
La parola d’ordine è sempre la stessa, ripetuta come un mantra che deve entrare nella pelle del Paese: remigrazione. L’hanno srotolata su striscioni di quattordici metri davanti al Castello di San Giorgio a Mantova; l’hanno gridata in piazza Kennedy ad Avellino, dove tre militanti sono stati denunciati mentre, secondo il loro racconto, gli spacciatori continuavano indisturbati; l’hanno portata ad Ancona, sotto la contestazione degli antifascisti; a Trieste come simbolo della “prima tappa in Friuli”; a Verona come “prova della strada giusta”; a Brescia come data simbolica per il varo del progetto nazionale; ad Anzio in provincia di Roma, a Lavinio Stazione nel cuore di un quartiere che diventa il manifesto della narrazione identitaria.
Tutte queste attività fanno capo al Comitato Remigrazione e Riconquista, nato come iniziativa congiunta di quattro realtà fondatrici: CasaPound Italia, Rete dei Patrioti, Veneto Fronte Skinheads e Brescia ai Bresciani, gruppi storicamente divisi da rivalità territoriali, ora accomunati dalla volontà dichiarata di tradurre in azione concreta la proposta programmatica sulla remigrazione e di “porre un argine deciso all’immigrazione incontrollata”, fenomeno che secondo loro minaccia la coesione sociale e la sopravvivenza stessa dei popoli europei. Una campagna sincronizzata, calibrata, ripetuta città dopo città, come un rosario laico che cerca di convincere gli italiani che il declino abbia un solo volto: quello dello straniero. E la soluzione è una sola: farlo tornare indietro.
A rendere tutto più esplicito è la promessa che attraversa ogni comunicato del Comitato Remigrazione e Riconquista: non più solo protesta, ma una legge di iniziativa popolare per introdurre un rimpatrio sistematico, esteso, organizzato. Una versione italiana, più grezza, più ideologica, dei discorsi sul “mass deportation” che negli Stati Uniti Donald Trump ha riportato nel centro del dibattito politico; una declinazione casalinga dell’idea che la stabilità interna passi da un gigantesco trasferimento di popolazioni, qualcosa che ricorda più operazioni da Stato autoritario che politiche migratorie occidentali.

In questa Italia, il modello non è la gestione ordinaria, ma il gesto plateale, muscolare, quello che trasforma milioni di persone in un problema aritmetico: si sottraggono e via. Il governo Meloni, pur senza proporre espulsioni di massa, ha contribuito a ridefinire l’immaginario politico sull’immigrazione.

Il CPR in Albania ne è il simbolo più evidente: uno specchio della deriva della destra radicale italiana, in cui la teoria della “remigrazione” diventa pratica coercitiva, spostata in luoghi lontani dallo sguardo pubblico e dove i diritti dei migranti risultano più vulnerabili. Quella struttura funziona come un laboratorio politico: uno spazio in cui la retorica dell’espulsione di massa, agitata per anni nelle periferie italiane trova una sua prima applicazione concreta. Non risolve i problemi, ma marginalizza le persone, normalizzando l’idea che la forza e la detenzione siano strumenti ordinari di governo. Ed è così che la pressione ideologica, presentata come “sicurezza”, finisce per ridefinire il concetto stesso di legalità nel Paese.

Il terreno è fertile, perché negli ultimi anni il dibattito pubblico si è spostato sempre più a destra. La remigrazione nasce proprio in questo interstizio: nella zona in cui la destra istituzionale normalizza l’idea che l’immigrazione sia un’emergenza permanente, e la destra radicale offre la soluzione estrema da applicare nei quartieri reali, nelle piazze, sulle serrande abbassate delle periferie. Così, ad Anzio in provincia di Roma nel quartiere Lavinio Stazione, diventa non più un luogo complesso, con disoccupazione, marginalità e assenza di servizi, ma il simbolo narrativo perfetto: un laboratorio dove dimostrare che il “degrado” ha un’origine unica e semplice. Lo schema è sempre lo stesso: prendere un territorio fragile, sovraccaricarlo di significati allarmistici, trasformarlo in prova vivente del fallimento dell’integrazione. Nessuna analisi socioeconomica, nessun approfondimento sulle responsabilità istituzionali; solo la promessa che, togliendo gli stranieri, tutto possa magicamente tornare come prima.

È una formula che ha funzionato nella Francia di Le Pen e Zemmour, nei Länder orientali della Germania dove l’AfD avanza, nelle campagne austriache che hanno dato ossigeno all’estrema destra. In Italia prende la forma della “riconquista”: una parola che non riguarda l’amministrazione, ma il controllo simbolico, quasi militare, di spazi sociali. In questo quadro, la presenza di Luca Marsella, portavoce di CasaPound Italia — uno dei responsabili del movimento dei «fascisti del terzo millennio», guidato sempre dal presidente Gianluca Iannone, abituato all’attivismo aggressivo sul territorio — serve a dare solidità e riconoscibilità.

Marsella diventa l’anello di congiunzione tra la vecchia estetica neofascista e la nuova retorica identitaria, più social, più contemporanea, più presentabile ai media. La sua figura è un segnale: chi guida la remigrazione non è un fronte spontaneo di cittadini indignati, ma un’operazione politica costruita da realtà che da anni lavorano per radicarsi nei territori dove lo Stato arretra. Le manifestazioni di Mantova, Ancona, Trieste, Avellino, Verona e Brescia, Latina non sono episodi isolati: sono tappe di un’unica strategia nazionale. Le adesioni di piccoli amministratori locali, le foto con il tricolore sventolato come unica bandiera possibile, la retorica dell’“Italia che non si arrende”, l’idea di un Paese occupato da riconquistare: tutto costruisce una narrazione che sposta l’asticella politica verso ciò che fino a ieri sembrava impensabile.

Ed è proprio qui che sta il punto: in un’Italia in cui la destra al governo ha già spostato il baricentro culturale del Paese, la destra radicale può permettersi di fare un passo avanti e proporre — non più in forma clandestina, ma plateale, rivendicata — un progetto di ingegneria sociale che rimuove persone, identità, generazioni intere. Ciò che questa campagna racconta, città dopo città, non è solo un disagio reale o una rabbia popolare, che esistono, ma la scelta politica di indirizzarli verso la soluzione più ruvida, più spiccia, più esplosiva: eliminare lo straniero dal quadro, come se fosse una macchia da cancellare. È un’idea che piace perché è semplice, perché non richiede visione, investimenti, politiche urbane, lotta alle disuguaglianze, riforme educative. È molto più facile dire “via loro” che dire “via ciò che ha prodotto questo”.

E così la remigrazione si presenta come l’ennesima scorciatoia identitaria, un’illusione di ordine che rischia di diventare la nuova grammatica della destra italiana: prima suggerita, poi tollerata, poi normalizzata. Fino al punto in cui non sarà più un tabù, ma un’opzione. Ed è proprio allora che diventerà troppo tardi.
Linda Di Benedetto
Pubblicato martedì 18 Novembre 2025
Stampato il 18/11/2025 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/remigrazione-e-riconquista-la-deriva-nera-dalle-piazze-alle-periferie/







