al comando, sta piegando l’Ungheria al suo volere in ogni campo perseguendo la sua visione di “democrazia illiberale”.
Antonella De Biasi, giornalista professionista freelance. Ha lavorato al settimanale La Rinascita della sinistra scrivendo di politica estera e società. Collabora con Linkiesta.it e si occupa di formazione giornalistica per ragazzi
Pubblicato martedì 24 Aprile 2018
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