Della vita di Michele non conosco nulla, se non la lettera che ci ha lasciato e che i suoi genitori hanno condiviso attraverso la stampa locale. Non riesco a immaginarlo fisicamente. Nel silenzio della lettura posso, invece, fantasticare sulla sua voce. La sento calma e profonda, rappresentativa di quel “dentro di me c’era ordine”. Una lucidità matematica, precisa, meditata. Non si percepisce paura, anzi emerge la grande sicurezza di chi mantiene forte la propria autodeterminazione, la scelta di appartenersi e di decidersi.

L’attenzione mediatica sulla sua morte si è concentrata quasi esclusivamente e necessariamente sulla sua condizione di precario e di disoccupato, condizione purtroppo condivisa da molti giovani, e non solo. Il collegamento, anche piuttosto banale, che viene in mente inizialmente è quello con il primo articolo della Costituzione italiana, “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, quel lavoro che serve per realizzare l’individuo e lo fa partecipare direttamente alla vita economica e sociale del proprio Paese. Un diritto negato a molti.

A me dell’ultimo saluto di Michele ha, invece, colpito la dichiarazione relativa all’assenza di felicità nella sua esistenza: “il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino”, per “questa generazione [che] si vendica di un furto, il furto della felicità”.

Mi domando allora cosa significhi felicità per la generazione di Michele, cosa significhi felicità nel 2017. Tra le sue parole si percepisce la pesantezza di una vita consumata nell’insoddisfazione. Nemmeno il tentativo di rendere arte il proprio malessere ha portato risultati concreti. Cosa significa rendere arte il proprio malessere? La mancanza di felicità di Michele pare rimuovere anche le emozioni positive che si provano, magari fugacemente, nelle proprie battaglie personali, nelle piccole vittorie quotidiane. Michele non utilizza il termine “esausto”, ma “stufo”, ripetuto per ben dieci volte, enfatizzando la sua incapacità di resistere a una vita che non rispecchia le sue aspettative. Emerge la stanchezza per un mondo che sembra non volerlo, un mondo che sa dirgli solo “no” e soprattutto non lo sa capire: l’inutilità di certe domande e degli sforzi, la stanchezza per le critiche ricevute, per i colloqui di lavoro inutili, la delusione per i sentimenti e i desideri non ricambiati, l’invidia provata per chi ha ottenuto un successo, la condizione di perdente in cui si è sentito imprigionato, la costrizione a dover giustificare la propria esistenza agli altri, l’obbligo a dover rispondere alle aspettative di tutti senza soddisfare le sue, la finzione di provare interesse in alcune circostanze per lui insignificanti, le illusioni, le false promesse, l’esclusione.

I sogni di Michele si sono spesso infranti nell’assecondare le aspirazioni degli altri. Senza desideri, identità, garanzie, punti di riferimento, prospettive, la felicità non può esistere. Sembra, ma forse è proprio così, che a Michele sia stato tolto il gusto della vita, quel sapore che significa “assaggiare” di giorno in giorno esperienze nuove, diverse anche rispetto alle aspettative, ma che nutrono la curiosità, quale forza vitale, innescata dalla scoperta e dalla sperimentazione, mai secondaria rispetto ad altre esperienze. Sembra che la categoria del perdente perpetui all’infinito fallimenti e sconfitte senza possibilità di redenzione, in un mondo in cui la riuscita o lo scacco hanno più potere della vita in sé. Hai successo: meriti di vivere adeguatamente. Non hai successo: è come se tu non esistessi. La competizione eccessiva, la necessità di esibirsi e trovarsi sempre sul podio generano feticci che condizionano la scala dei valori, portando sullo stesso livello scelte per la vita o per la morte, annullandone così ogni significato intrinseco. Michele ha scelto la morte come alternativa naturale non solo alla vita, ma anche al successo.

Mi domando se sia mai esistita un’epoca che abbia accolto tutti e che abbia garantito la felicità, cosa sia realmente la felicità in una società che sembra aver relegato l’umanità a evento marginale, oggetto e non soggetto del sistema economico in cui la stessa vita pare perdere di significato.

La morte si è tramutata in unica soluzione rispetto alla mancanza di un futuro che possa far ottenere “il massimo”. Allora provocatoriamente domando a un interlocutore x, y o z se nella società attuale sia più dolorosa una vita senza lavoro o una vita senza felicità e quanto quest’ultima sia davvero vincolata alla prima. Domando a me stessa, non posso farne a meno, se in realtà il problema a monte sia quello di una società che ha tolto a una parte delle giovani generazioni il metodo per godere di felicità semplici, la voglia di combattere, di resistere, di cercare un’alternativa ai no, il desiderio di ricrearsi, di inventarsi, ma contemporaneamente mi rendo conto come tutto possa risultare insormontabile quando il presente e il futuro riservano solo amarezze.

La lettera di Michele in questo link: http://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2017/02/07/news/non-posso-passare-il-tempo-a-cercare-di-sopravvivere-1.14839837