“La guerra non è un’amabilità, ma la cosa più brutta della vita”
(L. Tolstoj, “Guerra e Pace”, vol. 3, Einaudi, Torino 1982, pag. 911)
Mentre scrivo queste riflessioni i fronti di guerra nel mondo aumentano e si incancreniscono. Secondo i dati contenuti nel Global Peace Index del 2024, ancora nel 2022, e cioè tre anni fa, i conflitti attivi nel mondo erano ben 56 [1]. Negli scorsi mesi abbiamo assistito a una nuova, spaventosa e impunita recrudescenza dell’offensiva israeliana a Gaza, accompagnata dal silenzio assordante e complice di gran parte delle cancellerie occidentali; abbiamo temuto che il riacutizzarsi del mai risolto conflitto tra India e Pakistan sfociasse in una guerra aperta tra due stati dotati, entrambi, di armi nucleari; continuiamo a venire ignorati nel nostro appello al negoziato tra Russia e Ucraina e, anzi, siamo spettatori di una sciagurata corsa al riarmo voluta dalla Commissione Europea.

Mai come oggi le parole di Papa Francesco sulla “terza guerra mondiale a pezzi” risultano tanto profetiche quanto, ahinoi, inascoltate da chi detiene le leve del potere reale.
Il senso della nostra lotta, perché di lotta si tratta, è insistere sul legame indissolubile tra pace e vita: la prima è premessa fondamentale per la seconda, che a sua volta è fondamento di tutte le libertà, siano esse individuali o collettive, sociali o civili. Ci troviamo, è vero, spesso non ascoltati e forse nemmeno adeguatamente accompagnati in questa lotta, che vede in prima linea diversi movimenti della società civile: dalle associazioni, come la nostra Anpi, ai sindacati; è una lotta che sconta le carenze della politica, incapace (o non sufficientemente volenterosa) di dare un necessario supporto alle istanze di pace affinché queste non rimangano espressione di singole prese di coscienza confinate al piano morale.

Questa lotta, tuttavia, nonostante le criticità che la accompagnano, prima fra tutte, come appena notato, l’assenza della politica, ha sin qui ottenuto risultati non scontati. Un movimento per la pace è ancora lontano dal vedere la luce, in Italia e in Europa, ma ciò che ne sta alla base, più una rete che un soggetto, ha avvicinato mondi talvolta molto lontani fra loro: la convergenza tra le realtà dell’universo associazionistico e sindacale cattolico e le omonime dell’ex area social-comunista è un processo che va continuamente rilanciato, alla luce soprattutto del nuovo pontificato di Leone XIV che si preannuncia, o almeno così sembra, più attento alle dinamiche interne, spirituali e non, della Chiesa che non alle questioni di politica internazionale e fratellanza universale del suo predecessore.

Più i mesi si susseguono e più aumenta, quindi, la necessità storica di una lotta organica, ferma e determinata per rimettere la pace al centro dell’azione politica della nostra società. Accanto a questo genere di mobilitazione e alla ricostruzione di un movimento di massa per la pace si rende tuttavia urgente porre le basi per una riflessione più ampia. La parola Pace, infatti, da sola, non basta più. Da più di tre anni ormai a essa ne abbiamo legata un’altra, antifascismo: non può esistere infatti pace senza antifascismo perché l’antifascismo, nella sua essenza emancipatoria, è premessa per la realizzazione di una società nuova, democratica e realmente libera. Furono del resto i nostri stessi partigiani, ottanta e più anni fa, a dircelo chiaramente: a chi, ai veri pacifinti che inneggiano alla “pace attraverso la forza” e che non perdono occasione per denigrare il movimento pacifista italiano, a loro è bene rispondere ricordando che i partigiani presero sì le armi in mano ma lo fecero in nome di un ideale nobile e profondamente umano, ossia la fine della guerra e dei suoi quotidiani orrori.

Quali parole, dunque, associare alla pace affinché quest’ultima non venga strattonata per la giacchetta da quei settori, formalmente progressivi ma fondamentalmente regressivi, della società e della politica interessati solo alla dogmatica “vittoria” di un sistema su di un altro? Ritengo sia arrivato il tempo per aprire, o in alcuni casi riaprire, un dibattito su termini un po’ troppo sbrigativamente categorizzati come residui di un’epoca passata. Mi riferisco ai concetti di coesistenza e di neutralità.

Coesistenza
Coesistenza significa “esistere insieme” [2]. Vivere accanto a qualcuno che, necessariamente, figurandosi come alterità, si presenta come diverso da noi ma allo stesso tempo è in relazione con noi. Alla base del processo di coesistenza, di ricostruzione di una coesistenza come pilastro per relazioni internazionali sane e finalmente democratizzate, non può che esserci il riconoscimento, implicito o esplicito, dell’esistenza di “qualcosa” o di “qualcuno” di diverso da noi e, di conseguenza, delle sue ragioni (politiche, storiche, economiche, sociali, culturali, religiose).

Negli ultimi trent’anni il mondo occidentale ha progressivamente abbandonato, o marginalizzato, quei settori di società che non hanno mai smesso di indagare la realtà con occhio critico. “L’analisi concreta della situazione concreta”, per dirla con Lenin, un principio rivoluzionario di realismo politico [3], ha via via lasciato il posto a un’irrefrenabile chiusura dogmatica: le classi dirigenti neoliberali, uscite vittoriose dallo scontro ideologico col socialismo, hanno eroso quella stessa libertà di cui si sentivano (e sentono) portavoce. Il modello neoliberale, sul piano ideologico, e il capitalismo, sul piano reale, hanno fatto tabula rasa della critica propugnando, in giro per il mondo, una semplice, ma pericolosissima, tesi dogmatica: “there’s no alternative”. Con questo assunto logico di partenza, non è difficile intuire come il processo di “mostrificazione” dell’altro in quanto altro, e cioè in quanto diverso da me, fosse di là da venire.
La crisi del 2008 ha sparigliato le carte, ribaltando la narrazione neoliberale che, nell’ultimo quindicennio, si è trovata a scontrarsi con una realtà opposta rispetto alle verità da essa proclamate. Nonostante ciò la mostrificazione continua e, come in ogni fase terminale, quando un sistema si sente in crisi irreversibile, si è fatta più aggressiva: la salomonica divisione del mondo tra “democrazie” e “autocrazie”, piattaforma di politica estera dell’ex presidente statunitense Joe Biden e di gran parte del liberalismo progressista, lo testimonia in pieno. Come è possibile, infatti, che gli stessi sostenitori della complessità della società, delle sue interconnessioni e delle sue problematiche, operino una suddivisione tanto rozza e semplicistica del mondo, della nostra casa comune?
Non mostrificare l’altro in quanto tale è il primo passo, necessario, per recuperare quella coscienza critica che ha caratterizzato il pensiero filosofico e politico occidentale; è il primo passo per salvare l’Occidente da sé stesso. A questo primo passo devono seguirne altri. Riconoscere, in primis, che, sulla Terra, unico pianeta abitabile di cui abbiamo sinora prova, i popoli sono tanti e che questi popoli hanno scelto, liberamente, ciascuno il proprio percorso di sviluppo politico, sociale, economico, culturale e religioso. Senza questo riconoscimento, che tarda ancora ad arrivare, la credibilità di quella fetta di mondo che pensa e vede sé stessa come eccezionale viene meno: è ciò che da anni ci stanno facendo capire, molto esplicitamente, gli Stati del cosiddetto “Sud del mondo” i quali, contrariamente alla nostra narrazione autoreferenziale e autoassolutoria, hanno saputo assumere posizioni autonome in merito all’evolversi dei conflitti in corso. Dimostrando, con ciò, che esiste un mondo (e forse più d’uno) capace di creare reti, legami e relazioni comuni nel rispetto della diversità reciproca, indipendentemente da essa (i BRICS ne sono l’esempio meglio strutturato e il loro recente ampliamento testimonia la vitalità di un multilateralismo concreto).

Se la coesistenza implica un riconoscimento esistenziale, ad esso deve seguire quello, non meno sostanziale, delle ragioni di chi pur esistendo insieme a noi non la pensa come noi. Questo processo è ancor più urgente oggi dinanzi ai conflitti, sempre più sanguinosi e sempre meno controllabili, che soffocano il pianeta. Le ragioni dell’altro non possono più essere eluse: le ragioni storiche della Russia nel conflitto con l’Ucraina; quelle tanto dell’India quanto del Pakistan; quelle dei diversi settori della società sudanese dilaniata da una guerra civile di cui nessuno parla più; quelle, infine, dei palestinesi in lotta per veder riconosciuto il diritto alla loro autodeterminazione e alla loro statualità negate da una sistematica operazione di pulizia etnica e da un vero e proprio regime di apartheid perpetuati da Israele.
Concretamente, significa empatizzare con l’altro e capire che, per farlo, anche le parole adottate contano. Tornare a dare un nome alle cose non significa scadere in un nominalismo astratto e fine a sé stesso; significa, piuttosto, uscire dalla logica ipocrita dei doppi standard per cui se a bombardare case ed ospedali è un nostro “nemico” allora questo è un “macellaio”, ma se invece a farlo sono i nostri alleati, quelli più simili a noi, quelli bianchi come noi, allora i morti ammazzati sono solo tristi “obiettivi collaterali” [4].

Significa, fuor di metafora, raccogliere l’invito, profetico anch’esso, di Papa Francesco che, non molti mesi fa, guidandoci attraverso le insenature del dubbio, sdoganò definitivamente il termine “genocidio” in riferimento alla guerra di sterminio che Israele sta portando avanti a Gaza e in Cisgiordania [5]. Diversi Stati di quel “Sud del mondo”, con in testa il Sud Africa, hanno denunciato Israele per genocidio alla Corte Internazionale di Giustizia, supremo organo delle Nazioni Unite deputato a dirimere le controversie fra stati. Appropriarsi del significato universale delle parole significa appropriarsi della verità che, come ricordava il greco Eschilo, in guerra è la prima vittima. Per cui non dobbiamo aver paura nell’affermare che il popolo palestinese, già vittima di uno stato di apartheid, lo è anche di un genocidio.
Neutralità
La neutralità dovrebbe essere la norma in un mondo dominato da relazioni internazionali finalmente democratizzate e quindi sane. Se la coesistenza è prassi del multilateralismo, la neutralità dovrebbe essere sua premessa. Riscoprire la neutralità significa rafforzare l’idea comune di una Pace come fine ultimo della dimensione politica internazionale. Non esistono più, oggi, infatti, le ragioni storiche che presuppongano l’abbandono della neutralità e lo schierarsi, acriticamente, in questo o quel campo politico, ideologico, sociale ed economico. Eppure, se guardiamo ai processi di sviluppo storico susseguitisi al 1991, nonostante le ragioni di cui sopra, il neoliberalismo ha agito, sul piano militare, rafforzando ed espandendo l’unico blocco rimasto in vita e cioè la Nato.
La questione della Nato è più attuale che mai. Unico blocco militare rimasto, dopo la dissoluzione del Patto di Varsavia, l’Alleanza Atlantica è stata protagonista di una spaventosa, crescente e incontrastata espansione verso est su cui ormai si spreca la letteratura, sia specialistica che divulgativa [6]. L’esistenza della Nato, la sua trasformazione in un’alleanza de facto offensiva (la svolta avvenne nel 1999 con i bombardamenti su Belgrado), ha inevitabilmente spinto gli “esclusi” a ripensare i loro legami di sicurezza. Fino a quando Paesi come la Russia non erano in grado, per debolezze strutturali interne, di elaborare un’alternativa politico-militare alla Nato, quest’ultima non ha incontrato ostacoli sul suo cammino espansionistico. Nel momento in cui, però, la Russia (e soprattutto la Cina, ora prima potenza economica globale), ha ritrovato, almeno formalmente, le forze per contrastare l’egemonia occidentale, i disequilibri post 1991 sono andati incontro agli scossoni di cui oggi, con la guerra russo-ucraina in testa, vediamo i primi effetti.
Nel 1991 si perse l’occasione storica per ripensare le relazioni di sicurezza internazionale; si perse l’occasione storica di integrare gli “sconfitti” della Guerra Fredda in un processo di modernizzazione che avrebbe dovuto portare ad uno schema di governance della sicurezza su scala globale. Quest’occasione fu persa non per le cattive intenzioni di chi aveva invece vinto la Guerra Fredda; fu persa a causa dei meccanismi intrinseci di un sistema economico, il capitalismo, che, espandendo il suo dominio globale, non poteva sopravvivere senza abbandonare la logica dell’accumulazione e la spinta egemonica, aggressiva, della sua dimensione imperialistica.

Questo ciclo, entrato in crisi nel 2008, si sta scontrando con una realtà mutata e figlia delle sue contraddizioni. L’aggressività della Nato, riflesso militare dell’aggressività dell’imperialismo, supportata a sua volta, sul piano ideologico, dall’aggressività (verbale, mediatica, culturale) delle classi dirigenti neoliberali, ha prodotto un irrigidimento (anche qui: politico, ideologico, culturale) delle e nelle società di quei Paesi che, legittimamente, si sono sentiti minacciati dal blocco atlantico. La conseguenza è sotto i nostri occhi: benché non formalmente alleati, con l’unica, parziale, eccezione dell’accordo di sicurezza reciproca siglato tra Russia e Corea del Nord nel 2024 [7], gli stati del “Sud del Mondo”, tacciati tutti, chi più chi meno, di essere autocrazie o democrazie incomplete, si stanno compattando dando vita, in quella che è stata definita “Grande Convergenza” [8], ad un’alternativa sistemica che mostra, con i suoi limiti e le sue contraddizioni, segni di dinamicità. Le organizzazioni internazionali facenti capo a questi Paesi, i Brics su tutte, mostrano, rispetto all’Occidente, una vitalità non secondaria.
Mentre l’Occidente, egemonizzato dalle élites neoliberali, dominato da un pensiero liberale che ha purgato le sue componenti critiche, riesce a creare consenso solo ed unicamente fra coloro i quali sono, o si sentono, uguali tra loro, gli stati del “sud globale” costruiscono relazioni, principalmente ma non esclusivamente commerciali, fra soggetti che esprimono, nella loro essenza costitutiva, diversità in apparenza inconciliabili. Gli stati del “Sud del mondo” mostrano, nella prassi quotidiana, di aver posto le basi per un vero, autentico, multilateralismo; per una vera, autentica, democratizzazione delle relazioni internazionali basata non sul “consenso fra uguali” ma sul “rispetto delle differenze”, sulla loro accettazione, sulla consapevolezza che esistono alterità diverse le quali, tuttavia, hanno pari dignità e pari diritti e la cui sovranità deve essere quindi parimenti rispettata.
Parlare di neutralità, oggi, significa quindi parlare a noi stessi, alla coscienza di un Occidente entrato in una preoccupante crisi organica di cui iniziano a vedersi i primi, inquietanti, aspetti collaterali (l’ascesa incontrastata delle nuove destre in tutti i Paesi del blocco occidentale è forse il segnale più allarmante di questa crisi organica). Neutralità non significa opportunismo: chi è neutrale non sceglie di non schierarsi; sceglie, invece, di schierarsi per il mantenimento della pace, per la risoluzione dei conflitti, per essere ragionevole punto d’incontro tra avversari e nemici entrati in rotta di collisione.

È difficile, sotto l’offensiva dell’apparato dell’industria mediatica, schierata quasi unilateralmente per la guerra, parlare in modo forte e coeso di neutralità e di coesistenza. Penso però che sia necessario perché abbiamo dinanzi a noi il compito storico di impedire lo scoppio di recrudescenze ancora maggiori. Gli strumenti di cui disponiamo sono, attualmente, limitati. Non esiste, ancora, un movimento di massa per la pace: esistono tante individualità, tante realtà, tante reti, anche locali, che esprimono un bisogno di pace; ma queste, nonostante gli sforzi di soggetti come la Rete Pace e Disarmo, soggetti che debbono continuamente essere sostenuti da tutti noi, agiscono ancora in modi e forme tali da esprimere una importante, veemente, critica alla guerra, tuttavia limitata alla dimensione morale.

Serve invece un movimento pacifista che esprima, con la stessa veemenza, una critica politica alla guerra; un movimento che, ricalcando quello dei Partigiani della Pace degli Anni 50, si ponga come obiettivo “non implorare la pace ai fautori di guerra, ma costringerli ad accettarla” [9]. Occorre quindi una critica che muova dalle ragioni profonde che hanno prodotto la “terza guerra mondiale a pezzi” da cui siamo circondati; una critica politica che, sulle orme di Papa Francesco, profetico anche e soprattutto nella sua ultima benedizione Urbi et Orbi, insista sulla dialettica Pace-disarmo [10] a cui noi uniamo, come scritto in apertura, quella di Pace-antifascismo.

La storia ha mostrato che ogni corsa al riarmo, in nome di un concetto astratto di sicurezza, ha portato l’umanità verso il disastro: la proliferazione di armamenti ha posto le premesse per guerre sempre più devastanti e offerto terreno fertile per la maturazione di nazionalismi sempre più violenti. È fondamentale, è nostro dovere oggi, lottare contro la logica e contro la politica di riarmo voluta dall’Unione Europea; al tempo stesso diventa imprescindibile, come ho cercato di abbozzare in queste note, costruire una politica della coesistenza e della neutralità: una piattaforma programmatica solida, chiara ed efficace, comprensibile a tutta la società e non solo a quei settori più avanzati che, per sensibilità religiosa, morale o sociale, lottano da anni per impedire che il nostro mondo precipiti nel baratro di un nuovo, devastante, apocalittico perché nucleare, conflitto mondiale.
Cristiano Poluzzi, referente Pace per la segreteria provinciale ANPI Bergamo
NOTE
[1] Global Peace Index 2024, pag. 50. Il rapporto è consultabile e scaricabile qui: Global Peace Index – Institute for Economics & Peace.
[2] Cfr. Coesistenza – Significato ed etimologia – Vocabolario – Treccani
[3] Cfr. G. Lukàcs, Lenin, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 147-149.
[4] Questa l’espressione utilizzata, nel tg della sera, dal direttore de La7 Enrico Mentana lo scorso 15 maggio nel descrivere l’escalation israeliana nella Striscia di Gaza.
[5] Cfr. Gaza e il «genocidio»: le parole del Papa, la risposta di Israele. Queste le parole esatte scritte dal papa: “A detta di alcuni esperti, ciò che sta accadendo a Gaza ha le caratteristiche di un genocidio. Bisognerebbe indagare con attenzione per determinare se s’inquadra nella definizione tecnica formulata da giuristi e organismi internazionali”.
[6] È notizia freschissima la pubblicazione di un articolo del New York Times che, analizzando la recente militarizzazione del confine tra Finlandia e Russia, ammette come l’espansione della NATO a Est abbia contribuito a causare l’invasione russa dell’Ucraina.
[7] Cfr. KCNA releases text of comprehensive strategic partnership treaty with Russia – Russian Politics & Diplomacy – TASS (data ultima consultazione sito web: Maggio 2025).
[8] Cfr. S. G. Azzarà, La Grande Convergenza e il revival del colonialismo occidentale, in “Materialismo Storico, 1/2023 (vol. XIV)”, pp. 310-326. in particolare cfr: “alla fine del 2021, gli equilibri mondiali sono molto diversi da quelli dei primi anni Novanta e una parte considerevole del mondo che un tempo era succube del colonialismo e dell’egemonia occidentale, la Cina in primis, è oggi padrona di sé e protagonista di una crescita senza precedenti”, in ivi, pag. 319. Il corsivo è nel testo.
[9] G. Boffa, Storia dell’Unione Sovietica. 1945-1964, L’Unità, Roma 1990, p. 136.
[10] Cfr. “Urbi et Orbi” – Pasqua 2025, Papa Francesco. Questo, in particolare, il passaggio sul disarmo: “Nessuna pace è possibile senza un vero disarmo! L’esigenza che ogni popolo ha di provvedere alla propria difesa non può trasformarsi in una corsa generale al riarmo. La luce della Pasqua ci sprona ad abbattere le barriere che creano divisioni e sono gravide di conseguenze politiche ed economiche. Ci sprona a prenderci cura gli uni degli altri, ad accrescere la solidarietà reciproca, ad adoperarci per favorire lo sviluppo integrale di ogni persona umana”.
Pubblicato venerdì 6 Giugno 2025
Stampato il 07/06/2025 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/pace-coesistenza-neutralita-unaltra-strada-e-possibile/