lL presidente del Consiglio, Giogia Meloni (Imagoeconomica, via governo)

Rivendica il premierato Giorgia, “La riforma l’ho voluta io”, e ha già fatto tornare di moda nella politica italiana e sulla stampa l’espressione “pieni poteri”. Una locuzione un tantinello inquietante a dire la verità, utilizzata in tempi relativamente recenti anche da Matteo Salvini nei giorni precedenti la nascita del governo Conte II.

“Chiedo agli italiani, se ne hanno voglia, di darmi pieni poteri per fare quello che abbiamo promesso di fare fino in fondo senza rallentamenti e senza palle al piede”, aveva infatti detto il 9 agosto 2019 l’allora ministro dell’Interno a Pescara.

Matteo Salvini in una foto pubblicata sul suo profilo Facebook, con un fungo velenoso in riferimento al governo Conte II, di cui non farà parte né lui nè la Lega

Ben prima di Giorgia (è lei che ci ha chiesto di chiamarla solo così) e ben prima di Matteo Salvini, qualcun altro aveva utilizzato questa espressione.

E qualcun altro aveva detto no!

Il 16 novembre 1922 Benito Mussolini pronuncia quello che passerà alla storia come “il discorso del bivacco”. È il primo tenuto dal duce in veste di presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia.

Mussolini alla Camera, “Il discorso del bivacco” è il primo discorso tenuto in veste di presidente del Consiglio del Regno d’Italia

“Signori – dichiara – quello che io compio oggi, in questa Aula, è un atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza. (…) Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non ci abbandona dopo la vittoria. Con 300 mila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto”.

È proprio nel “Discorso del bivacco” che compare l’espressione “pieni poteri”, usata dal duce verso la fine del suo intervento.

“Chiediamo i pieni poteri – diceva – perché vogliamo assumere le piene responsabilità. Senza i pieni poteri voi sapete benissimo che non si farebbe una lira, dico una lira, di economia. Con ciò non intendiamo escludere la possibilità di volonterose collaborazioni che accetteremo cordialmente, partano esse da deputati, da senatori o da singoli cittadini competenti. Abbiamo ognuno di noi il senso religioso del nostro difficile compito. Il Paese ci conforta ed attende. Non gli daremo ulteriori parole, ma fatti. Prendiamo impegno formale e solenne di risanare il bilancio e lo risaneremo. Vogliamo fare una politica estera di pace ma nel contempo di dignità e di fermezza: e la faremo. Ci siamo proposti di dare una disciplina alla Nazione e la daremo. Nessuno degli avversari di ieri, di oggi, di domani si illuda sulla brevità del nostro passaggio al potere”.

Il 15 dicembre 1922 la legge n. 1601, Delegazione di pieni poteri al Governo del Re per il riordinamento del sistema tributario e della pubblica amministrazione, viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale.

“Per riordinare il sistema tributario allo scopo di semplificarlo – recita l’art. 1 non riportando però la locuzione – di adeguarlo alle necessità del bilancio e di meglio distribuire il carico delle imposte; per ridurre le funzioni dello Stato, riorganizzare i pubblici uffici ed istituti, renderne più agili le funzioni e diminuire le spese, il Governo del Re ha, fino al 31 dicembre 1923, facoltà di emanare disposizioni aventi vigore di legge”.

I socialisti unitari esprimeranno nettamente la loro completa avversione al disegno di legge e a difendere la linea del Partito saranno chiamati Giacomo Matteotti e Bruno Buozzi.

Giacomo Matteotti e Bruno Buozzi

L’intervento del Segretario della Fiom è previsto per il 25 novembre. La discussione generale precipita e per Buozzi non rimane più il tempo di intervenire se non in sede di svolgimento degli ordini del giorno, ovvero quando, in base al regolamento della Camera, non era consentito parlare per più di venti minuti.

Buozzi prende la parola e parla per quasi un’ora affrontando ventotto interruzioni, quindici delle quali fatte da Mussolini.

La milizia fascista a guardia del Parlamento, siamo nel febbraio 1923

 

“C’è una sola dittatura necessaria in Italia, onorevole Mussolini – dice Buozzi – la vostra sui fascisti, per indurli alla disciplina. E voi non dovete cercare di indorare questa dittatura come una pillola, con i pieni poteri che ci chiedete. Io sono fra quelli che credono, salvo complicazioni internazionali, al superamento relativamente sollecito dell’attuale crisi finanziaria e senza provvedimenti di eccezione. Desiderosi quindi che non si esagerasse né nel prospettare la nostra situazione né nell’enunciare miracoli. I bilanci non sono squadre di azione. Si tratta di materia nella quale non bastano le affermazioni e gli ordini”.

Bruno Buozzi, deputato del partito socialista e segretario della Fiom

Gli farà eco Giacomo Matteotti: “Quanto ai pieni poteri tributari, noi non conosciamo alcun parlamento che in regime costituzionale li abbia concessi, poiché essi formano la prima e fondamentale prerogativa senza la quale un parlamento non esiste”.

I pieni poteri saranno dal duce poi davvero realizzati tra il 1925 e il 1926 attraverso le celebri “leggi fascistissime”. Il presidente del Consiglio diventa capo del governo. Vengono sciolti i consigli comunali e provinciali,  ai rappresentanti di nomina elettiva vengono sostituiti funzionari nominati direttamente dal governo, i podestà. Si consolida il controllo su stampa e mezzi d’informazione. Nasce il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Si ordina lo scioglimento di tutte le organizzazioni politiche e sindacali considerate sovversive. Viene reintrodotta la pena di morte. Si istituisce il confino per reati politici. È vietato lo sciopero. Gli oppositori vengono messi a tacere con ogni mezzo o costretti all’espatrio.

Roma, 13 giugno 1924, il sindacalista e parlamentare Bruno Buozzi reca l’omaggio della CGdL a Giacomo Matteotti sul luogo del rapimento

E Giacomo Matteotti e Bruno Buozzi saranno entrambi uccisi – a venti anni di distanza l’uno dall’altro – dal regime. Un secolo esatto è trascorso dall’omicidio del deputato socialista e in questo 2024 ricorrerà anche l’80° della morte del sindacalista, ammazzato il 4 giugno a Roma, nell’eccidio de La Storta.

Ma la speranza non si uccide.

Si spegne il fuoco, rimane la scintilla.

La tomba di Bruno Buozzi al cimitero del Verano a Roma

“Il fascismo – scriveva Buozzi nel 1930 – rappresenta nella vita nazionale dell’Italia un episodio doloroso: i segni della riscossa e della liberazione sono già ripetuti e frequenti. L’esperienza fascista, soprattutto in campo operaio, costituisce una ingiustizia atroce, un passo all’indietro, la perdita di anni preziosi. Ma nel popolo italiano, sobrio e lavoratore, tenace e paziente, si registra una forza vitale così meravigliosa, una energia così sincera e così sicura che i lavoratori d’Italia, quando si saranno liberati dal fascismo, sapranno recuperare in fretta gli anni perduti. E di questa parentesi umiliante nella sua violenza e nella sua brutalità gli italiani avranno allora avuto un solo beneficio: la ferma convinzione che la libertà è una condizione necessaria per qualsiasi elevazione delle masse, e che in questo consiste il bene supremo; un bene, però, da conquistare e difendere ogni giorno”.

Oggi come ieri.

Ilaria Romeo, responsabile Archivio storico Cgil nazionale