Lo scatto storico dopo la strage. Cerchiato il volto di Toffaloni

Uno dei due processi ai presunti esecutori della strage di Piazza Loggia del 28 maggio 1974 è giunto al suo epilogo. L’allora sedicenne Marco Toffaloni, oggi divenuto cittadino svizzero con il nome di Franco Maria Muller, è stato condannato alla massima pena applicabile, trent’anni di carcere, in quanto ritenuto uno degli esecutori di quel vile e tragico gesto, ma da minorenne. Non crediamo opportuno, in questa sede, esaminare gli elementi indiziari che hanno portato a una dichiarazione di responsabilità dell’imputato, se non per sottolineare che il Tribunale per i Minorenni di Brescia sembra avere dato piena credibilità all’immagine fotografica che ritrae una persona, identificandolo nell’allora sedicenne Marco Toffaloni, come presente in Piazza Loggia a Brescia pochi minuti dopo l’esplosione del micidiale ordigno.

Brescia, due anni dopo Piazza Loggia un altro ordigno dell’estrema destra in Piazza Arnaldo uccise una persona e ne ferì altre 11 (Archivio fotografico Anpi nazionale)

Riteniamo invece necessario sottolineare quale valore abbia l’odierna pronuncia giudiziaria rispetto al contesto organizzativo che operò nella preparazione ed esecuzione dell’attentato criminale; a coloro che vi parteciparono attivamente; a coloro che da subito ebbero il compito di effettuare le indagini; e infine a coloro che operarono perché quelle indagini non procedessero da subito nella giusta direzione, che invece pare fosse piuttosto chiara a chi aveva il compito di accertare i fatti, come oggi sta emergendo. Nel dire ciò non si può trascurare il fatto che, nel contempo, dinanzi la Corte d’Assise di Brescia, è in corso un processo parallelo, e cioè attinente lo stesso fatto e le stesse ipotesi di reato a carico di un presunto sodale di Toffaloni, anch’egli originario di Verona; anch’egli appartenente ai ranghi di Ordine Nuovo; anch’egli accusato di avere concorso nell’esecuzione dell’attentato; anch’egli da tempo espatriato all’estero, acquisendo la cittadinanza del Paese che lo ospita, senza una apparente seria ragione.

Una scritta di Ordine Nuovo (Archivio fotografico Anpi nazionale)

Il parallelismo delle circostanze or ora citate non costituisce solamente un fatto rafforzativo della fondatezza della pista investigativa che ha portato all’accusa contestuale nei confronti di due soggetti oggi sotto processo, Marco Toffaloni e Roberto Zorzi, ma corrobora ulteriormente il dato, insieme storico e politico, del ruolo operativo ed esecutivo che, nella stagione delle stragi, ebbe il gruppo neofascista di Ordine Nuovo; una organizzazione nata da una scissione a destra del Movimento Sociale Italiano di Michelini che conquistò il credito dei vertici di allora delle Forze Armate, ancora dominato da un corpo di ufficiali formatosi in periodo di regime fascista e bellico, ma specialmente legatisi nel dopoguerra, ai comandi militari NATO, ossessionati dalla Guerra fredda e dal timore di un’invasione dell’Europa Occidentale da parte del Patto di Varsavia.

Tale ossessione, che si alimentava con la totale avversione non solo al comunismo, ma anche a ogni movimento politico progressista e di sinistra che sconvolgesse certi equilibri politici nel mondo occidentale, diede luogo a una letale intesa tra i vertici militari, italiani e statunitensi, con coloro che più pervicacemente predicavano l’avversione alle politiche di sinistra; e cioè i fascisti.

(Archivio fotografico Anpi nazionale)

Quella convergenza di interessi tra militari, con i relativi servizi di informazione, e le formazioni oltranziste di destra diede vita a una strategia di opposizione alla crescente democratizzazione del Paese che andò nota con “strategia della tensione” e che procurò numerose latti e tragedie al popolo italiano, avendo come obiettivo lo stravolgimento delle costituzioni democratiche in senso autoritario e l’abrogazione della stessa Costituzione, nata dalla volontà delle forze politiche che avevano partecipato alla Resistenza e alla liberazione dal nazifascismo. Ciò non comportò comunque una rottura assoluta dei rapporti tra gruppi di destra estrema, come appunto Ordine Nuovo e il partito nostalgico del regime fascista presente in Parlamento. Infatti il capo carismatico di O.N., Giuseppe Umberto Rauti, detto Pino, nel 1969 rientrò nel MSI e ne divenne dirigente, ma non troncò mai i rapporti con coloro che erano rimasti in quella organizzazione, e che spesso rivestivano anche ruoli di rilievo nel partito suddetto, e venivano perfino candidati per lo stesso in occasione di elezioni politiche e amministrative.

(Archivio fotografico Anpi nazionale)

Ma quella ancora e profonda alleanza con gli apparati militari condizionò pure l’operato di coloro che avrebbero dovuto indagare e scoprire quelle trame, quegli atti criminali ed efferati, nonché i loro autori. Sì, perché, nel parallelo processo a Roberto Zorzi, è emerso con chiarezza che l’Arma dei Carabinieri, e forse anche le Questure interessate alle indagini, fin da subito diressero la loro lente investigativa su Ordine Nuovo di Verona, ma che quelle indagini vennero altrettanto tempestivamente depistate da chi, a Brescia, conduceva le indagini, fabbricando letteralmente degli alibi a Zorzi e a chi avrebbe con lui collaborato, o comunque cercando di cancellare accuratamente ogni elemento investigativo che conduceva in quella direzione.

Questi fatti, emersi nelle recentissime vicende processuali, destano inquietudine sulla fedeltà di pluridecorati e riconosciuti servitori dello Stato, la cui brillante carriera, come nel caso del defunto ex capitano (poi anche generale) Delfino, appare macchiata da incommensurabili e inaccettabili coperture dei terroristi neofascisti autori della strage, che era suo dovere indagare e perseguire.

Piazza Loggia un istante dopo l’esposione

Ma anche un altro fatto, che sta rivelandosi sempre più, desta sdegno e preoccupazione. È del tutto evidente che una strategia terroristica di così largo raggio doveva fondarsi non solo su solide coperture, ma anche su organizzazioni ben articolate e fornite di risorse, quali armi ed esplosivi, nonché di finanziamenti. Ebbene, il decorso di tanti anni ha fatto sì che molti soggetti che oggi potrebbero essere sul banco degli imputati, sono oggi dispersi, irreperibili o deceduti. La strage di Piazza Loggia, per la sua chiara ispirazione (colpì una manifestazione antifascista) e per il periodo storico in cui accadde non poteva essere un fatto architettato da pochi terroristi improvvisati, magari privi di contatti esterni e appartenenti a gruppi locali, anche se i numerosi depistaggi intervenuti hanno cercato di accreditare quella falsa e riduttiva ipotesi.

Alla luce di tutto quanto precedentemente considerato, possiamo certamente affermare di avere, dopo ben 50 e passa anni, un ulteriore e significativo squarcio di verità processuale e anche storica. Abbiamo conferme di un faticoso cammino, ripreso coraggiosamente oltre 30 anni fa per merito della opinione democratica e della magistratura bresciane, e che si è articolato nella ricerca degli organizzatori prima, e degli esecutori poi.

(Archivio fotografico Anpi nazionale)

Resta tuttavia l’amarezza del fatto che, a causa di ostacoli, depistaggi, reticenze e ambiguità, organi importanti dello Stato non abbiano positivamente e tempestivamente collaborato, come era loro stretto dovere, per individuare (e ciò sarebbe stato possibile da subito) la traccia da seguire per individuare e perseguire i terroristi neri e i loro mandanti. Resta anche il rammarico di avere potuto perseguire, solo grazie a magistrati scrupolosi e fedeli alla loro funzione, solo qualcheduno dei presumibili numerosi personaggi che hanno partecipato al criminale gesto, sia perché deceduti o perché troppo frettolosamente assolti. Resta infine l’imbarazzante (per lo Stato) interrogativo di non avere fatto sufficiente luce sulle menti politiche di quella stagione di efferati delitti, rivolti contro la popolazione ignara e inerme.

(Archivio fotografico Anpi nazionale)

Infatti, vi sono elementi per potere ritenere che tutti quegli atti siano stati effetto di una regia politica molto vicina alle istituzioni principali della Repubblica e che vi fossero implicati anche personaggi nei quali l’attuale partito di maggioranza perfino si riconosce, come Pino Rauti. E tutto ciò è confermato dal fatto che in quegli ambienti non solo si fatica a riconoscere le responsabilità degli organizzatori ed esecutori, ma si fatica altresì a richiamarsi alla Costituzione repubblicana e ai valori dell’antifascismo, quale baluardo contro ogni tentazione antidemocratica e autoritaria.

Pietro Garbarino, avvocato cassazionista, iscritto Anpi, sezione Caduti di Piazza Rovetta, socio di Libertà e Giustizia, legale di parte civile nei processi celebrati per la strage di Brescia, e autore con Saverio Ferrari del libro “Piazza della Loggia cinquant’anni dopo”