L’attenzione mediatica sulla sua morte si è concentrata quasi esclusivamente e necessariamente sulla sua condizione di precario e di disoccupato, condizione purtroppo condivisa da molti giovani, e non solo. Il collegamento, anche piuttosto banale, che viene in mente inizialmente è quello con il primo articolo della Costituzione italiana, “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, quel lavoro che serve per realizzare l’individuo e lo fa partecipare direttamente alla vita economica e sociale del proprio Paese. Un diritto negato a molti.
Mi domando allora cosa significhi felicità per la generazione di Michele, cosa significhi felicità nel 2017. Tra le sue parole si percepisce la pesantezza di una vita consumata nell’insoddisfazione. Nemmeno il tentativo di rendere arte il proprio malessere ha portato risultati concreti. Cosa significa rendere arte il proprio malessere? La mancanza di felicità di Michele pare rimuovere anche le emozioni positive che si provano, magari fugacemente, nelle proprie battaglie personali, nelle piccole vittorie quotidiane. Michele non utilizza il termine “esausto”, ma “stufo”, ripetuto per ben dieci volte, enfatizzando la sua incapacità di resistere a una vita che non rispecchia le sue aspettative. Emerge la stanchezza per un mondo che sembra non volerlo, un mondo che sa dirgli solo “no” e soprattutto non lo sa capire: l’inutilità di certe domande e degli sforzi, la stanchezza per le critiche ricevute, per i colloqui di lavoro inutili, la delusione per i sentimenti e i desideri non ricambiati, l’invidia provata per chi ha ottenuto un successo, la condizione di perdente in cui si è sentito imprigionato, la costrizione a dover giustificare la propria esistenza agli altri, l’obbligo a dover rispondere alle aspettative di tutti senza soddisfare le sue, la finzione di provare interesse in alcune circostanze per lui insignificanti, le illusioni, le false promesse, l’esclusione.
Mi domando se sia mai esistita un’epoca che abbia accolto tutti e che abbia garantito la felicità, cosa sia realmente la felicità in una società che sembra aver relegato l’umanità a evento marginale, oggetto e non soggetto del sistema economico in cui la stessa vita pare perdere di significato.
La morte si è tramutata in unica soluzione rispetto alla mancanza di un futuro che possa far ottenere “il massimo”. Allora provocatoriamente domando a un interlocutore x, y o z se nella società attuale sia più dolorosa una vita senza lavoro o una vita senza felicità e quanto quest’ultima sia davvero vincolata alla prima. Domando a me stessa, non posso farne a meno, se in realtà il problema a monte sia quello di una società che ha tolto a una parte delle giovani generazioni il metodo per godere di felicità semplici, la voglia di combattere, di resistere, di cercare un’alternativa ai no, il desiderio di ricrearsi, di inventarsi, ma contemporaneamente mi rendo conto come tutto possa risultare insormontabile quando il presente e il futuro riservano solo amarezze.
La lettera di Michele in questo link: http://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2017/02/07/news/non-posso-passare-il-tempo-a-cercare-di-sopravvivere-1.14839837
Pubblicato venerdì 17 Febbraio 2017
Stampato il 06/06/2023 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/michele-si-ucciso-trentanni/