Dal 12 al 28 giugno l’Anpi darà vita a quella che abbiamo chiamato la “staffetta partigiana per un’altra Europa”. Questo percorso ideale inizierà da Ventotene e si concluderà a Trieste, nella Casa degli Sloveni, passando per Predappio, Acerra, Ragusa, Milano, Fondotoce, Fermo, Venezia Mestre, Pontremoli. In ciascuno di questi luoghi si darà vita a eventi in cui si presenterà un lungo “appello per più Europa, un’altra Europa”, che mettiamo a disposizione di forze sociali, associazioni, sindacati, per contribuire a costruire un’idea condivisa di Europa, da proporre poi alle forze politiche e alle istituzioni.
Abbiamo deciso di dar vita a questa iniziativa per tre ragioni: 1) l’attuale Unione Europea sta fallendo la sua missione storica naufragando in una impressionante deriva bellicista e in una nuova e grande crisi economico sociale, mentre soffre di un clamoroso deficit di democrazia e di diritti. 2) la risposta a questo fallimento non può essere il ritorno agli Stati nazionali sia perché, in particolare nel tempo che stiamo attraversando, si rinfocolerebbero fenomeni di natura nazionalistica, sia perché nel mondo attuale così profondamente cambiato i singoli Paesi europei manifesterebbero un’intrinseca debolezza davanti alle grandi potenze economiche, dagli Stati Uniti alla Cina, dall’India alla stessa Russia. 3) le destre estreme stanno conquistando sempre maggiori consensi nei Paesi europei, sono al governo in diverse realtà, minacciano le fondamenta dello Stato democratico e mettono in discussione l’idea stessa di Europa unita a partire dal Manifesto di Ventotene.
Aggiungo a queste ragioni l’energia di un continente che, pur così contraddittorio e articolato, è portatore di una storia complessa che, se da un lato è la storia del colonialismo e dei fascismi, dall’altro ha sempre espresso un originale sviluppo delle forze produttive, della cultura, dell’arte, della scienza, dei commerci.
Staffetta dunque. Ma perché partigiana? Perché l’Unione Europea deve ritrovare le radici antifasciste e antinaziste da cui è nata e che sembrano smarrite e nella cui assenza crescono i movimenti e i partiti di destra radicale. È in corso da tempo una impressionante rilettura della storia; basti pensare che in tanti Paesi dell’est si riabilitano le waffen-ss nazionali, cioè i collaborazionisti, mentre si distruggono i monumenti alla Resistenza. Né sembra attenuarsi l’ondata di destra; è di pochi giorni fa in Polonia l’elezione del presidente sovranista Nawrocki. C’è di fatto un’internazionale di destra incardinata in Europa su di una lunga tradizione di autoritarismo, cesarismo se non di fascismo e nazismo, e nelle Americhe su di una visione più tecnologica, commerciale e di liberismo portato alle conseguenze più estreme: Trump negli USA e Milei in Argentina. Questa internazionale è accomunata dal disprezzo dello Stato di diritto e delle istituzioni internazionali. Si tratta di un mix letale sta già portando a grandi cambiamenti – in negativo – davanti alla pacifica offensiva dei Paesi cosiddetti Brics per nuove e più eque ragioni di scambio internazionali.

Perché va avanti questa offensiva di destra? Mi pare che in Europa il suo terreno di coltura sia stato e sia la cosiddetta crisi della democrazia liberale che a ben vedere è crisi nella democrazia liberale. Una grande riforma dell’UE deve partire da questo: le democrazie liberali sono in crisi perché hanno via via ristretto la loro stessa natura democratica apparendo come oligarchie senza controllo, magari al servizio del capitale finanziario; per questo non basta operare di rimessa e neppure rivendicare in astratto la superiorità della forma democratica di governo; l’unica linea di difesa possibile e vincente è allargare gli spazi democratici, rispondere ai bisogni popolari, espandere la democrazia reale in ogni direzione e in ogni forma, dall’area dei diritti civili a quella dei diritti sociali, profondamente conculcati in particolare negli ultimi 15 anni e oggi messi in radicale discussione dalle immani spese per armamenti che porteranno (stanno già portando) a una economia di guerra e forse alla guerra vera e propria, una nuova guerra mondiale. Una spaventosa pazzia.
Insomma, l’Europa della democrazia non può che essere l’Europa dei popoli.

Occorre avere la visione di un’Europa federale e di una Costituzione europea. Ma immaginare la realizzazione a breve o anche a medio termine di questa prospettiva è illusorio e pericoloso, sia per la crescente presenza al governo o all’opposizione di forze di estrema destra, che condizionerebbero questo percorso nella direzione di un’Europa fortezza e degli Stati nazionali, sia perché persistono ancora grandissime diversità nelle storie e nelle vicende dei popoli dei Paesi d’Europa. Dunque il primo compito è operare per far maturare, per quanto possibile, una coscienza europea di massa, popolare, diffusa, quotidiana. Oggi disgraziatamente non è così, basti pensare al tasso di astensione alle elezioni europee: in Italia ha superato il 50% degli aventi diritto; né si opera, al di là di specifiche vicende, per allargare sul serio la partecipazione popolare. È emblematico il caso delle sanzioni alla Russia, dell’invio di armi all’Ucraina, del riarmo generalizzato in corso (per di più da parte dei singoli Stati): scelte politiche fondamentali per il futuro economico-sociale del continente e per la sicurezza dei cittadini, operate senza mai coinvolgere in alcun modo i popoli europei.
Il nocciolo della questione è questo: oggi con qualche rara eccezione l’opinione pubblica e la sfera di dibattito pubblico europeo si riduce a una élite, una nicchia o – se si vuole – un’avanguardia. Questo – sia chiaro – è assolutamente necessario, ma anche del tutto insufficiente.

Vanno indagate le ragioni della deriva della democrazia in Europa, e cioè se si tratta di una mutazione avvenuta negli ultimi anni, in particolare dopo l’invasione russa dell’Ucraina, oppure dopo la prima crisi, quella del 2008, causata dall’esplosione della bolla dei mutui americani Subprime, che causò le scelte di austerità dell’Unione Europea con le note vicende del pareggio in bilancio, del tracollo della Grecia e delle grandi difficoltà in tanti altri Paesi a cominciare dall’Italia, oppure ancora dalla nascita dell’Europa di Maastricht. A me pare che l’insieme di questi fattori abbia inciso, a fronte di un sistema economico sociale che è portatore (in)sano di diseguaglianze abnormi in particolare in fase di crisi. Parlo del sistema economico sociale liberista.
La domanda è il che fare. Ci siamo proposti quattro direzioni di marcia.
La prima è la pace, che congiunge idealmente le ragioni del Manifesto di Ventotene con il testo costituzionale che, com’è noto, recita che l’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Questo richiede un cambiamento radicale di linea rispetto sia alla guerra in Ucraina che alla tragedia di Gaza. Qui si misura plasticamente il cosiddetto doppio standard dell’UE, laddove ai bellicosi comportamenti nei confronti della Russia si contrappone l’estrema tolleranza, che, in alcuni casi come in Italia, deborda in complicità nei confronti del governo israeliano. L’obiettivo è avviare un percorso di diplomazia e negoziato che porti alla cessazione delle ostilità in Ucraina, al disarmo progressivo, a una conferenza di pace che garantisca la reciproca sicurezza della Russia e dei Paesi confinanti, e, d’altra parte, alla richiesta univoca della cessazione immediata del massacro a Gaza, della cessazione della occupazione progressiva della Cisgiordania, dell’interdizione del commercio di armi fra Paesi UE e Israele, della sospensione dell’accordo commerciale di libero scambio UE Israele del 2000, del pieno riconoscimento dello Stato di Palestina.
Per questo nelle “tappe” della staffetta abbiamo inserito la marcia Marzabotto-Monte Sole del 15 giugno dal titolo Save Gaza. L’Europa attuale, quella dei doppi standard, sempre più isolata su scala mondiale, si dia finalmente una mossa.
La seconda direzione di marcia è la democrazia, oggi svilita da un’architettura istituzionale che premia il Consiglio europeo (cioè la riunione dei capi di Stato e di governo), punisce l’Europarlamento, che ha ben pochi poteri, valorizza oltre modo il presidente della Commissione, cioè la signora Ursula von der Leyen. Va capovolto lo schema, restituendo al parlamento la sostanza del potere legislativo e rivedendo l’intera struttura di poteri negli organismi UE, come base di un futuro governo federale dove ci sia un ministro degli esteri e della difesa frutto di un percorso democratico.

La terza direzione di marcia è il lavoro e il welfare, a maggior ragione oggi, davanti alla politica dei dazi voluta dal volubile Trump. Questo vuol dire molte cose: tutela dei salari e dei diritti dei lavoratori, difesa della sanità e della scuola pubblica; assieme, occorre promuovere investimenti per la ricerca e sviluppo a cominciare dall’intelligenza artificiale e dalla difesa dell’ambiente. Da un lato è bene superare le barriere ancora esistenti nel mercato comune europeo, dall’altro bisogna acquisire nuovi mercati, senza politiche predatorie, guardando ad est, l’Asia, a sud, l’Africa, a ovest, l’America Latina.
La quarta direzione di marcia sono i diritti: diritti sociali, civili ed umani che sono oggi obiettivamente sotto attacco. Basti pensare al pacchetto sicurezza approvato pochi giorni fa in Italia, ai provvedimenti repressivi in Ungheria. Ma più in generale si sta scivolando su di una china pericolosa; pochi giorni fa una parlamentare tedesca è stata espulsa dall’Aula perché portava una maglietta con la scritta Palestina, per non parlare della repressione o dei divieti per le manifestazioni filopalestinesi in diversi Paesi europei.
E ancora, a proposito di diritti, non si può nascondere la visione miope dell’UE sulla questione dei migranti. Certo, la vicenda è complessa, ma non si può non prendere atto che a oggi hanno prevalso le spinte nazionalistiche e una mentalità che riduce tutto a un problema di sicurezza e non a una risorsa. È un tema proprio del rispetto dei diritti umani, per di più da parte del continente che ha inventato e praticato per secoli la colonizzazione; né si possono dimenticare le aggressioni di Paesi UE, spesso sotto l’ombrello NATO, in Afghanistan, in Iraq, in Libia, in Siria con conseguenze catastrofiche che hanno contribuito in modo determinante al fenomeno di un’emigrazione disperata. Ma non si tratta solo di questo. L’UE è il continente con l’età media più alta e l’Italia uno dei Paesi più vecchi del mondo; l’immigrazione può essere una risorsa, forse l’unica risorsa, per consentire all’Europa di conservare un ruolo significativo nella divisione internazionale del lavoro.

Inizieremo da Ventotene e termineremo alla Casa degli Sloveni, il Narodni Dom a Trieste, luoghi, entrambi, dalla fortissima carica simbolica, per un’Europa, come si legge sul Manifesto di Spinelli, Rossi e Colorni, che “dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita”, ovvero in cui “le forze economiche non devono dominare gli uomini, ma essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale”. Il Narodni Dom fu dato alle fiamme dai fascisti il 13 luglio 1920. Mai più discriminazioni delle minoranze, mai più guerre d’invasione. Non l’Europa degli Stati e neppure l’Europa del mercato, ma l’Europa dei popoli. Democrazie e diritti, e con loro pace e lavoro. Questa è l’Europa che vogliamo.
Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale Anpi
Pubblicato sabato 7 Giugno 2025
Stampato il 21/06/2025 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/idee/editoriali/una-staffetta-partigiana-per-uneuropa-dei-popoli/